Quarto di venti capitoli sulla biografia politica berlusconiana

Cronaca di una discesa in campo folle e piena d'amore

Redazione

A un passo dal fallimento le trattative con i centristi, il 18 gennaio 1994 vengono ufficialmente depositati presso un notaio romano, Francesco Colistra, l’atto costitutivo e lo statuto del Movimento Politico Forza Italia (un nome, secondo una successiva testimonianza di Urbani, nato già nel luglio dell’anno precedente e frutto, ovviamente, dell’inventiva del Cavaliere, che a sua volta pare l’abbia però ripreso da una trasmissione televisiva di qualche anno prima in onda su Odeon Tv e condotta da un giovanissimo Fabio Fazio).

di Alessandro Campi e Leonardo Varasano

    A un passo dal fallimento le trattative con i centristi, il 18 gennaio 1994 vengono ufficialmente depositati presso un notaio romano, Francesco Colistra, l’atto costitutivo e lo statuto del Movimento Politico Forza Italia (un nome, secondo una successiva testimonianza di Urbani, nato già nel luglio dell’anno precedente e frutto, ovviamente, dell’inventiva del Cavaliere, che a sua volta pare l’abbia però ripreso da una trasmissione televisiva di qualche anno prima in onda su Odeon Tv e condotta da un giovanissimo Fabio Fazio). Oltre Berlusconi, come soci fondatori di Forza Italia figurano Mario Valducci (manager della Standa), Luigi Caligaris (generale di cavalleria, proveniente dalle fila dell’associazione Alla Ricerca del Buongoverno), Antonio Martino (economista di scuola ultra-liberale) e Antonio Tajani (giornalista di formazione monarchica, all’epoca portavoce del Cavaliere). Il simbolo è lo stesso dei club, un tricolore che sventola, così come l’inno, destinato a divenire un tormentone musicale. Il colore ufficiale è quello dello sport italiano e, per i più anziani, della corona sabauda: l’azzurro. Scriverà molti anni dopo il romanziere Enrico Brizzi, circa l’effetto spiazzante, innovativo e vincente prodotto dalla scelta berlusconiana di intestarsi uno slogan da stadio che è anche un formidabile slogan politico, di fare propria la bandiera nazionale e di adottare per i suoi uomini il colore delle competizioni sportive ufficiali: “Che si chiamasse ‘Forza Italia’ apparve astuto. Che il logo fosse il tricolore lo si giudicò subdolo. Ma che il colore dei suoi esponenti nell’araldica parlamentare fosse l’azzurro, fu la goccia che fece traboccare il vaso: prima ancora di definire i candidati nei diversi collegi, la creatura politica del Silvio era già il più italiano fra i partiti in lizza”. In effetti, nella storia dell’Italia repubblicana, nessun partito – soprattutto tra quelli grandi – aveva mai fatto un riferimento così diretto ed esplicito a valori e simboli nazionali.

    L’annuncio
    Il 26 gennaio, alle cinque e mezzo del pomeriggio, durante il Tg4 diretto da Emilio Fede viene trasmesso un messaggio di circa dieci minuti (subito rilanciato, non integralmente, dalle altre reti televisive) che Silvio Berlusconi ha registrato il giorno precedente nella sua villa di Arcore. L’immagine di sé che trasmette agli italiani attraverso il filmato è preoccupata e severa, come si richiede nelle grandi occasioni, ma al tempo stesso famigliare e rassicurante: alle sue spalle ha una libreria con i ritratti dei figli, dinnanzi a sé dei fogli dattiloscritti che legge alternandoli con il gobbo al fianco della telecamera, che secondo la leggenda (sulla quale per mesi si sbizzarriranno esperti della comunicazione e semiologi) è stata avvolta da un collant femminile per creare un effetto visivo morbido e avvolgente. L’incipit del messaggio è da antologia: “L’Italia è il paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato, da mio padre e dalla vita, il mio mestiere di imprenditore. Qui ho appreso la passione per la libertà”. Berlusconi annuncia le dimissioni dalle cariche operative nelle sue aziende. Definisce il programma del nuovo movimento “liberale in politica, liberista in economia”. Denuncia il rischio che il paese finisca nelle mani dei comunisti e dei loro amici, “uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare”. Illustra il fallimento della vecchia classe politica italiana (implosa sotto il peso del debito pubblico e della corruzione) e non dice una sola parola critica sull’azione della magistratura, come farà ossessivamente in seguito. Critica profeti e salvatori della Patria e si presenta nelle vesti dimesse di un cittadino “con la testa sulle spalle e di esperienza consolidata” che vuole contribuire al buon funzionamento dello stato. Si richiama ai principi fondanti delle democrazie liberali occidentali (libertà, individuo, mercato, famiglia, competizione) e fa esplicito appello al mondo cattolico. Denuncia l’invidia sociale e l’odio di classe ed esalta, come valori positivi, la solidarietà, l’impegno sul lavoro, la tolleranza e il rispetto per la vita. Promette agli italiani “più sicurezza, più ordine e più efficienza”. Conclude invocando un grande sogno: “Quello di un’Italia più giusta, più generosa verso chi ha bisogno, più prospera e serena, più moderna ed efficiente, protagonista in Europa e nel mondo”.
    Il giorno dopo sui giornali si sprecano le ironie, i sarcasmi e le analisi di tono liquidatorio (quasi nessuno crede che sia l’inizio di una storia politica vincente, pensata in ogni dettaglio e realizzata con tecniche scientifiche di propaganda e di organizzazione). Celebre il commento di Eugenio Scalfari: “E’ sceso in campo il ragazzo coccodè”. D’Alema definisce la scelta di diffondere il messaggio attraverso cassette registrate un esempio di “kitsch craxiano”.

