Il programma di Renzi e la regia di Gori

Marianna Rizzini

L'importanza di chiamarsi guru, per Giorgio Gori, si risolve in uno sbuffo di (cortese) insofferenza. Giorgio Gori dice sempre di non essere il guru di Matteo Renzi, anche se in molti continuano a pensarlo, e dice che è una favola, Renzi è Renzi e Gori è Gori. Guru o non guru, pare davvero una realtà rovesciata: Gori che ha una faccia mediaticamente più efficace di quella di Renzi (nonostante i grandi sforzi di Renzi, e magari anche di Gori, per far dismettere a Renzi l'aria da boy scout trafelato).

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    L’importanza di chiamarsi guru, per Giorgio Gori, si risolve in uno sbuffo di (cortese) insofferenza. Giorgio Gori dice sempre di non essere il guru di Matteo Renzi, anche se in molti continuano a pensarlo, e dice che è una favola, Renzi è Renzi e Gori è Gori. Guru o non guru, pare davvero una realtà rovesciata: Gori che ha una faccia mediaticamente più efficace di quella di Renzi (nonostante i grandi sforzi di Renzi, e magari anche di Gori, per far dismettere a Renzi l’aria da boy scout trafelato); Gori che, al culmine della realizzazione economico-professionale come produttore televisivo, va alla stazione Leopolda e dice “io ci sono”, e lo dice avendo non solo l’autosufficienza economica per il salto nell’agone, ma anche un set da campagna elettorale all’americana già predisposto per natura, con una perfetta “first lady” accanto a sé (la giornalista ex Mediaset e ora La7 Cristina Parodi), una famiglia di perfetta estetica Barilla, una casa a Bergamo alta adatta alle foto di Natale sui rotocalchi e un sentirsi, se non indispensabile – ché Gori adotta sempre una nordica modestia – almeno molto utile per le sorti del paese (non si poteva più stare alla finestra, dice in tutte le interviste, bisogna farsi anche gli affari degli altri, uscire dalla tana, inventarsi qualcosa).

    E non basta: Gori, ex ad della casa di produzione Magnolia, ex direttore di Canale 5 e Italia 1, deus ex machina di programmi e reality sbanca-tutto, conosce bene il campo di battaglia di quest’epoca, la tv, e di fatto, anche stando fermo, vuoi per i contatti vuoi per l’abitudine a muoversi nella giungla della competizione sfrenata, ha in mano almeno due o tre carte in più rispetto al resto della roboante ma ancora acerba squadra renziana. Paradosso vuole, insomma, che Gori, più che per il ruolo di guru da lui sempre ridimensionato a un “lavoriamo insieme”, sembri suo malgrado fatto apposta per quello di futuro “rottamatore” dello stesso Renzi – non per colpa di Gori, il quale ci tiene ad apparire sempre un passo indietro rispetto a “Matteo”, con lo zaino che pare preso in prestito da un dipendente McKinsey e il maglioncino alla Marchionne, molti osservatori già lo vedono candidato a tutto e più “papa straniero” di Renzi nell’esercito riformista-centrista di facce nuove trenta-quaranta-cinquantenni cui i sondaggi pronosticano vittorie (specie con il Pd in aria di autogol causa bisticcio sulle regole). “C’è un’atmosfera da ‘when the saints go marching in’, dice un non renziano malizioso. Ma lui, Gori, in ogni dove e appena può, si autodeclassa anche solo dalla figura di “suggeritore”: non mando sms a Matteo mentre fa comizi o è in tv, ha detto dopo che Matteo ha mostrato di non gradire le battute sul tema di Diego Bianchi alias Zoro a “Piazzapulita”, e di adombrarsi come non mai per la sequenza della messa in onda: prima il camper ridanciano di Renzi, poi il servizio con il terremotato che racconta il suo dramma – due cose distinte, a occhio, ma Renzi ci ha visto un accostamento squalificante (sia come sia, la tempesta è scoppiata).

