Colossi nazionali a trazione estera

Alberto Brambilla

In quattro anni di crisi economica sono state riviste molte teorie, anche le più accreditate. Alcuni miti si sono vaporizzati. Ma altri pregiudizi resistono. Tra questi c’è la percezione che la delocalizzazione delle imprese sia il male assoluto. Eppure guardando alla geografia delle società italiane, e per la precisione all’origine dei loro profitti, si capisce che per le grandi aziende produrre all’estero è spesso l’unico modo per rimanere competitive e continuare a pagare gli stipendi in patria, per quelle piccole invece è una strada obbligata per resistere.

    Roma. In quattro anni di crisi economica sono state riviste molte teorie, anche le più accreditate. Alcuni miti si sono vaporizzati. Ma altri pregiudizi resistono. Tra questi c’è la percezione che la delocalizzazione delle imprese sia il male assoluto. Eppure guardando alla geografia delle società italiane, e per la precisione all’origine dei loro profitti, si capisce che per le grandi aziende produrre all’estero è spesso l’unico modo per rimanere competitive e continuare a pagare gli stipendi in patria, per quelle piccole invece è una strada obbligata per resistere. Il gruppo Fiat-Chrysler, è noto, perde in Europa mentre guadagna in Brasile, Stati Uniti e mercato asiatico. Genera tra l’85 e il 90 per cento del fatturato all’estero. Secondo i risultati trimestrali pubblicati ieri, si registrano “andamenti particolarmente positivi in nord e sud America e in Asia” per 951 milioni di utili hanno contribuito a smorzare le perdite in Europa (un “rosso” da 238 milioni).

    Resta dunque confermata la realistica presa di coscienza dell’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne, che a settembre disse: “Manterrò Fiat in Italia con i guadagni fatti all’estero”. La consapevolezza di questo andamento dell’economia italiana, proiettata verso i mercati stranieri per cercare il profitto e sfuggire al calo della domanda interna, è una certezza anche per l’establishment politico del nostro paese. L’ha detto chiaro e tondo in aprile durante una conferenza dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) l’ex ministro degli Esteri, Massimo D’Alema: “I bilanci Fiat, Pirelli e Telecom quadrano grazie al Brasile non grazie a casa nostra”. E’ un tema che tocca anche le banche, come Unicredit. Lo scorporo delle attività italiane da quelle estere è “auspicato” per esempio dal country manager, Vincenzo Vita, sebbene per ora non sia giudicato “fattibile”: il gruppo infatti fa circa il 10 per cento dei profitti in Italia, il resto in Austria, Germania ed est Europa ma con la metà dei dipendenti.

    Unicredit è di conseguenza una banca internazionale a trazione straniera. Lo stesso accade alla compagnia degli pneumatici presieduta da Marco Tronchetti Provera: Pirelli trae oltre il 90 per cento dei profitti dagli altri dodici mercati in cui ha degli stabilimenti, in particolare dal Brasile. Altre società nazionali di grosso calibro come Enel e Telecom Italia, che hanno attività più concentrate sul mercato interno, sia dal punto di vista dell’attività operativa sia da quello degli investimenti, riescono comunque a fare fruttare meglio il proprio capitale all’estero. Per la compagnia telefonica, ad esempio, il ritorno sul capitale investito (Roi) nel 2011 è stato pari all’81 per cento se si è investito oltre confine, cifra viceversa negativa (meno 46 per cento) sul capitale impiegato in Italia. Investire “fuori” è dunque più profittevole. La società energetica Enel allo stesso modo vede guadagni al netto delle imposte (Ebit) che per il 51 per cento sono generati negli altri 22 paesi dov’è attiva, il 49 in Italia. D’altronde non ci sono alternative. Sopravvivere grazie alle attività straniere o rischiare di fallire restando in Italia. Scrivono gli economisti Matteo Ferrazzi e Matteo Tacconi nel saggio “Me ne vado a Est” (Infinito edizioni): “E’ bene tenere a mente che l’internazionalizzazione non è sempre e comunque sinonimo di chiusura di posti di lavoro in Italia. I dati (li fornisce Eurofound e riguardano il periodo 2002-2010 e tutto il comparto manifatturiero europeo) mostrano che solamente il 10 per cento della perdita di posti di lavoro è legata a una qualche forma di delocalizzazione. Il 25 per cento dipende invece dalla bancarotta dell’impresa e il 60 per cento dalla ristrutturazione aziendale”. Non è sempre stato così.

    Negli anni si è verificato un sostanziale cambiamento: negli anni 90 lo spostamento all’estero ha danneggiato la manifattura a minore valore aggiunto. Nei Duemila la specializzazione su prodotti di alta gamma ha reso la componente straniera una risorsa fondamentale per vendere e fare profitto. E dal 2010, anche secondo l’esperienza di Fiat e Unicredit, è la componente estera dei gruppi che di fatto paga gli stipendi ai dipendenti italiani. Tre quarti del valore delle esportazioni italiane è fatto dalle grandi aziende, mentre solo il restante da una miriade di piccole e medie imprese che, prese singolarmente, fatturano all’estero poche decine di migliaia di euro. Spiega al Foglio, Antonio Belloni, autore di “Esportare l’Italia” (Guerini e Associati): “Per le grandi l’export è il prezzo da pagare per restare in Italia, per le piccole è la condizione per sopravvivere. Le Pmi che hanno superato la prova della recente crisi, le migliori, stanno raggiungendo un grado di internazionalizzazione più sofisticato, e proseguono nel processo che per le grandi è ormai assodato”. In prospettiva “si inizia con il vendere per cercare nuovi mercati, poi si possono spostare parti della produzione e cominciare a esportare partendo da lì. Il gioco però funziona solo a condizione che il cervello resti in patria così come il capitale intellettuale e tecnologico, l’intangibile”, conclude Belloni.

    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.