    L’uomo del sogno
    L’ingresso ufficiale di Berlusconi nell’agone politico cambia alla radice, nel giro di pochi giorni, le forme tradizionali della comunicazione politica, cui gli italiani erano abituati da decenni. Dopo l’annuncio e per tutta la campagna elettorale, le reti televisive Fininvest vengono inondate da migliaia di messaggi pubblicitari. La prima campagna di spot, tesa soprattutto a diffondere il marchio Forza Italia, viene avviata in realtà già il 16 gennaio, il giorno stesso in cui il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro – destinato a diventare, per il mondo berlusconiano, l’uomo del ribaltone e uno dei più acerrimi nemici del centrodestra – ufficializza lo scioglimento delle Camere e fissa al 27-28 marzo lo svolgimento delle elezioni anticipate (ma già nel periodo natalizio i canali del Biscione avevano ospitato una massiccia campagna promozionale nella quale gli auguri per le festività lasciavano intendere un annuncio politico).

    Nascono in poche settimane nuovi format televisivi di informazione politica. La programmazione d’intrattenimento delle reti berlusconiane viene fortemente politicizzata. A fianco del Cavaliere si schierano, con messaggi di sostegno espliciti o semplicemente allusivi,  tutti i big – da Raimondo Vianello a Mike Bongiorno, da Iva Zanicchi alla giovanissima Ambra Angiolini (sua, su suggerimento di Gianni Boncompagni, la celebre battuta: “Il Padreterno sta con Berlusconi, Satana con Occhetto”) – della sua scuderia televisiva, oltre a parecchie celebrità sportive (dal milanista Franco Baresi al portiere interista Walter Zenga).
    I messaggi di Berlusconi agli italiani, durante la campagna elettorale, sono semplici e diretti. Promette, in caso di vittoria, un milione di posti di lavoro e l’aliquota fiscale unica al 33 per cento. Presenta la sua avventura alla stregua di un “miracolo italiano”. Liquida tutti i suoi avversari come comunisti o compagni di strada di questi ultimi. Parla di dare vita ad una “rivoluzione liberale”. Denuncia l’inconcludenza della “vecchia politica” e si richiama ossessivamente al valore della libertà.

    Marciare divisi, colpire uniti
    L’11 febbraio Berlusconi stringe un patto elettorale con la Lega nord limitato al solo settentrione. I due partiti si riuniscono sotto il simbolo del Polo della Libertà. A Bossi, per convincerlo ad accettare l’intesa, viene concesso il 70 per cento dei collegi uninominali del nord. Due giorni dopo, viene annunciata l’alleanza elettorale con Fini, che prevede che Alleanza nazionale e Forza Italia corrano insieme nel centro e nel sud sotto la sigla del Polo del Buongoverno: l’accordo prevede che il 55 per cento dei collegi uninominali vada alla destra, il 35 per cento al movimento berlusconiano e il restante 10 per cento alle tre formazioni minori che hanno accettato di unirsi sotto lo stesso simbolo: l’Unione di centro, il Centro cristiano democratico e la Lista Pannella. In virtù di questi onerosi accordi, Forza Italia si troverà ad avere, pur essendo il primo partito d’Italia, una rappresentanza parlamentare proporzionalmente inferiore a quella dei suoi alleati.