    Intanto lui, Gori, si schermisce pure di fronte a chi gli prospetti un futuro ai vertici di Viale Mazzini (per esempio Vittorio Zincone su Sette, nel luglio scorso: “Non ora, la mia partita è un’altra”, diceva Gori, ripetendo poi allo sfinimento che non era per “una poltrona” che si era messo in marcia). Tuttavia la Rai da riformare “all’inglese”, una Rai che assomigli alla Bbc, con il presidente della Repubblica al posto della regina a nominare il comitato strategico, è in testa ai pensieri di Gori fin dai giorni del “Big bang” renziano alla Leopolda, a fine 2011. C’era la vecchia stazione fiorentina, teatro di ottocentesche esposizioni nazionali e primi quadri macchiaioli, e c’era il “nuovismo” del sindaco Matteo; c’era l’ex officina e c’era il Gori post televisivo che dice “non sono un politico, non sono un amministratore, e non sono neanche un giovane, ma non mi rassegno di fronte ai diciottenni che pensano di non avere un futuro”, e in quel discorso la Rai faceva capolino – “fuori i partiti”, diceva Gori (lo ripeterà anche all’“Infedele” da Gad Lerner, qualche mese dopo). Erano le idee per il “Big bang” del quasi ex produttore tv che alla Leopolda si indignava per le “bugie sulle cene eleganti”, senza per questo ottenere la sempiterna stima degli antiberlusconiani di ogni ordine e grado che gli rimproverano sempre e comunque gli anni in Mediaset (anche se Gori dal 2001 non è in Mediaset) e gli rinfacciano oscure trame sotterranee (anche se Gori dice sempre che era contrario alla discesa in campo del Cav. e allo schieramento di Canale 5, “come Enrico Mentana e Maurizio Costanzo”, e “con il sostegno” di Gianni Letta e Fedele Confalonieri). Alla fine Gori e Renzi l’“hanno valutato”, l’impatto “della vicinanza di un ex direttore di rete Mediaset” allo sfidante delle primarie (così ha detto Gori a Luca Telese, su Pubblico, qualche giorno fa), ma Renzi ha pensato che “quello che dovevano dire lo hanno detto, adesso andiamo avanti e ce ne freghiamo”.

    E però la politica non è un colpo di fulmine recente, per Giorgio Gori, e non solo perché nel 1974, al suo arrivo al liceo classico Paolo Sarpi di Bergamo, tra un gruppo di studio sul golpe cileno di Pinochet e un’elezione al consiglio d’istituto, tra rossi, neri e anni di piombo alle porte, si metteva con Azione e libertà, rassemblement di sinistra riformista, qualcosa di vagamente marziano per il contesto. Erano anni di grande slancio e prima passione giornalistica, sfogata in una radio e poi in due quotidiani locali, dove per ben due volte Gori si trovò a lavorare con Vittorio Feltri, peraltro poi licenziato da Vittorio Feltri – oggi Feltri, interpellato per l’ennesima volta sul tema, ché spesso qualcuno gli chiede “come mai hai licenziato Gori?”, dice che “Gori era sveglio e bravo, ma faceva sempre di testa sua: gli ripetevo in continuazione che, specie in un giornale di provincia, le due campane devono essere sentite con grande accuratezza, onde scongiurare rogne, ma Gori niente, imperterrito proseguiva per la sua strada, e insomma un bel giorno mi sono scocciato”. La cosa non era venuta fuori subito. E anzi i due rimasero buoni amici “di calcetto” – uno può litigare su tutto, ma per non giocare a calcetto, seppure l’uno contro l’altro, deve proprio essere successo il finimondo. Venne fuori, la storia, quando Gori, molti anni dopo, racconta Feltri, scrisse una lettera al Giornale. Una lettera pubblicata da Indro Montanelli in cui, parlando in generale della stampa italiana, Gori parlava anche di un suo licenziamento da parte di un editore. Al che Feltri aveva scritto a Montanelli chiarendo che “no, ero stato proprio io a licenziarlo, l’editore si fidava di me e aveva fatto quello che chiedevo”. Neanche allora prevalse l’acredine, hanno detto in occasioni diverse Feltri e Gori, e anzi Feltri dice “certo non mi avrà benedetto, ma poi mi ha anche scherzosamente ringraziato”, e Gori sostiene che sì, quel calcio gli ha fatto trovare più in fretta la strada del successo come direttore di rete e produttore televisivo. D’altronde Feltri è una costante della famiglia Gori: è stato autore nella trasmissione sportiva di Odeon tv dove una Cristina Parodi alle primissime armi faceva interviste per la rubrica “La ragazza con la valigia”, un’intervista in ogni città, con Walter Zenga a condurre il tutto. Parodi era brava, dice Feltri, a riprova del fatto che le luminose carriere giornalistiche partono dallo sport.

