La sinistra d'Israele è borghese e sta in città. Addio ai kibbutz

Giulio Meotti

“Il Labour non è di sinistra”. E’ con questa parola d’ordine che Shelly Yachimovich si appresta a riportare i laburisti israeliani secondo partito del paese, dopo il Likud del premier Benjamin Netanyahu, alle elezioni che si terranno il prossimo 22 gennaio. Dopo anni di declino torna in auge il partito-simbolo che ha fatto lo stato ebraico e che per tre decenni lo ha governato indisturbato.

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    “Il Labour non è di sinistra”. E’ con questa parola d’ordine che Shelly Yachimovich si appresta a riportare i laburisti israeliani secondo partito del paese, dopo il Likud del premier Benjamin Netanyahu, alle elezioni che si terranno il prossimo 22 gennaio. Dopo anni di declino torna in auge il partito-simbolo che ha fatto lo stato ebraico e che per tre decenni lo ha governato indisturbato. Yachimovich, la seconda donna a prendere la guida laburista dopo Golda Meir, è una giornalista popolare che sembra aver fatto sua la regola d’oro con cui i laburisti hanno sempre vinto le elezioni: spostandosi a destra sulla sicurezza per meglio “neutralizzarla”, visto che la sicurezza è lo storico cavallo di battaglia dello schieramento opposto. Così è stato con Yitzhak Rabin nel 1992 e nel 1999 con Ehud Barak. E così sta facendo Yachimovich.

    “Shelly è la sinistra finta”, ha denunciato su Haaretz il corsivista bastian contrario Gideon Levy, che accusa la leader laburista di “sciovinismo”. “E’ tornato il vecchio Labour: giustizia sociale solo per gli israeliani”. Yachimovich è stata attaccata da altre penne storiche come Avirama Golan, Nehemia Shtrasler e da Zeev Sternhell. In un’intervista con Yedioth Ahronoth a cinque settimane dal voto, Yachimovich ha detto che il budget per gli insediamenti “non si tocca”. Poi ha scandito la sua posizione “clintoniana”: “Ritorno ai confini del 1967, ma tenere i blocchi di insediamenti”. Una rivoluzione persino rispetto alla proposta di Ehud Barak del 2000, disposto a cedere tutto a Yasser Arafat.
    A chi la attacca da sinistra, Yachimovich risponde che “il Labour non è di sinistra, ma un partito centrista, che cerca la pace in nome del pragmatismo e non di un romantico sogno. Rabin era un falco su questo”. Già, Rabin. Con le manifestazioni annuali in sua memoria che hanno perso forza, si fa avanti l’immagine dell’ex eroe di guerra e primo ministro falco pragmatico sulla sicurezza. In una conversazione con il quotidiano Haaretz, Yachimovich ha anche detto di non vedere i coloni come “criminali”, anzi il progetto di insediamenti “è stato fondato dai laburisti, è un fatto storico indisputabile”.
    Yachimovich ha una agenda economica liberal rispetto a quella di Netanyahu, raccoglie dunque le istanze delle famose “tende di protesta”, ma sulla sicurezza ha un profilo destrorso. La leader laburista ha votato per elevare allo status di università il principale college che sorge negli insediamenti, Ariel. Nel suo libro “Us”, Yachimovich nomina a malapena i palestinesi. Sarà anche per questo che Yariv Oppenheimer, leader di quella organizzazione “Pace adesso” che è simbolo del pacifismo israeliano, non è riuscito a ottenere uno slot elettorale realistico per entrare nel prossimo Parlamento. 

    Il Labour della Yachimovich è il più “bianco” di sempre. Se ne è andato per entrare nel partito di Tzipi Livni l’ex ministro della Difesa, Amir Peretz, il marocchino figlio di una lavandaia che quando venne eletto alla guida dei laburisti Haaretz scrisse: “Oggi, in Israele, è caduta la Bastiglia”. Il nuovo Labour è il simbolo della middle class che non si identifica più con la comunità agricola (i kibbutzim), quella militare (Ehud Barak) o con i burocrati di partito in sintonia con l’élite economica del paese (Shimon Peres). Per la prima volta i laburisti non porteranno in Parlamento membri del kibbutz.
    La voglia di destra in Israele ha avuto cascami anche sul partito storico della sinistra radicale, Meretz, il partito di scrittori come Amos Oz, Abraham Yehoshua e David Grossman. Pur di riguadagnare voti, e i sondaggi confermano come vincente questa strategia, Meretz ha dismesso il vecchio armamentario pacifista di Yossi Beilin per tornare a essere il partito di pari diritti per tutti, gay, atei, prostitute e arabi.
    Sotto la leadership di Beilin, vero architetto dei negoziati di Oslo, Meretz era sprofondato a tre seggi. Aveva perso molti elettori a sinistra, tra i giovani di Tel Aviv e tra le donne. “La comunità gay – aveva scritto Nahum Barnea su Yedioth Ahronoth – ha scelto Tzipi Livni e non Meretz. Cantanti come Ivri Lider hanno fatto coming out per lei”. Come nel Labour, è stata una donna, Zahava Gal-On, a risollevare le sorti di Meretz. Beilin aveva puntato tutto sull’immagine pacifista, ma ha allontanato altri sostenitori, quelli che sceglievano Meretz per le cause sociali, come la battaglia per abbassare i prezzi degli appartamenti a Tel Aviv. “La società israeliana si sta spostando a destra – ha scandito l’ex deputato Avshalom Vilan – e c’è bisogno di una forza alternativa più grande”.

    Meretz, che all’epoca del governo Rabin poteva contare sul dieci per cento dei seggi in Parlamento mentre nelle ultime elezioni ha ottenuto solo il due per cento, torna alla tradizione che fu di Yael Dayan, la figlia di Moshe, eroe nazionale vincitore della Guerra dei sei giorni del 1967, e della femminista Shulamith Aloni, che invitava gli ospiti in Germania, durante una visita ufficiale, in un ristorante non kosher, dove venivano serviti gamberetti e maiale.
    Meretz non porterà più in Parlamento vecchie icone pacifiste, ma Michal Rozin, l’attivista che combatte gli stupri, e arabi come Issawi Frej. Non entreranno alla Knesset Avshalom Vilan e Mossi Raz, ovvero, come nel Labour, per la prima volta dal 1992 non ci saranno rappresentanti dei kibbutz, di cui appena tre anni fa Haaretz  scriveva “hanno cambiato la faccia della terra e dello stato di Israele”.
    E’ finita l’èra degli halutzim (i pionieri) che coltivavano la terra, come Golda Meir nel kibbutz Merhavia. La sinistra oggi alberga nella middle class bianca, liberal e urbana. Segno dei tempi, il partito di Lieberman, Yisrael Beiteinu, sembra stia conquistando numerosi consensi nei kibbutz.

    (La prima puntata è uscita lo scorso 19 dicembre)

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    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.