    Il decalogo del Cav.
    Verso la fine degli anni Ottanta Gigi Moncalvo, giornalista della carta stampata passato a lavorare con le televisioni del Cavaliere, ha seguito per mesi quest’ultimo nel corso di raduni e meeting aziendali, raccogliendone pensieri, massime, sfoghi e riflessioni in senso lato filosofiche, soprattutto in materia di televisione, di calcio, di marketing e di pubblicità commerciale (ma con significativi richiami alla politica). Rimasto a lungo inedito, nel febbraio del 1994, dunque a poche settimane dal voto, tutto questo materiale viene raccolto in un volume, “Berlusconi in Concert”, che appare con la firma di Moncalvo (nel frattempo uscito dalla scuderia Mediaset) e dello psicologo Stefano D’Anna. Berlusconi prova a bloccarne la stampa e la diffusione attraverso un’azione legale (il che forse spiega perché come luogo di pubblicazione del volume risulti Londra e come casa editrice una fantomatica Otzium Ltd): lo preoccupano probabilmente certe sue esternazioni un po’ troppo esplicite in materia di sesso e di donne, che nel pieno della campagna elettorale potrebbero rivelarsi controproducenti. Nel libro – che essendo nei contenuti largamente autobiografico sarà utilizzato come fonte da parecchi dei successivi biografici e critici di Berlusconi (vi attingeranno sia Gramellini, Maltese e Corrias per il loro “Colpo grosso” uscito nel giugno 1994, sia Giuseppe Fiori per “Il venditore” apparso nel 1995) – si può leggere, tra le altre cose, quest’originale decalogo dettato direttamente dal Cavaliere, condensato di uno stile, di una psicologia e di una visione del mondo che la sua esperienza successiva non ha fatto che confermare in ogni punto: “1. Nascere durante una guerra. 2. Crescere nella ricostruzione. 3. Diventare adulti in un clima che assomigli alla democrazia. 4. Avere una giusta vena di follia. 5. Credere più nelle persone che nello stato. 6. Credere più in se stessi che nelle persone. 7. Imboccare a grande velocità le strade sconsigliate dai più. 8. Avere interessi diversificati. 9. Costruire, produrre, emettere, trasmettere. 10. Se possibile, chiamarsi Silvio Berlusconi”.

    I candidati del Biscione
    Nelle liste elettorali berlusconiane, composte in grande fretta e alla quale lavorano principalmente Paolo Del Debbio (responsabile elettorale di Forza Italia) e Domenico Mennitti (coordinatore nazionale del partito), finisce di tutto. C’è – tra coloro che risulteranno eletti – una nutrita pattuglia dei liberali: gli avvocati Raffaele Della Valle e Alfredo Biondi, gli economisti Antonio Martino e Carlo Scognamiglio, il giornalista Livio Caputo. Ci sono poi – sempre tra gli eletti – imprenditori (Amedeo Matacena), magistrati (Tiziana Parenti, che per un breve periodo ha fatto parte del pool milanese di Mani pulite), celebrità (il regista Franco Zeffirelli, lo storico dell’arte Vittorio Sgarbi) e qualche transfuga dalla sinistra (Tiziana Maiolo, Tina Lagostena Bassi). Ma il grosso dei candidati (e dei futuri parlamentari) è rappresentato da illustri sconosciuti, molti dei quali spariranno dalla scena negli anni successivi. La loro selezione è stata realizzata, in gran parte, dagli agenti di Publitalia sparsi nelle diverse regioni italiane. Sottoposti ad un provino televisivo, per saggiarne l’eloquio e la resa in termini d’immagine, dopo la selezione sono stati sottoposti a un corso accelerato di politica, per familiarizzare con i rudimenti ideologici e il programma del nuovo movimento, dopo di che è stata consegnata loro (a pagamento) una valigetta contenente il “kit del candidato”, vale a dire l’essenziale per affrontare la campagna elettorale sul territorio e, soprattutto, per diffondere tra gli elettori il nuovo marchio: adesivi, spillette, volantini, distintive, coccarde, dodici videocassette registrate, oltre a documenti politici e testi di propaganda. Anche questa è una piccola rivoluzione nel campo della comunicazione politica e del marketing elettorale, sulla quale la stampa si sbizzarrisce in analisi e dettagli spesso coloriti e gli avversari si abbandonano a sarcasmi e ironie.