    La politica, lasciata al liceo, non spariva mai del tutto dal campo di interesse di Gori, anche durante la lunga carriera a Canale 5, con intervallo nell’Italia 1 che ha lanciato “Le iene” e “Fuego” e avuto nel parterre, per un periodo, anche Michele Santoro). Non spariva neanche nel decennio dei grandi successi con Magnolia (da “X Factor” all’“Isola dei famosi” – ora al palo come il “Grande Fratello”, ma per anni in cima agli schemi dell’audience) e si intravedeva, come seconda via, negli investimenti in programmi di informazione (“Exit” e “Piazzapulita”). “L’ultimo passo pro Renzi era in qualche modo già scritto”, dice chi conosce bene Gori: non ha mai nascosto di essere stato socialista, Gori – “socialista craxiano”, ha detto a Vittorio Zincone – con buona pace del Renzi che ha risposto “no” alla proposta del Pdl fiorentino di dedicare una via a Bettino Craxi (“non ha valore pedagogico”). E ha continuato a essere “riformista”, sostenitore convinto del Pd del Lingotto, poi iscritto a una sezione del Pd di Bergamo, con indiscrezioni varie su una sua possibile corsa come sindaco della città. Troppo poco, il sindaco in provincia, per quelli che se lo prefigurano ministro o portavoce d’alto livello e poi chissà (Carlo Rossella dice che “al momento Gori è l’unico vero spin doctor italiano, gli altri sono dei poveracci. Ed è l’unico che abbia in testa la lezione dei veri spin, da Sidney Blumenthal per Bill Clinton a Rahm Emanuel per Barack Obama”). Carlo Freccero, invece, che con Gori ha lavorato nella Rete 4 degli albori pre-berlusconiani – la rete era targata Mondadori e Gori, ancora apprendista in tv, ma mago delle schede-telefilm, cercava di imparare l’imparabile dal Freccero vulcanico – dice che i due, Renzi e Gori, hanno “tratti comuni”, ma che a pensarci bene “è sempre meglio l’originale della copia, e tra il concorrente della ‘Ruota della Fortuna’ e l’editore della ‘Ruota della Fortuna’ io scelgo l’editore” (il caso ha voluto che Renzi partecipasse al quiz “La ruota della fortuna” negli anni in cui Gori era direttore di Canale 5 e il Cav. si trovava sul trampolino del tuffo in politica non condiviso da Gori).

