Quando la tradizione fu opacizzata

Roberto de Mattei

Continuità o rottura? E’ forse giunto il momento di uscire dalla gabbia ermeneutica in cui si dibattono gli studiosi del Concilio Vaticano II. Tutti coloro che affrontano la discussione storiografica sul Concilio, mettendone in luce, da diverse angolature, gli elementi di oggettiva “svolta” con l’epoca precedente, vengono infatti sbrigativamente etichettati come sostenitori dell’“ermeneutica della discontinuità”, in contrasto con il magistero di Benedetto XVI e dei suoi predecessori.

    Continuità o rottura? E’ forse giunto il momento di uscire dalla gabbia ermeneutica in cui si dibattono gli studiosi del Concilio Vaticano II. Tutti coloro che affrontano la discussione storiografica sul Concilio, mettendone in luce, da diverse angolature, gli elementi di oggettiva “svolta” con l’epoca precedente, vengono infatti sbrigativamente etichettati come sostenitori dell’“ermeneutica della discontinuità”, in contrasto con il magistero di Benedetto XVI e dei suoi predecessori. Questo è ad esempio il sovrano metro di giudizio di monsignor Agostino Marchetto, nel suo recente volume Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Per la sua corretta ermeneutica (Libreria Editrice Vaticana, 2012) come lo era stato del resto nel suo precedente studio Il Concilio ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia (Libreria Editrice Vaticana, 2005).

    In questi due libri più che storico, monsignor Marchetto si dimostra attento recensore di tutto ciò che nell’ultimo decennio è stato pubblicato in tema di Vaticano II. Non è questo necessariamente un limite. Il limite è quello di lanciare sugli autori recensiti, a destra e a sinistra, accuse di “discontinuismo”, facendosi scudo di un presunto magistero a questo riguardo per coprire una sostanziale debolezza argomentativa.

    Benedetto XVI però, nel suo discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, ha dichiarato che all’ermeneutica della discontinuità non si oppone un’ermeneutica della continuità tout court, ma un’“ermeneutica della riforma” la cui vera natura consiste in un “insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi”. Forse è proprio dalla constatazione dell’esistenza di livelli diversi di continuità e di discontinuità che bisognerebbe procedere. Continuità o discontinuità del Vaticano II nei confronti della chiesa precedente che può essere considerata sotto due aspetti: la dimensione storica e umana della chiesa e la sua dimensione ontologica, che si esprime nella immutabilità della sua Tradizione. Una distinzione che corrisponde alla duplice natura della chiesa, umana e divina e che rende il discorso ben più articolato e ricco di sfumature di quanto monsignor Marchetto e altri autori vorrebbero.
    Il primo livello di indagine spetta allo storico, che ha come criterio veritativo quello dell’accertamento e della valutazione dei fatti. Il secondo livello appartiene al teologo, al pastore e, in ultima istanza, al Sommo Pontefice, supremo custode delle verità di fede e di morale. Si tratta di due piani distinti, ma connessi e interdipendenti, come lo sono l’anima e il corpo nell’organismo umano. Ma è solo dopo la ricostruzione storica, non prima, che intervengono i pastori, per formulare i loro giudizi teologici e morali. I due livelli, quello storico e quello ermeneutico non si possono confondere, a meno di non ritenere che la storia coincida con la sua interpretazione.

    Ciò significa che il Concilio Vaticano II deve essere affrontato non solo sul piano teologico, ma innanzitutto, sul piano storico come evento. Il teologo eserciterà la sua riflessione sui testi, lo storico, senza trascurare i testi, riserverà la sua attenzione soprattutto alla loro genesi, alle loro conseguenze, al contesto in cui essi si situano. Sia lo storico che il teologo cercano la verità, che è la medesima, ma vi arrivano per vie diverse, non contrapposte.
    Sembra che sia stato il cardinale Ruini ad affidare a Marchetto il compito di contrastare l’opera storica, di segno ultraprogressista, di Giuseppe Alberigo e della sua “scuola di Bologna”. Ma contro la storia tendenziosa di Alberigo e dei suoi continuatori non è sufficiente affermare che i documenti del Concilio devono essere letti in continuità e non in rottura con la Tradizione. Quando nel 1619 Paolo Sarpi scrisse una storia eterodossa del Concilio di Trento, non gli furono contrapposte le formule dogmatiche di Trento, ma gli fu opposta una storia diversa, la celebre Storia del Concilio di Trento scritta per ordine del Papa Innocenzo X dal cardinale Pietro Sforza Pallavicino (1656-1657): la storia infatti si combatte con la storia, non con le affermazioni teologiche.

    E’ questo il motivo per cui le critiche che Marchetto rivolge al mio studio Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta (Lindau, 2011), sono pallottole a salve fuori bersaglio. Non sono infatti né un “discontinuista”, come Marchetto si ostina a ripetere, né un “continuista”, perché giudico questo termine altrettanto privo di significato del precedente. Sono più semplicemente uno storico che si propone di raccontare in maniera vera e oggettiva quanto è accaduto, non solo nei tre anni in cui si svolse il Concilio Vaticano II, dall’11 ottobre 1962 all’8 dicembre 1965, ma negli anni che lo precedettero e in quelli che a esso immediatamente seguirono, l’epoca del cosiddetto “postconcilio”. Faccio mio l’auspicio che il cardinale Ruini rivolgeva il 22 giugno 2005 all’impresa di monsignor Marchetto (“è tempo che la storiografia produca una nuova ricostruzione del Vaticano II che sia anche, finalmente, una storia di verità”) ma non credo che sia produttivo nascondere la verità storica dietro il velo di una malintesa “ermeneutica della continuità”.