    Fuoco e fango
    Una campagna elettorale tanto virulenta in Italia non si vedeva dal 1948. Accade di tutto e non ci si risparmia alcun colpo: dossier sulla stampa, accuse di attentare alla democrazia, incursioni della magistratura, insulti personali. Tre gli episodi eclatanti, che oltre a dare un’idea del clima che si respira in queste settimane nel paese stabiliscono un canovaccio destinato a ripetersi sempre eguale a se stesso nei successivi vent’anni.
    L’11 febbraio, dopo sei ore di interrogatorio e dopo aver ammesso di aver pagato tangenti al fondo pensioni della Cariplo per l’acquisto di tre immobili tra il 1983 e il 1986, Paolo Berlusconi viene assegnato agli arresti domiciliari.  Per Silvio, furibondo per il modo con cui la stampa ha trattato la notizia, si tratta di una manovra della sinistra e della magistratura per screditarlo agli occhi degli elettori attraverso il fratello.
    Il 20 marzo sui quotidiani scoppia la bomba di Silvio Berlusconi e del suo braccio destro Marcello Dell’Utri accusati di connivenza con “cosa nostra” sulla base delle dichiarazioni di due pentiti, Totò Cancemi e Gioacchino La Barbera: si ventila l’iscrizione di Dell’Utri sul registro degli indagati della procura di Caltanissetta con l’accusa di associazione mafiosa. Per Berlusconi si tratta di una calunnia e di un complotto, di un vero e proprio “golpe bianco” (anzi, “rosso”) organizzato da magistrati vicini al Pds. La conferma indiretta a questi sospetti sembra arrivare dopo due giorni. La Stampa, a firma di Augusto Minzolini, riporta un colloquio di quest’ultimo con Luciano Violante, presidente della commissione parlamentare Antimafia, nel quale si sostiene che la fuga di notizie sembra essere stata pilotata ad arte dagli uomini di Forza Italia per avallare l’idea di un Berlusconi vittima della magistratura: in realtà, precisa Violante, Dell’Utri non è indagato a Caltanissetta, ma presso la procura di Catania, per traffico d’armi e stupefacenti, sulla base non di dichiarazioni di pentiti ma di intercettazioni ambientali. Il fatto che Violante sappia di un’indagine tanto riservata e delicata non è la prova che esiste una trama politico-giudiziaria di cui proprio quest’ultimo è, con tutta probabilità, l’ispiratore? Berlusconi ne chiede a gran voce l’allontanamento dall’antimafia. Violante smentisce la ricostruzione di Minzolini e lo querela, ma il 23, dato il clamore suscitato dalla vicenda, è costretto egualmente a dimettersi.

    Nello stesso giorno – quello in cui, tra l’altro, va in onda il faccia a faccia televisivo tra i due contendenti Occhetto e Berlusconi: ed è la prima volta nella storia della politica italiana che si realizza un confronto all’americana tra candidati –, su mandato della procura di Palmi, impegnata in un’inchiesta sulla massoneria deviata, la Digos si reca nelle sedi di Milano e Roma di Forza Italia per acquisire gli elenchi di tutti i candidati forzisti e degli iscritti ai club berlusconiani. L’azione, oltre che clamorosa, appare a dir poco intempestiva. Berlusconi si appella al capo dello stato, dal quale viene ricevuto. Scrive Ezio Mauro, direttore della Stampa, a commento dell’episodio: “C’è qualcosa che non riusciamo a comprendere. Non è in discussione, naturalmente, la piena autonomia e l’indipendenza della magistratura, che sola può e deve decidere i tempi, i modi e gli obiettivi dei suoi interventi, a fine di giustizia: in ogni caso e dunque anche in questo. Ma il giudice non può non tener conto del contesto in cui si muove. E ieri, in un contesto elettorale esasperato ed esplosivo, quell’intervento ha avuto un significato allusivo che non fa chiarezza in nessun senso”.
     

