A morte il quadro

Angiolo Bandinelli

"Quella esperienza sensoriale che è la pittura non esprime/comunica (“convey”) nulla, non descrive alcunché e non rappresenta alcunché, soltanto se stessa”… E’ un ritorno ai “valori tattili” di Berenson? L’assonanza c’è, e ce n’è forse anche un pizzico con i “Valori plastici” di Broglio. Ma il competente critico suggerirebbe un rimando più stringente, quello a Rudolph Arnheim, il teorico della Gestaltpsychologie, in gran voga alla metà del secolo scorso.

    "Quella esperienza sensoriale che è la pittura non esprime/comunica (“convey”) nulla, non descrive alcunché e non rappresenta alcunché, soltanto se stessa”… E’ un ritorno ai “valori tattili” di Berenson? L’assonanza c’è, e ce n’è forse anche un pizzico con i “Valori plastici” di Broglio. Ma il competente critico suggerirebbe un rimando più stringente, quello a Rudolph Arnheim, il teorico della Gestaltpsychologie, in gran voga alla metà del secolo scorso. Arnheim è esplicito: “Ogni percezione è anche un pensare, ogni ragionare è anche intuizione, ogni osservazione è anche invenzione”, non esistono insomma sensazioni elementari singole e separate, la percezione – di un evento, di una cosa – è un fatto unitario nel quale il tutto, la complessità, non è una sommatoria di elementi, di dati elementari, riuniti da una attività seconda, cioè il pensare, il giudicare, ecc. Siamo al 1974, e le prime mostre importanti di Günter Umberg – l’artista cui dobbiamo l’assiomatico statement iniziale – risalgono al 1973. Allo stesso critico affideremo il compito di districare questo intreccio di assonanze, di forzature, di rimandi, di assassinii (niente paura, parliamo di assassinii culturali): assonanze e forzature, rimandi e forse anche assassinii, hanno sempre qualcosa da rivelarci quando si parla di arte del Novecento, tutta un inseguirsi di corsi e ricorsi, di ricerche che si incrociano e magari, credendo di elidersi reciprocamente, finiscono con tenersi assieme a formare il panorama del secolo in tutti i suoi iridescenti manierismi. Infine, come lasciar fuori Warhol: “Io non penso, vedo”?
    Girello per la mostra di Günter Umberg, nelle luminose sale della Galleria Fiorentini di via Margutta 17. La mostra resterà aperta fino al 31 gennaio. Mentre si snoda la cerimonia della presentazione del catalogo mi pongo interrogativi (mi rimbalza anche qualche risposta) e mi perdo in divagazioni forse non oziose. Sfoglio il catalogo: nato nel 1942 a Bonn, Umberg vive tra Colonia, in Germania, e Corberon, in Francia, assieme alla moglie Elizabeth Vary, una ottima artista che anch’essa espone qui a via Margutta. Umberg comincia a lavorare seriamente attorno ai trent’anni ma subito è un susseguirsi incalzante di esposizioni, singole o “collettive” (dico “collettive”, ma tali non sono). Qui a via Margutta arriva con cinque opere, coerenti con il suo lungo percorso. I cinque pezzi si accompagnano a opere di altri artisti, che Umberg ha selezionato personalmente. Nomi raffinati: John Coplans e Jean Fautrier, Richard Long e Maurizio Mochetti, Giorgio Morandi, Giuseppe Penone, Giulio Paolini, Marco Tirelli, Elizabeth Vary. Perché sono messi assieme? Cerchiamo di capirlo seguendo, appunto, Umberg.
    Gli addetti al mestiere sanno da tempo che l’artista di Bonn ama questa formula espositiva “a più voci” – non si tratta dunque di “collettive” – addirittura teorizzandola come momento centrale del suo bagaglio culturale ed estetico: puntigliosamente, sostiene che l’artista deve sostituirsi al critico, assumerne consapevolmente, forse rubargli, il ruolo. Nel catalogo, curato dalla gallerista Erica Ravenna Fiorentini e presentato da Guglielmo Gigliotti, gli tira la volata Carla Lonzi, figura celebre del pantheon del movimentismo femminista del secolo scorso ma anche critica d’arte: “La nostra società ha partorito un’assurdità quando ha reso istituzionale il momento critico distinguendolo da quello creativo e attribuendogli il potere culturale e pratico sull’arte e sugli artisti”. Così, tra il 1982 e il 1988, a Colonia, Umberg realizzò e presentò in successione mostre di una trentina di artisti di altissimo livello – titolo generale, ”Raum für Malerei” – che furono eventi (e, alla fine, un solo evento) memorabili. I selezionati avevano, nella diversità di ispirazione, di materiali, di tecniche, una identica, esplicita persuasione: l’arte non deve e non può veicolare (appunto) “informazioni”, ma essere solo oggetto di una percezione visiva.

