L'oppio dei popoli e l'hashtag di Dio

Paolo Rodari

Sotto la brace della polemica apertasi poche ore prima del debutto del Papa – @pontifex – su Twitter fra la Civiltà Cattolica, prestigiosa rivista dei gesuiti, e l’Osservatore Romano c’è un fuoco che arde con una certa forza. Per l’Osservatore, o meglio per Cristian Martini Grimaldi, 36enne editorialista del foglio vaticano che ha scritto un pezzo intitolato “Tra realtà e pregiudizio”, la Rete è solo una “bolla priva di realismo fisico”.

    Sotto la brace della polemica apertasi poche ore prima del debutto del Papa@pontifex – su Twitter fra la Civiltà Cattolica, prestigiosa rivista dei gesuiti, e l’Osservatore Romano c’è un fuoco che arde con una certa forza. Per l’Osservatore, o meglio per Cristian Martini Grimaldi, 36enne editorialista del foglio vaticano che ha scritto un pezzo intitolato “Tra realtà e pregiudizio”, la Rete è solo una “bolla priva di realismo fisico”. In rete, dice, finiamo o finiremo tutti per essere “hikikomori”, quei giapponesi che vivono isolati dal resto del mondo. Per Antonio Spadaro, invece, direttore della rivista dei gesuiti, è Martini Grimaldi a essere privo di realismo: “Ma come si fa ancora a ragionare in questo modo?”. E ancora: “E’ insomma come se io parlassi dei criminali (della vita ‘reale’) e quindi deducessi che il mondo è un posto cattivo. L’autore dell’articolo dimentica tutta la solidarietà che si esprime in rete, l’open source, lo scambio virtuoso… Per lui tutto questo non esiste: finiremo tutti per essere hikikomori”. Una scaramuccia frizzante, sotto la quale ad affiorare sono due visioni contrapposte e antagoniste nell’interno dell’orbe cattolico. Da una parte gli antichi, dall’altra i moderni, nel mezzo il tentativo sempre in itinere d’essere come Montini auspicò nel 1950, in una missiva a Jean Guitton: la chiesa deve sapere parlare secondo la tradizione cristiana, certo, ma perché gli uomini e le donne del nostro tempo capiscano. Così tentarono di fare i predecessori di Ratzinger. A cominciare da Pio IX che scrisse il Sillabo, pillole (come dei tweet) di spietata saggezza. E Leone XIII che nel 1885, contestato dall’Osservatore, allora organo indipendente, reagì stupendo tutti: se lo comprò divenendone editore.

    Certo, l’equilibrio di Montini non è meta facile. Anche Carlo Maria Martini provò a raggiungerla. Ma il risultato fu che dopo un inizio di grandi aperture, anch’egli sorprendentemente ripiegò: nel 1991 scrive “Il lembo del mantello”, una lettera pastorale che prende avvio dal bene positivo della comunicazione, considerando la Trinità come primo processo comunicativo e fonte di comunicazione umana e interumana: “Come il lembo del mantello di Gesù, alla donna che lo tocca con fede, trasmette qualcosa della forza stessa di Gesù, pur senza essere il Signore, così il sistema comunicativo mass-mediale può trasmettere qualcosa del mistero di Dio pur senza essere il Mistero”. Ma il 13 settembre 1995, la marcia indietro. Martini, a Graz, apre il congresso dell’Unione cattolica internazionale della stampa e “tenendo conto di quanto era avvenuto nel frattempo (guerra in Iraq) e di un certo deteriorarsi della comunicazione, visibile specialmente nei grandi quotidiani e nel linguaggio televisivo”, confessa di aver “cambiato immagine”. E si serve di un’icona di tipo negativo: “I mercanti cacciati dal tempio”. Vi è chi, spiega, “pretende di introdurre nel tempio della comunicazione la moneta falsa o il falso commercio di notizie atte a creare violenza o diffidenza o comunque contrasto tra la gente”. Costui “merita di essere cacciato dal tempio, come Gesù ha cacciato i mercanti”. E poi l’allarme – i biografi dicono motivato dai danni che vedeva compiersi nei seminari attraverso Internet, se usato dagli aspiranti sacerdoti senza criterio – dedicato al Web. Usare Internet, dice, è come entrare “in una biblioteca grande, dove ci vuole un criterio di scelta. Non posso andare in biblioteca e prendere i libri così a caso. Devo sapere cosa voglio, qual è la via che debbo seguire, quali sono le persone che posso ascoltare”.

    Spadaro è d’accordo col primo Martini ma, in fondo, comprende bene anche il secondo: “E’ vero, la Rete è luogo di rischi. Anche molto gravi. Ma si impara a vivere non solamente evidenziando i rischi e alimentando le paure, ma anche affrontando i problemi. Solo così è possibile evitare la deresponsabilizzazione. E’ chiaro che i media potenziano alcuni aspetti negativi, dalla stampa in avanti. Anzi, direi, dall’invenzione della scrittura in avanti. Ma potenziano anche molti aspetti positivi: la solidarietà, la condivisione, il pensare insieme… La Rete è ancora ‘bambina’. Bisogna puntare ad aiutare l’uomo a vivere bene al tempo della rete. Il compito è arduo, impegnativo e alto. Anche se volessimo non potremmo cancellare il cambio sociale e forse potremmo dire antropologico che la Rete sta imprimendo. Occorre, dunque, ragionare con coraggio. A mio avviso la strada giusta è evitare di pensare che viviamo due vite: una fisica e una digitale, una vera e una finta”.
    Prosegue Spadaro: “Così si fa crescere l’alienazione e la mancanza di responsabilità. La vita è una e l’ambiente digitale è parte di essa. Il digitale non può e non deve sostituire il reale. Ma non lo sostituirà, vampirizzando le vite dei nostri figli, solo se li aiutiamo a vivere l’integrazione e non la schizofrenia”. E ancora: “Quando il Papa chiede di ‘usare saggiamente’ le tecnologie della comunicazione centra il punto: ci vuole saggezza, vigilanza, prudenza cristiana. Questa saggezza è ciò di cui c’è bisogno, non di pessimismo capace solo di creare ulteriori schizofrenie. E’ un compito che richiede responsabilità. Quella responsabilità che non può essere oscurata da inaccettabili posizioni di determinismo tecnologico quali quelle espresse da Grimaldi”.