    Alla durezza dello scontro elettorale tra destra e sinistra, con il centro nelle vesti di convitato di pietra, si aggiungono anche elementi politicamente surreali. I colpi più duri, infatti, sono quelli che si infliggono tra di loro non i diversi schieramenti, ma gli alleati all’interno del centrodestra. La propaganda della Lega, ad esempio, sembra indirizzarsi, più che verso la coalizione guidata da Occhetto, contro il Cavaliere, al quale Bossi, nei suoi comizi e nelle interviste ai giornali, non risparmia quotidianamente ironie, attacchi politici e insulti veri e propri, come se si trattasse di un avversario. “Berlusconi a Palazzo Chigi? Non ci sarà mai un premier della P2”, sostiene il leader leghista il 7 marzo. Per i vertici della Lega il Cavaliere – definito sprezzantemente “Berluscàz”, mentre il nome del suo partito è storpiato in “Falsa Italia” o “Sforza Italia” – è manovrato dalla vecchia Dc, ha la colpa di essere stato un sodale di Craxi e di essere ora un amico dei fascisti, è un monopolista e un affarista senza scrupoli: lo si minaccia perciò di mandarlo alla ghigliottina (nemmeno tanto metaforicamente) e di togliergli le televisioni in caso di vittoria. Gianfranco Miglio, l’ideologo della Padania, spiega che uno come Berlusconi può piacere soltanto ai cafoni del sud, non certo agli imprenditori del nord. Volano scintille naturalmente tra leghisti e post-fascisti, che sono formalmente concorrenti ma di fatto, in caso di vittoria, potenziali alleati nello stesso governo. “Mai con Fini e la marmaglia nera”, sostiene il leader del Carroccio. “Mai con i barbari”, replica il capo della destra. Ma non mancano screzi nemmeno tra Berlusconi e Fini. Quest’ultimo, agli inizi di marzo, fa sapere di ambire alla guida del governo nel caso il suo partito ottenga più voti di Forza Italia. Per tutta risposta, Berlusconi, proprio l’ultimo giorno di campagna elettorale, durante il comizio di chiusura a Napoli, lancia un appello agli elettori del nord affinché non votino (sprecando la preferenza) i candidati di Alleanza nazionale nei collegi uninominali. Un furibondo Fini, che sta parlando in contemporanea a Roma, pretende subito una smentita e accusa il Cavaliere di manifesta slealtà. 

    Prima del Caimano
    L’ipotesi di Berlusconi vincitore delle elezioni e possibile presidente del Consiglio crea allarme in particolare nel mondo intellettuale della sinistra. Per mettere in guardia gli elettori, nell’imminenza del voto otto giovani registi (Daniele Luchetti, Stefano Rulli, Carlo Mazzacurati, Mario Martone, Marco Tullio Giordana, Francesca Archibugi, Marco Risi e Antonio Capuano) guidati da Nanni Moretti realizzano un cortometraggio a episodi di esplicita propaganda antiberlusconiana intitolato “L’unico paese al mondo”, che viene però proiettato solo in una trentina di sale in tutta Italia e dunque resterà sostanzialmente inedito. Tra le scene del film, quella in cui l’attore Silvio Orlando interpreta un tipo mellifluo che segue un bambino all’uscita dalla scuola, lo avvicina con aria sospetta (lo spettatore pensa evidentemente a un pedofilo) e gli sussurra all’orecchio qualcosa, come lui stesso dice, di importante per il suo futuro: “Forza Italia…”. Quanto a  Moretti, compare in due episodi, quello iniziale e quello finale. Nel primo riprende il personaggio centrale del suo film del 1991 “Il portaborse”, il politico corrotto Cesare Botero, che appare al protagonista (ancora Orlando) come in un incubo dicendo: “Noi siamo tornati”. Nel secondo, riecheggiando il celebre giro in Vespa di “Caro Diario” per le strade di Roma, denuncia l’anomalia di un tycoon televisivo che si candida alle elezioni, attribuendola alla mancanza in Italia di una borghesia “normale”. Mentre l’attore-regista scorazza, questa volta, lungo il moderno quartiere parigino della Défense, dunque lontano dall’Italia, si sente una voce fuori campo che dice: “Caro diario, Berlusconi ci ha provato anche qui, ma l’hanno cacciato. E non è che qui ci sia la dittatura del proletariato, c’è semplicemente una borghesia più civile e una legge che impedisce ad un singolo imprenditore di avere più del 25 per cento dei mezzi di comunicazione”.