    Per la verità, a questa constatazione ci siamo arrivati anche per altre vie. Da un bel po’ l’arte produce ed espone non più quadri o sculture, ma oggetti, materia, corpi, installazioni, performance ed eventi. Il pennello ammuffisce in un angolo (resta talvolta la pennellessa, ma non è la stessa cosa) e viene abbandonato il quadro inteso come finestra che si apre sul mondo e ce lo squaderna davanti, il mondo ci arriva in presa diretta, sia pure in frammenti triturati. Niente mediazioni: l’oggetto, la forma, stanno lì a portata di mano. Forse c’è un pizzico di illusione in tanti manifesti, in tante dichiarazioni, in tante intransigenti teorizzazioni che puntano a ridurre lo spazio dell’interpretazione, del “racconto”, della “spiegazione”: nonostante tutto – anche dopo l’orinatoio di Duchamp, anche dopo che Donald Judd nel 1963 a New York, per la prima volta, invece che quadri espose oggetti realizzati manualmente, anche dopo esserci sorbiti la sequela infinita di cruda materia, di cose brute, di corpi umani e animali più o meno nudi che ingorgano le sale delle più prestigiose gallerie pubbliche o private – abbiamo sentito altrettante modulazioni teoriche, altrettanto infinite “spiegazioni”, sempre petulanti, sempre assolute, sempre definitive, che tornavano perfino ad arrampicarsi sugli empirei della odiatissima metafisica (quando non a sbandierare l’opposto culto dell’arte “politica”, messa al servizio degli oppressi di tutto il mondo).
    Dopo l’evento di Colonia, Umberg ha continuato a realizzare le sue polifoniche esposizioni, offrendole al dialogo – oggi lo definiremmo “interattivo” – anche con lo spettatore. Tra le mani ho il bellissimo catalogo di un’altra, simile esposizione, “Body of Painting”, Museum Ludwig Köln, 2000: una sua retrospettiva con 26 opere più quelle di una ventina di altri artisti, tra i quali Warhol, Manzoni, Jasper Johns, Yves Klein e persino un espressionistico, inaspettato Oskar Kokoschka del 1918. Umberg è puntiglioso: la pittura, l’opera d’arte vive solo nell’incontro diretto con colui che la osserva. Nel suo percorso, il visitatore sarà catturato da invisibili correnti di energia, che lo attraggono verso l’opera d’arte fino al suo centro ideale (e qui mi ricorda le osservazioni di Roland Barthes su quello che lui chiamava il “focus” della fotografia, quel punto nel quale l’immagine si separa da ciò che racconta e assume il suo significato essenziale e più vero).

