I Tuareg hanno l'aria talebana

Carlo Panella

Oggi si riunisce a Roma, nella sede della Fao, il cosiddetto gruppo di contatto sul Mali. L’incontro è stato voluto da Romano Prodi, inviato speciale delle Nazioni Unite per il Sahel, per mettere insieme Onu, Unione africana, Francia, Regno Unito, Algeria, insomma gli interlocutori principali per la crisi in corso. Non ci saranno grandi sorprese, visto che lo stesso Prodi ha definito il summit una “riunione di approfondimento”, che riunisce “tutti quelli che devono mettere mano a questo problema” per dare un messaggio chiaro: “Ci si sta occupando” della situazione.

    Il premier Cheick Modibo Diarra ha annunciato alla tv nazionale le sue dimissioni e quelle del suo governo, poche ore dopo essere stato arrestato dai militari golpisti. Visibilmente teso, Diarra, si è limitato a menzionare la grave situazione di crisi in cui si trova il Paese prima di annunciare il suo addio. L'annuncio ha seguito di poche ore il suo arresto nel suo domicilio a Bamako da parte di una ventina di soldati agli ordini del capitano Amadou Haya Sanogo, l'ex capo del golpisti che lo scorso 22 marzo hanno rovesciato il presidente Amadou Toumani Toure, precipitando la caduta della parte settentrionale del Paese nelle mani degli islamisti. Nelle scorse settimane Diarra si era detto favorevole a un  intervento militare straniero contro i ribelli che hanno proclamato  unilateralmente l'indipendenza del nord del Mali, l'Azawad, e il capitano Sanogo l'aveva duramente criticato per questa mossa. Il militare ha guidato il golpe che a marzo ha fatto capitolare il  presidente Amadou Toumani Toure e, nelle settimane successive ha  ceduto il potere ai civili, consentendo la formazione del governo di  transizione del presidente Dioncounda Traore. Ma per molti osservatori resta Sanago la figura più influente del paese.

    Pubblichiamo l'articolo di Carlo Panella uscito sul Foglio di venerdì 7 dicembre

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    Oggi si riunisce a Roma, nella sede della Fao, il cosiddetto gruppo di contatto sul Mali. L’incontro è stato voluto da Romano Prodi, inviato speciale delle Nazioni Unite per il Sahel, per mettere insieme Onu, Unione africana, Francia, Regno Unito, Algeria, insomma gli interlocutori principali per la crisi in corso. Non ci saranno grandi sorprese, visto che lo stesso Prodi ha definito il summit una “riunione di approfondimento”, che riunisce “tutti quelli che devono mettere mano a questo problema” per dare un messaggio chiaro: “Ci si sta occupando” della situazione. Nella banalità della missione di questo vertice c’è persino un errore: non ci sono “tutti quelli che devono mettere mano al problema”. Sono assenti i movimenti ribelli che in Mali rappresentano sia “il problema” sia la sua soluzione. Si tratta della solita e verbosa “commissione di studio”, classico espediente cui ricorre un Romano Prodi del tutto digiuno di conoscenze nell’area, che ha il legittimo intento di prendere tempo a fronte di un radicamento di organizzazioni terroriste e jihadiste in Mali, diretta conseguenza della destabilizzazione dell’area provocata dalla guerra di Libia.

    Il problema di fondo è questo: al Qaida si è vista regalare dalla Nato – col modo dissennato con cui ha condotto la guerra contro il colonnello Gheddafi – non soltanto una alleanza insperata con alcune tribù tuareg in armi, ma anche l’agibilità e il controllo di una immensa regione, il Sahel, nell’Africa sub sahariana, territorio dalle caratteristiche perfette per il radicamento di un santuario terrorista. Tendenzialmente ignorata dai media mondiali, questa realtà è talmente incombente da essere considerata prioritaria sia dal segretario di stato americano, Hillary Clinton, sia dal presidente francese, François Hollande, entrambi coscienti della gravità estrema rappresentata da questo nuovo scenario eversivo.

    I tuareg e le genti del Sahel sono i soli che controllano e conoscono le mille vie per raggiungere indisturbati il Mediterraneo, mentre gli eserciti regolari del Maghreb scontano un’impossibilità fisica di controllare le migliaia di piste carovaniere che collegano il Sahel alla costa. Clinton e Hollande sanno bene che si è formato e si sta radicando un immenso santuario qaidista molto più vicino all’Europa di quanto non fosse l’Afghanistan, con tanto di controllo esclusivo di tre aeroporti internazionali e di una intera regione, l’Azawad, lo stato settentrionale del Mali con capitale la mitica Timbuctù.
    “Abbiamo avuto l’Afghanistan, ora è indispensabile che non nasca mai un Sahelistan”, diceva cinque mesi fa Laurent Fabius, ministro degli Esteri di Parigi, lanciando il primo allarme alla comunità internazionale. Ancora nulla è stato fatto per cancellare questo Sahelistan. L’inazione ha una ragione quasi sconcertante: l’Algeria, il Burkina Faso e il Niger – ma anche la Francia e gli Stati Uniti – hanno timore dei tuareg. Temono cioè di infilarsi in un conflitto dalle dinamiche sconosciute e ben più complesse di quel caos afghano in cui l’occidente si muove con difficoltà dal 2001, con i tuareg in un ruolo non molto dissimile da quello dei talebani.