    Vittoria!
    Il risultato delle urne determina una piccola rivoluzione (per quanto attesa, alla luce dei sondaggi circolati nelle settimane precedenti e degli umori diffusi nel paese). Forza Italia, a poche settimane dalla sua costituzione ufficiale, ottiene un risultato strepitoso, sebbene leggermente al di sotto delle previsioni dello stesso Berlusconi sino a qualche giorno prima: il 21 per cento dei voti espressi per un totale effettivo di 8.119.287 elettori. La coalizione di centrodestra, una formula inedita nella storia politica italiana, ottiene il 46,4 dei consensi alla Camera (pari a 366 seggi) e il 42,7 per cento al Senato (156). Forza Italia, che ha molto concesso ai suoi alleati in termini di collegi, come partito può contare su 113 deputati (la Lega ne ha 117, Alleanza nazionale 109 e il Ccd di Casini, costituitosi in gruppo parlamentare autonomo dopo il voto, 27) e su 36 senatori (la sola Lega ne ha 60). L’Alleanza progressista di Occhetto (la “gioiosa macchina da guerra” sulla quale si ironizzerà per tutti gli anni a venire), si ferma al 34,3 per cento dei voti alla Camera (213 seggi) e al 32,9 per cento dei consensi al Senato (122). Clamoroso è il tonfo del Patto per l’Italia formato dal Partito popolare e dal Patto Segni: ottiene il 15,7 per cento alla Camera (46 seggi) e il 16,7 al Senato (31). Il nuovo Parlamento è composto al 70 per cento da parvenu e facce nuove, in molti casi senza alcuna esperienza politica. La nuova legislatura, la XII della storia repubblicana, si insedia il 15 aprile. Il giorno dopo, alla guida di Montecitorio i leghisti ottengono l’elezione di Irene Pivetti: ha trentuno anni, è una cattolica tradizionalista e, chiusa l’esperienza politica nel 2002, finirà per fare la show-girl e la conduttrice televisiva. Alla presidenza di Palazzo Madama – dove il centrodestra ha mancato la maggioranza assoluta per tre seggi – la spunta per un solo voto Carlo Scognamiglio, che soffia il posto – in virtù di un pasticcio contabile – al più blasonato e più accreditato Giovanni Spadolini: una delusione talmente cocente, per quest’ultimo, da aggravarne la malattia e da accelerarne la morte. I rapporti di forza parlamentari, al Senato particolarmente sfavorevoli al centrodestra (tanto che il governo potrà ottenere la fiducia solo grazie al voto dei senatori a vita e all’astensione di alcuni esponenti popolari), si modificano ben presto con il passaggio alla coalizione vincente di due parlamentari dell’opposizione: il senatore Luigi Grillo (eletto col Partito popolare), che diverrà sottosegretario alla presidenza del Consiglio; e il deputato Giulio Tremonti (eletto nelle fila del Patto Segni), che avrà la poltrona di ministro delle Finanze e che per il momento preferisce parcheggiarsi nel gruppo misto. Il capovolgimento di fronte dei due viene accompagnato all’epoca da molte polemiche e da insinuazioni di accordi sottobanco: nessuno può immaginare che la transumanza da uno schieramento all’altro di singoli parlamentari, in grado persino di tenere in vita maggioranze e governi, diverrà la regola negli anni successivi.