    Le cinque composizioni esposte alla galleria Fiorentini, “Territorium n. 20”, datate tra il 2001 e il 2010, sono “pigmenti” – in due tipi di nero, un verde bosco scurissimo, un verde petrolio e un verde acido – depositati in combinazione con resine damar a strati (fino a cinquanta) su sagome in legno o vinili, rettangolari o quadrate. L’effetto che ne risulta penso debba molto a questa elaborata tecnica, perché il colore – meglio: il pigmento – acquista la densità di un velluto, una materialità spessa, povera di vibrazioni come invece può accadere anche con Yves Klein e le sue tele in blu integrale o di variazioni sul tipo di quelle frequenti in Robert Ryman (i due artisti che meglio condividono le idee di Umberg). Mi viene detto che queste opere non sopportano che le si tocchi, la superficie trattiene la più leggera pressione e si deforma. Il pigmento di Umberg vive di se stesso e per se stesso, Derrida avrebbe detto “ il-n’y-a-pas de hors-texte”. Ha una sua piena autonomia, pretende di emanare una sua intrinseca forza di giudizio (Arnheim fu anche critico cinematografico, dunque attento al fatto che l’occhio trattiene una percezione dell’immagine: in questo caso, il fotogramma…). Eppure questa intransigenza non convince. Provate a rimuovere i blocchi sagomati, e i loro pigmenti, dal contesto – la parete – immaginateveli staccati dai loro chiodi e appoggiati a terra. Non saranno più loro stessi. Le opere di Umberg – quasi sempre rettangoli assai allungati, una dilatazione del formato quadrato, pitagorico, posti in verticale o in orizzontale – si collocano sapientemente nello spazio, lo creano. Innanzitutto esigono, attorno a sé, un vuoto ampio e silenzioso. In questo vuoto ritagliano il “loro” spazio: hanno bisogno, direi, di “respirare”. Trovo, nel bellissimo catalogo della mostra del 2000, che i “pannelli di un nero vellutato non proiettano colore, nello spazio che li circonda, la loro concentrata energia non si estende nello spazio”. Però, appunto, lo richiama così come un “buco nero” nel vuoto dell’universo attrae, risucchia e fa scomparire in sé lo spazio circostante. Il titolo della mostra romana, “Dalla realtà alla profondità”, definisce bene il senso del lavoro di Umberg, l’impressione che le cinque tavole offrono è esattamente quello della profondità. Si è assorbiti da una sensazione illusionistica, però tattile oltre che visiva.
    Ci si può chiedere cosa significhi tanta pazienza, cosa giustifichi questa ascesi della pennellata, cosa garantisca questa ricerca della perfezione. Ci si può interrogare sul perché di quei cinquanta, cento passaggi successivi di colore, il cui spessore solo l’artista arriva a cogliere ma che possono sfuggire all’osservatore comune. Il quale – prepariamoci – dinanzi a opere come queste continuerà a domandarsi, a chiederci, insistentemente “Cosa significa?” Che noia, la domanda-trabocchetto alla quale non si può dare risposta, almeno da quando c’è la consapevolezza che la risposta non può essere che una sola: “Non significa nulla, non deve significare nulla”. Lo spettatore rimane lì, convinto di essere stato un po’ preso in giro, lui che è stato educato diligentemente, a scuola, che Raffaello o Rembrandt, persino un Van Gogh “significano” qualcosa. Oggi, le cose sono cambiate, potremmo attenderci un significato non proprio attinente all’arte, forse piuttosto alla religione. Volete capire cosa intendo? Sempre a Roma, a Palazzo Venezia, è aperta una esposizione di una quindicina di icone bizantine, provenienti da chiese romane o laziali, poco o nulla note al pubblico. Lì, dinanzi all’oro zecchino di quei fondi proverete probabilmente la stessa sensazione suggerita dai riquadri di Umberg, una sensazione il cui significato è completamente al di fuori dell’estetica, perché resta solo e tutto sul piano del mistero mistico.