    La ragione di questi timori è semplice: i cinque milioni di tuareg e le varie etnie che abitano il Sahel – la regione che parte dalla Mauritania e comprende il sud dell’Algeria, il nord del Mali, il Fezzan libico e il Niger – sono di religione islamica ma non arabi, e con i regimi arabi sono in una situazione di endemica tensione. I tuareg sono berberi (discendono dalle popolazioni autoctone) e hanno una propria identità così ribelle alle capitali arabe che ha permesso loro di mantenere una propria lingua, al punto che non si definiscono neppure tuareg (termine occidentale) ma Kel Tamahaq, “coloro che parlano la lingua  Tamahaq”. I tuareg hanno conosciuto lunghi secoli di prosperità quando controllavano il commercio e le carovaniere tra il Mediterraneo, il Maghreb e la cosiddetta Africa nera. In particolare, si sono arricchiti per secoli con il commercio di schiavi da loro razziati nel Golfo di Guinea – in raccordo con committenti arabi – e per secoli venduti a tutti i paesi arabo-islamici, e poi (tra il XVII e la metà del XIX secolo) a Inghilterra, Stati Uniti e Brasile.

    Chiuso quel mercato, sono iniziati secoli di emarginazione dei tuareg, acuita nel secolo scorso dalla crescente emarginazione sociale e dalla dura repressione politica da parte dei regimi arabi dopo la decolonizzazione iniziata nel 1956, proprio a causa del loro incontrollabile nomadismo. Carestie disastrose (negli anni Ottanta e più recentemente nel 2005) hanno innescato fenomeni di rivolta che sono sfociati nella ribellione del 1990, duramente repressa dall’Algeria, a cui è seguita la formazione di movimenti armati di liberazione nazionale in Burkina Faso, Mauritania, Mali, Algeria e Libia. Questi movimenti sono stati foraggiati con usuale spregiudicatezza – ma anche una certa lungimiranza – dal colonnello libico Muammar Gheddafi che, al contrario dei regimi confinanti, ha inserito i tuareg libici nelle posizioni di privilegio del suo regime e ne ha arruolato a migliaia nelle sue Forze armate. E’ da sottolineare infatti che, in contemporanea alla rivolta strisciante dei tuareg, anche tutte le popolazioni berbere della costa del Maghreb (a eccezione della Libia) si sono ribellate, cosicché ancora oggi la Cabilia berbera è la regione più insanguinata da conflitti armati in Algeria. In estrema sintesi: l’autonomismo berbero è la più grande contraddizione interna ai paesi arabi del Maghreb (Tunisia inclusa).

    Per decenni, nonostante Gheddafi, l’equilibrio tra repressione e cooptazione attuata dai vari regimi ha marginalizzato le spinte eversive dei tuareg. Tuttavia, non appena è caduto il regime del colonnello, si è innescato un effetto domino di destabilizzazione che ha rapidamente dato vita a un Sahelistan. Questo esito era stato peraltro previsto con precisione da un inascoltato Gheddafi  – gli va riconosciuto – che ben sapeva quali forze eversive sarebbero scoppiate nel Sahel se fosse crollato il potere di controllo esercitato dal suo regime (con la collaborazione attiva dei tuareg).
    La stessa previsione è stata anche sempre condivisa dai dirigenti algerini, che  hanno denunciato l’avventurismo dell’intervento della Nato in Libia, dall’inizio alla fine. Non a caso, passati pochi mesi dalla morte di Gheddafi, migliaia di tuareg perfettamente armati e in possesso di notevoli finanziamenti si sono riversati in Mali dando un formidabile apporto militare alla rivolta tuareg che da anni covava nel nord del paese e nel Sahel. Nel giro di poche settimane a partire dal gennaio 2012 l’esercito del Mali è stato sconfitto e ha dovuto abbandonare l’intero Azawad che comprende Timbuctù, Gao e Kidal (quindi tre aeroporti internazionali in mano ai terroristi) e che è stato dichiarato indipendente da tre gruppi alleati: Ansar Eddin, Mujao e il “laico” Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla), che però ha in seguito contrastato i qaidisti e gli islamisti. Il governo di Amadou Toumani Touré, a Bamako, è stato abbattuta il 22 marzo scorso da un golpe di sottufficiali (per protesta contro i generali corrotti che li avevano mandati al massacro disordinatamente in Azawad) e non è stato sostituito da nessun esecutivo effettivo (il nuovo presidente Dioncounda Traoré e il suo primo ministro Modibo Diarra emanano ordini che nessuno esegue).

