“Black Mirror”, ovvero il riflesso nero dell'amore per l'iPad e i suoi fratelli

Mariarosa Mancuso

"Devo far mettere la signora sotto sorveglianza?", chiede Watson a Sherlock Holmes. “Basta seguirla su Twitter”, risponde il detective che nel gioco delle parti fa lo scettico. Specialmente da quando il dottore ferito in Afghanistan racconta i fatti di entrambi sul suo blog. Lo scambio di battute è nel supercool “Sherlock Holmes” scritto da Steven Moffat e Mark Gatiss per la Bbc (e da stasera anche su Sky).

    "Devo far mettere la signora sotto sorveglianza?", chiede Watson a Sherlock Holmes. “Basta seguirla su Twitter”, risponde il detective che nel gioco delle parti fa lo scettico. Specialmente da quando il dottore ferito in Afghanistan racconta i fatti di entrambi sul suo blog. Lo scambio di battute è nel supercool “Sherlock Holmes” scritto da Steven Moffat e Mark Gatiss per la Bbc (e dastasera anche su Sky). Il nostro non disdegna navigatori e BlackBerry, nutre però un’istintiva diffidenza per le tecnologie che ci rendono vulnerabili ai ficcanaso.

    Torna utile per inquadrare la mini-serie “Black Mirror”, tre episodi autonomi di un’ora con cast e ambientazioni diverse a partire da stasera su Sky. A tenerle insieme, lo schermo nero dell’iPhone o dell’iPad. Soprattutto, la nostra allegra e sconsiderata dipendenza dai suddetti gadget (e dai tentativi di imitazione). Vale a dire – spiega l’ideatore e sceneggiatore Charlie Brooker, critico televisivo del Guardian dal 2000 al 2010 – “il Grande Fratello che coltiviamo dentro di noi”. Fanno da modello due serie entrate nella storia della televisione. L’americana “The Twilight Zone” di Rod Serling (per gli spettori italiani “Ai confini della realtà”), andata in onda a partire dal ’59 per cinque stagioni. E la britannica “Tales of the Unexpected”: 112 episodi, in gran parte scritti da Roald Dahl che aveva creato il programma a partire dai suoi racconti, cinici e con finale a sorpresa. Ci commuoviamo per una donna che finalmente riesce ad avere il figlio tanto desiderato, e nell’ultima riga scopriamo che si tratta della signora Hitler.

    Il genere impone di rivelare il meno possibile, quindi stiamo al gioco. “The National Anthem” (“L’inno nazionale”, si capisce perché dopo aver visto lo svolgimento) comincia con rapimento della principessa Susannah, molto amata dal popolo. Sarà rilasciata solo se il primo ministro britannico si esibirà in un atto indecente in diretta tv. Molto indecente. Deve scoparsi un maiale, senza trucco e senza inganno: i rapitori la sanno lunga sulle tecniche di contraffazione video e sulla natura virale di una simile richiesta di riscatto, caricata su YouTube prima che gli esperti di comunicazione abbiano il tempo di dire “che schifo!”.

    “15 Million Merits” è ambientato nel prossimo futuro. Ci sarà ancora “X Factor” (Rupert Everett è uno dei giudici, con sublime autoironia), ma l’energia viene prodotta da giovanotti e giovanotte che pedalano in tuta e abitano cubicoli con le pareti a schermo. Invece della sveglia, parte l’immagine di un gallo che canta. Più o meno nella stessa epoca, il terzo episodio: “The Entire History of You”. In perfetta sintonia con il dilemma “ho messo le mie foto da idiota su Facebook, e resteranno lì per sputtanarmi finché i miei nipotini avranno l’età della ragione”.

    Un chip innestato dietro l’orecchio registra tutta la nostra vita. Un telecomando consente di rivedere le scene su uno schermo gigante, da usarsi anche come moviola: rallenty (per quando bambini correvate felici incontro alla mamma) e zoom (per capire se il capo era attento alle tue richieste e prendeva appunti, o disegnava pupazzetti con te impiccato). Devastante l’uso nelle faccende di coppia. Già si passan le ore a rinfacciarsi le cose dette e le cose non fatte, figuriamoci quando ne resta traccia in un filmato riproducibile fino all’esaurimento. Unico difetto di “Black Mirror”, la scarsità di episodi, quasi un teaser per una serie vera. “Ai confini della realtà” ne macinava uno a settimana: una galleria di brividi mentali che nessuno finora è riuscito a rifare.