    “Vedere” è un atto creativo di per sé; il giudizio sull’opera d’arte non è una operazione mentale che si aggiunge all’atto del puro e semplice vedere, ma è suo ingrediente primario. Va bene, ormai è perfino banale, non c’è nemmeno più bisogno della Gestaltpsychologie con le sue complicazioni. Ma lo spettatore continua a sbuffare, ci guarda stralunato e se ne va. Ignoriamolo, alla fin fine è solo uno stupido ignorante piccoloborghese…. Ma forse dobbiamo rassegnarci: l’opera d’arte contemporanea è destinata a essere “fruita” (si dice così?) sempre e solo da un po’ di gente smaliziata o comunque partecipe del gioco, complice. Almeno, finché non avremo reintegrato arte e religione, finché insomma non ci ritroveremo a venerare il blu o il verde di Umberg come l’oro zecchino delle icone.
    Nella loro consistenza puramente materica, nella loro (aristocratica, democratica?) solitudine, le tavole di questo artista avviano però un dialogo con le altre opere esposte. Sono opere di artisti come Tirelli e Coplans, Mochetti o Penone, Long, Paolini, Vary, Fautrier. Ma c’è pure Morandi, di cui è esposto un piccolo quadro del 1961, quando l’artista aveva asciugato le sue tele sotto semplici campiture gessose, ormai incuranti anche di quelle bottiglie o vasi che lo eccitavano per la forma metafisica e l’armonia tonale e che con i loro toni fanés sembravano uscite dalle pagine, se non di Proust almeno del Palazzeschi delle “Sorelle Materassi”. Si capisce bene perché Umberg abbia inserito nella sua mostra queste campiture gessose, puramente materiche, volutamente sorde alla luce. Dirimpetto al Morandi, un altrettanto gessoso Fautrier del 1959 dalle delicate tonalità rosea, verde, grigio. Il dialogo tra i tre artisti è in fondo abbastanza comprensibile e accettabile, più difficile e complesso quello con opere di Tirelli, Giulio Paolini, Richard Long o Elizabeth Vary, che espone meteoriti affilati come cristalli. Va notato che molti di loro sono pressoché coetanei (Penone è del 1947, Mochetti del 1940, Long del 1945…), vale a dire respirano tutti una identica esperienza culturale. Tirelli, teso e, come sempre, limpido, con il suo “découpage” che sembra realizzato con i font di quei “caratteri speciali” che troviamo nel computer; Long con un misterioso sentiero circolare di sassi, un patetico micro-Stonehenge, mentre Coplans esibisce l’“autoritratto” di due enormi piedi come zampe d’un mostruoso mammuth. Penone ci offre l’impronta delle fronde di un gigantesco albero rovinato a terra – o forse è l’impronta lasciata dalla peluche del sesso di una gigantessa, Mochetti lancia per aria scie di fili inox come quelle di razzi fumogeni sfuggiti a ogni controllo e Paolini abbandona casualmente su un parallelepipedo bianco una fotografia, un rettangolino di plexiglas e una enigmatica pietra.

    Questi artisti ci arrivano da un tempo storicizzato anche se impreziosito e cristallizzato, ma in questa collocazione sembra che sfidino tale monumentalizzazione. Si scoprono di nuovo, quasi estraniati a se stessi. Cosa unisce – ora e qui – opere nate per essere diverse e forse non comunicanti (Umberg addirittura riconosce che sono “eterogenee” tra di loro)? Una risposta arriva allo spettatore dalla semplice osservazione: aggirandosi tra l’una e l’altra, alla fine lui finirà con lo sperimentare una riflessione un po’ ansiosa e smarrita che non consente vie di mezzo: un prendere o lasciare, stralunato. Un’altra risposta ha invece il tono alto dell’osservazione critica: questa è tutta “pittura radicale”, un aggettivo che credo lo stesso Umberg abbia introdotto ai primi degli anni 80, collaborando con il pittore Joseph Marioni. Pittura “radicale”, un’arte cioè che – ancora una volta – “esiste come oggetto concreto nel mondo reale e offre il minimo di informazione e il massimo di sensazione rispetto a ogni pittura”, consentendo l’esperienza di una qualche “essenza primordiale”. Sottratti alla consueta (logora?) lettura cui sono inchiodati, gli artisti qui esposti acquistano una nuova espressione – o espressività. Davanti alle opere (o meglio, “operazioni”) esposte a via Margutta si è costretti ad abbandonare ogni perplessità, si deve accettare esattamente quello che si vede. La realtà è lì in quella loro elementare materia, la profondità è nel vuoto che essa produce.
    Ci si lamenta perché la nostra è una civiltà non più della parola ma dell’immagine: beh, che male c’è? Purché non diventi un vizio, qualche volta anche noi, come Carla Lonzi, potremmo sputare su Hegel: sant’Iddio, perché non concederci ogni tanto un gesto liberatorio?