    Un tempo soprannominato “cobra sorridente”, il Gori televisivo, che qualche settimana fa ha venduto anche le ultime azioni dell’universo Magnolia (onde evitare polemiche sui conflitti di interesse), dopo aver lasciato il comando, a fine 2011, alle socie fondatrici Ilaria Dallatana (ora amministratore delegato) e Francesca Canetta, resta sotteso al Gori politico, quello che ogni mattina segnala a Renzi gli argomenti di interesse – e se Renzi va a Latina o a Frosinone, in pieno terremoto Fiorito, Gori indica alcuni temi su cui il candidato Renzi potrebbe dire la sua (a Latina comunque è stato pienone, ha raccontato il bersaniano scrittore Antonio Pennacchi a “Piazzapulita”). Il Gori televisivo, per anni, è andato in vacanza sulla spiaggia bianca di Formentera, tra tribù del mojito e angoli esclusivi, con la moglie Cristina, i tre figli e gli amici (tra cui Roberto Giovalli, l’uomo che l’aveva riportato in tv negli anni Ottanta, dopo l’arrivo di Berlusconi; l’uomo che oggi qualcuno chiama, nel gioco birichino di specchi e controspecchi su “chi è guru di chi”, “il Casaleggio di Gori”). Il Gori televisivo, d’inverno sempre immortalato a Madonna di Campiglio, veniva fotografato anche all’apertura del Festival di Venezia, sul tappeto rosso, con Cristina abbronzata in abito lungo. Ma oggi quel Gori è soppiantato dalla sua versione 2.0: blazer blu, scarpe sportive, poche foto, amici che spaziano da Rodolfo De Benedetti a Enrico Mentana a Giuliano Pisapia, computer da cui far uscire le cento proposte della Leopolda o le e-mail discrete di pura rassegna stampa, in linea con il desiderio di Gori di farsi, per il momento, quinta teatrale più che animale da ribalta – anche questo fa parte del tira e molla che vede Gori prima nel cerchio magico di Renzi, poi fuori, in freddo, poi di nuovo dentro, legato più che mai, quando probabilmente è sempre stato dov’è stato, e cioè a dirigere la comunicazione. Ed ecco che tutti, con suo sommo dispiacere, tornano a dirgli frasi del tipo “sei come Boncompagni e Matteo è come Ambra Angiolini”, mentre Aldo Grasso scrive che la campagna di Renzi è un perfetto format televisivo, e Gori di nuovo fa di tutto per scalzarsi dalla casella dello spin doctor, non si sa bene neanche perché, ché non c’è nulla di male a fare lo spin doctor (e tanto, sempre con suo sommo dispiacere, gli intenditori continuano a pensare che prima o poi il candidato sarà lui, anche se non si sa quando e per quale battaglia).

    La folgorazione per Renzi, comunque, è stata preparata da un momento di titubanza (Gori, dice chi lo conosce, a un certo punto “pensa sempre che faccia bene cambiare lavoro o settore”), con graduale avvicinamento all’idea della politica “stile Leopolda” e con il blogger e giornalista Luca Sofri a far da tramite, a un certo punto del 2011. A sentire Sofri, è andata più o meno così: Gori incontra Sofri a pranzo e gli palesa la sua “voglia di impegnarsi per il paese”; Sofri gli dice che forse “la novità Renzi” può fare al caso suo, e “può essere anche divertente”. Detto e fatto: Gori chiede il cellulare di Renzi e lo chiama. Il resto è storia d’oggi, e a Gori tornano utili anche gli studi d’architettura intrapresi dopo l’interruzione coatta di carriera nei giornali diretti da Feltri in quel di Bergamo, dove Gori abita tuttora (l’hanno chiamato anche “lo scenografo” di Renzi, attribuendogli la grandeur dei comizi con video). Torna utile pure l’insegnamento televisivo di fidarsi dell’Auditel (e dei sondaggi) senza caderne schiavi, anche se dall’entourage di Renzi, Gori compreso, non si nasconde la soddisfazione quando il sondaggio accorcia le distanze da Bersani. Torna utile persino il proverbiale distacco cortese (che può essere sempre fatto passare per educazione) per il quale Gori, secondo un collega “sempre estremamente lucido nella marcia verso un obiettivo”, era noto nei corridoi di Mediaset. E infatti più Renzi si adira in tv più Gori smussa; e più Renzi protesta contro il cambio di regole agitato nell’aria democratica più Gori dice “vedremo”, nel classico schema poliziotto buono-poliziotto cattivo (ma oggi all’assemblea del Pd proprio di regole si parla, di un qualche accordo si vocifera, e magari, chissà, a quel punto i ruoli si invertiranno).

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    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.