Parla il globalista Parag Khanna

Cina a doppio taglio

Alberto Brambilla

Mentre la Cina annuncerà oggi il decennale cambio della guardia del Partito comunista, molti analisti pensano che la Repubblica popolare continuerà a cercare più potere nelle organizzazioni globali, come World trade organization o Fondo monetario internazionale. Ebbene, sono fuori strada. Almeno secondo Parag Khanna, consigliere per la politica estera di Obama nella campagna elettorale di quattro anni fa, Pechino cercherà di giocare il più possibile in casa, a livello regionale. “Non penso che la Cina cerchi una sfida diretta nelle organizzazioni internazionali”, spiega Khanna al Foglio.

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    Roma. Mentre la Cina annuncerà oggi il decennale cambio della guardia del Partito comunista, molti analisti pensano che la Repubblica popolare continuerà a cercare più potere nelle organizzazioni globali, come World trade organization o Fondo monetario internazionale. Ebbene, sono fuori strada. Almeno secondo Parag Khanna, consigliere per la politica estera di Obama nella campagna elettorale di quattro anni fa, Pechino cercherà di giocare il più possibile in casa, a livello regionale. “Non penso che la Cina cerchi una sfida diretta nelle organizzazioni internazionali”, spiega Khanna al Foglio, “perché in quel contesto non si è mai mossa da sola, agendo insieme alle altre potenze emergenti, ad esempio, per la richiesta di più diritti di voto al Fmi”. “Non si dovrebbe misurare la crescente influenza cinese solo da quanto sta facendo nelle organizzazioni mondiali esistenti, dovremmo guardare alle nuove istituzioni”, aggiunge Khanna, che  per studio viaggia dall’Asia, all’Africa, all’America latina (il suo saggio “The Second World” è anche un diario di viaggio nella cultura e nella geopolitica dei paesi emergenti). Quali sono i nuovi contesti nei quali si muoverà Pechino? “L’Asian development bank, la creazione dell’Asian monetary fund, e la Shanghai cooperation organization che sono molto più importanti a livello regionale”. Con quale impatto? “Non sappiamo con certezza quali saranno gli effetti di questa postura cinese più aggressiva ma avrà un effetto destabilizzante in Asia, al pari dell’intervento americano in Iraq per il medio oriente”, afferma Khanna riferendosi in particolare alla riaccesa disputa secolare sull’arcipelago delle Senkaku, isole di proprietà giapponese contese sia dalla Cina sia da Taiwan. Nel contesto asiatico la posizione americana è stata di creare un dialogo ad ampio raggio con le nazioni dell’area, in particolare nel forum economico del sud-est asiatico (Asean), come agente esterno.

    Khanna, pur essendo stato al fianco di Obama nel 2008, non condivide però l’operato della Casa Bianca. “Sono relativamente deluso per come sono andati gli ultimi tre anni”, dice Khanna spiegando che “avrebbe dato più enfasi alla creazione di una politica estera più strutturata” quando invece Obama si è occupato “più delle questioni fiscali interne”. “Ma sfortunatamente – aggiunge – questa è una condizione economica che è stata largamente ereditata cui si aggiungono spinte negative dal contesto globale che dunque hanno reso difficile una politica estera innovativa”, dice Khanna che, eletto dalla rivista Esquire tra le 75 persone più influenti del XXI secolo, è stato relatore al World business forum a Milano. Un’America piegata su se stessa segue per motivi diversi la stessa traiettoria cinese. Parallelismi globali che conducono al “protezionismo”. “Ci sono diverse misure che i due paesi stanno adottando che vanno in questa direzione: ad esempio proclamare dei campioni nazionali dell’industria, oppure imporre restrizioni sui diritti di proprietà delle compagnie straniere”. Il libero scambio risulta dunque “un mito”, nota Khanna. Ciò avrà un impatto negativo sulle società americane, “i principali beneficiari di un mercato aperto: per molte corporation statunitensi più del 50 per cento dei profitti arriva dall’estero, inclusa la Cina”. Per questo non è detto che gli Stati Uniti riusciranno ad approfittare della crescita della classe media cinese (che passerà da 109 milioni a 202 milioni di famiglie da oggi al 2020). “Chiedono accountability (stima, responsabilità, ndr) a livello internazionale ma non è perché saranno ricchi consumatori che diventeranno filoamericani”.

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    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.