    Da allora l’Azawad è diventato un santuario jihadista forse più pericoloso di quello formatosi tra il 1996 e il 2001 in Afghanistan. Un santuario immenso in una regione semidesertica che ha permesso di creare un’area ideale che congiunge la sfera d’influenza del Boko Haram del nord della Nigeria con quella di al Qaida del Maghreb (Aqmi), che si è radicata in Mauritania e nel sud dell’Algeria, con un nuovo gruppo terrorista appena scisso dallo storico Polisario (tuareg e arabi in lotta col Marocco per l’indipendenza dell’ex Sahara spagnolo) e il Mujao (Movimento per l’unicità del jihad nell’Africa occidentale) di fatto alleato con i fondamentalisti di Ansar Eddin di Iyad Ag Ghaly. Un santuario verso cui si stanno dirigendo centinaia di jihadisti dai più vari paesi arabi, come registrano allarmati i servizi di sicurezza francesi. Un santuario in cui è stata imposta la più rigida sharia, in cui sono state distrutti decine di santuari di sufi, patrimonio dell’umanità secondo l’Unesco, nella città santa di Timbuctù, in cui si radicano indisturbati i semi del fondamentalismo jihadista.

    Passati otto mesi dalla conquista dell’Azawad e cinque mesi dall’allarme di Fabius, la missione militare internazionale che l’Onu ha deliberato di inviare in Mali per sconfiggere i qaidisti e i fondamentalisti stenta però a decollare, dal momento che sono sempre più evidenti i timori che questo intervento militare allargherà e radicherà il Sahelistan, invece di sconfiggerlo. Questi timori sono stati perfettamente spiegati da un capo tuareg algerino, Mohammed Guemama, eletto a Tamanrasset, parlamentare fedelissimo del Fnl (partito di regime ad Algeri), quindi insospettabile di simpatia per l’area qaidista, che a fine ottobre ha dichiarato: “L’intervento militare in Mali ha obiettivi coloniali. Possiamo programmare l’inizio delle operazioni militari, ma mai la fine, l’esempio della Libia è eloquente”. Guemama ha insomma detto pubblicamente quello che il presidente algerino Bouteflika ha cercato – invano – di spiegare negli stessi giorni a Hillary Clinton, volata ad Algeri per ottenere un impegno militare diretto dell’Algeria in Mali. Questo impegno militare vede per altro Francia e Stati Uniti intenzionati a non inviare un solo soldato sul terreno per limitarsi a un appoggio logistico e d’intelligence – che è già stato dispiegato – e vede anche l’Algeria titubante.

    Alla fine, la “guerra dell’Azawad” vedrà scendere in campo 3.300 militari – essenzialmente del Burkina Faso, del Niger e della Mauritania – con l’apporto minore di altre nazioni della regione come è stato deciso l’11 novembre nella riunione del Cedeao, la confederazione dei paesi dell’Africa dell’ovest che ha chiesto formale autorizzazione all’inizio delle operazioni al Consiglio di sicurezza. Si tratta di una forza d’intervento africana dalle  capacità militari non eccelse, che forse sarà in grado, grazie al sostegno dell’aviazione algerina,  di riconquistare le città di Gao, Timbuctù e Kidal, con i loro aeroporti strategici, ma che comunque non può garantire il controllo dell’immenso territorio.
    Per di più questa missione militare – come riportano autorevoli fonti diplomatiche francesi citate dal Monde – sarà tenuta in stallo, anche dopo che l’Onu l’avrà autorizzata, ancora per mesi e mesi. La ragione di questo temporeggiare è presto detta: Algeria, Niger, Burkina Faso e Ciad temono che un attacco frontale contro i tuareg libici e maliani dell’Azawad abbia un effetto di contagio tra i tuareg dei loro paesi. Per evitarlo, si sono impegnati nel tentativo di convincere Ansar Eddin di Iyad ag Ghaly (che in Mali svolge un ruolo simile a quello dei talebani in Afghanistan) di dissociarsi dai qaidisti e di combatterli. Il presidente del Burkina Faso, Blaise Campaoré, ha avuto nelle scorse settimane intensi incontri in questo senso con Iyad Ag Ghaly, ottenendo però solo una dissociazione verbale del terrorismo e il rifiuto netto di prendere le armi contro i qaidisti dell’Aqmi e gli jihadisti del Mujao.
    Ci sono quindi tutte le premesse minuziosamente poste dall’Onu, da Hollande, da Clinton e da Prodi per procrastinare, di summit in summit, l’operazione di riconquista del Sahelistan. Privi di idee, di conoscenza del contesto, gli stati che hanno abbattuto dall’esterno il regime di Gheddafi, senza rendersi conto delle forze infernali che avrebbero messo in moto, stanno riuscendo nell’impresa di trasformare i tuareg in una forza più pericolosa dei talebani. Per di più in una regione a ridosso del Mediterraneo e dei pozzi petroliferi libici e algerini. Un disastro. Multilaterale e molto obamiano. Ma un disastro.