    Già, eppure, dice Fabio Pasqualetti, docente presso la facoltà di Scienze della comunicazione sociale dell’Università pontificia salesiana, la discesa del Papa su Twitter, seppure positiva, “sembra avere però i contorni di un’operazione di marketing”. Dice: “La chiesa si gioca oggi la sua credibilità soprattutto nella vita reale, nel sapere rispondere alle domande della crisi del lavoro, della speculazione finanziaria, dell’avidità del mercato, della corruzione della politica. La presenza sul Web, seppure importante, è secondaria alla necessità di rinnovamento che la chiesa dovrebbe fare. Anche la presenza del Papa su Twitter in questo senso mi sembra figlia di un’ebbrezza dovuta al fascino che la tecnologia esercita su chiunque nel promettere una quasi infinita espansione di se stessi. Ma, mi domando, poi cosa resta? E soprattutto: ha senso dire che il Papa sarà su Twitter se poi in pratica non starà nelle logiche di Twitter?”. Dice Greg Burke, advisor della comunicazione della segreteria di stato vaticana: “Il Papa non seguirà nessuno, è vero, ma si capisce perché: naturalmente ci sarebbero candidati eccellenti, per esempio gli eminentissimi cardinali, ma poi ci si chiederebbe perché non gli arcivescovi e così via. E allora è meglio che non segua nessuno”.
    I rischi ci sono. Martini Grimaldi incalza: “E’ giusto che anche il Papa sia su Twitter, certo. Ma i messaggi di Twitter del Papa in un epoca di ateismo dilagante corrono il rischio di venire banalizzati, perché esposti alla derisione, al commento stupido, alla battuta salace. Certo, lui saprà volare più alto anche di eventuali critiche. Ma in generale dico che a mio personale avviso non basta modificare il supporto con cui si comunica bisogna modificare anche il messaggio, come il pittore che per dipingere il remo nell’acqua, e far sì che sia realistico, deve storcerlo. In più manca il contesto di silenzio propizio alla riflessione per metabolizzare i messaggi di senso, contesto che in Rete è suscettibile di continue distrazioni. Le obiezioni di Spadaro sono condivisibili ma hanno dei limiti. Egli sostiene che la Rete ci apre a infinite possibilità di relazione. Vero. Ma la vita è unica, irripetibile. La Rete offre molte chance ma ne esclude altre. Essere connessi significa isolarsi dal contesto sociale nel quale ti trovi a navigare: se sei a casa è possibile che ti si aprano opportunità per relazionarti col mondo, ma se sei in viaggio e non ti guardi intorno le occasioni le perdi. Ritornando alla polemica sugli ‘hikikomori’: in Giappone c’è chi pensa che ormai la parola vada affibbiata anche a coloro che possiedono uno smartphone. Perché l’alienazione ormai è uscita dalla cameretta di casa, è ovunque, ed è ben visibile. Moe, in Giappone, è un altra parola chiave per capire il fenomeno: identifica tutti quei ragazzi che si infatuano di personaggi virtuali – manga, video giochi – al punto che questi ragazzi rifuggono qualsiasi incontro reale. E a rischio sono soprattutto coloro che già soffrono di disabilità mentali, ad esempio i disturbi da deficit di attenzione. Varie ricerche inoltre dimostrano come le compagnie di social gaming network via cellulare (Gree, Dena), studino sistemi per rendere i loro utenti sempre più dipendenti”.

    In queste ore sull’hashtag #askpontifex dove chiunque può inviare al Papa domande, arriva di tutto. Anche insulti. Ma Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali, difende la scelta: occorre rispondere, dice, alla domanda circa “l’opportunità o meno di dare importanza al modernismo”. Fino a che punto aprirsi al mondo? Celli ricorda Paolo VI che nella “Evangelii nuntiandi” del ’75 già parlava “del senso di colpa davanti a Dio che avrebbe dovuto provare la chiesa qualora non avesse usato tutti i mezzi messi a disposizione della tecnologia per annunciare il Vangelo. Per non parlare poi del desiderio di Benedetto XVI di andare a incontrare l’uomo e la donna ovunque essi si trovino e instaurare con loro un dialogo. Un dialogo intessuto sì nel telaio dei centoquaranta caratteri, ma strutturato nella forma stessa dei versetti biblici, a testimoniare che l’essenzialità del messaggio può essere colta in poche parole: tutto dipende dallo spessore di chi lo lancia e da quello che lo riceve. In questo senso le parole del Papa saranno pillole di saggezza”.