    I barbari nel Palazzo
    Il 28 aprile, un mese dopo la vittoria alle urne e dopo molte titubanze, il presidente Scalfaro conferisce a Berlusconi l’incarico di formare il governo. La composizione dell’esecutivo – che entrerà in carica il 10 maggio – è oltremodo faticosa: a causa, da un lato, dell’atteggiamento riluttante della Lega, che oltre a pretendere a tutti i costi il Viminale (l’otterrà, dopo trattative sfibranti) minaccia ad ogni passo di far saltare un accordo elettorale che sostiene di aver sottoscritto con l’unico scopo di “fregare” e frenare il padrone di Mediaset; e dall’altro, delle riserve che il capo dello stato nutre nei confronti del Cavaliere, ai suoi occhi un marziano giunto da un altro pianeta al quale ritiene necessario imporre una sorta di tutela costituzionale per evitare che traligni, a causa dell’inesperienza o del conflitto di interesse che porta con sé.
    Il tentativo di Berlusconi di coinvolgere Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo nell’esecutivo, in modo da poterlo presentare come il frutto politico dell’azione risanatrice condotta dai magistrati di Mani pulite, non va in porto: il diniego ufficiale arriva già il 30 aprile con un comunicato stampa firmato dai due magistrati e sottoscritto dal capo della procura milanese, Francesco Saverio Borrelli (ma i contatti con Di Pietro per convincerlo a fare il ministro dell’Interno andranno avanti ancora per giorni). Il tentativo di nominare alla Giustizia uno dei suoi avvocati più fidati, Cesare Previti, viene bloccato dalle proteste della magistratura e, soprattutto, dall’intervento in extremis, a lista dei ministri già pronta, di Scalfaro, che minacciando di non firmare il decreto di nomina ottiene lo spostamento di Previti alla Difesa, il cui posto originario viene preso da Alfredo Biondi. Il fatto che sconcerta molti osservatori, ma che dà anche il segno del profondo cambiamento intervenuto nella politica italiana, è che alla guida del paese si trovano uomini appartenenti a forze politiche che non hanno alcun legame di discendenza – né storico né ideale – col patto costituzionale che ha fatto nascere la Repubblica. “Barbari”, appunto, dai quali non si sa cosa aspettarsi. Quanto ai nomi che compongono il nuovo (in tutti i sensi) governo, Antonio Martino va agli Esteri, l’indipendente Lamberto Dini all’Economia, al giornalista Giuliano Ferrara vengono affidati i rapporti col Parlamento, ministro delle Finanze è il transfuga Giulio Tremonti, il leghista Giancarlo Pagliarini si occupa di Bilancio e Programmazione economica, Raffaele Costa di Sanità. Non pochi strascichi produrrà la nomina di Francesco Speroni, di professione tecnico di volo, a ministro senza portafoglio per le Riforme istituzionali al posto di Gianfranco Miglio, di professione costituzionalista (pare perché poco gradito a Scalfaro): il professore comasco, teorico delle “tre Italie” e fautore del federalismo cantonale sul modello svizzero, abbandonerà sdegnato la Lega, scriverà un caustico pamphlet contro Bossi (definito un “arruffapopolo”) e darà vita a un’effimera Unione federale. Ciò che preoccupa, soprattutto all’estero, è però la presenza nel governo di ministri di Alleanza nazionale (Matteoli all’ambiente, Fisichella ai Beni culturali, Poli Bortone all’Agricoltura, Fiori ai trasporti, Tatarella alle Poste, oltre a numerosi sottosegretari). Scrive con tono allarmato il quotidiano israeliano Haaretz: “Cinquant’anni dopo l’estirpazione del fascismo italiano, alleato fedele della Germania nazista, i fascisti entrano nel governo di Roma”. Gli fa eco il tedesco Spiegel, sulle cui pagine si legge: “Il clima politico in tutta l’Italia è cambiato, il fascismo è di nuovo ammesso in società”. Durante uno dei suoi primi impegni internazionali come capo del governo, la visita a Roma di Bill Clinton ai primi di giugno, Berlusconi, nel corso della conferenza stampa congiunta con il presidente americano, è costretto a intervenire sulla questione. Spiega ai giornalisti stranieri che lo incalzano sul ruolo dei “ministri fascisti” come in Italia i nostalgici del fascismo siano una minoranza insignificante. Nel governo – aggiunge – “non c’è e non ci potrebbe mai essere un ministro che non creda fino in fondo nella libertà e nella democrazia e che non creda che il totalitarismo vada combattuto sempre e comunque fino in fondo”.

    Come parla il centrodestra
    A un convegno organizzato a Firenze dall’Accademia della Crusca, alla metà di maggio, il linguista Lorenzo Coveri illustra all’uditorio le differenze di linguaggio tra gli alleati di governo, cercando altresì di spiegarne il recente successo elettorale. Berlusconi usa un linguaggio “medio-mediocre”: lontano dal politichese o dai toni aggressivi di Craxi o Cossiga, predilige “metafore facilmente spendibili”, tratte dallo sport o dalla comunicazione televisiva. Bossi, invece, parla in modo “colorito, popolare, sbracato ma volutamente, e con forti connotazioni del nord Italia”. Fini, da ultimo, ha uno stile “classico”, in continuità con il vecchio modo di parlare dei politici cosiddetti di professione. Nessuna parola viene spesa dall’illustre linguista sul modo di comunicare di Casini.

    di Alessandro Campi e Leonardo Varasano

    (4. continua)

    I tre precedenti capitoli sono stati pubblicati il 12, il 17 e il 23 ottobre e sono disponibili all’indirizzo www.ilfoglio.it