La scelta di Israele

Ehud Barak ha cambiato idea sull'Iran? Viaggio nella testa del “decisore”

Giulio Meotti

“Israele non fa affidamento sul resto del mondo per evitare che l’Iran si doti di armi nucleari”, ha appena dichiarato il ministro della Difesa d’Israele, Ehud Barak. “Io e il primo ministro Benjamin Netanyahu la vediamo allo stesso modo sull’Iran”. Come spiegarsi allora le voci, sempre più insistenti, che danno Barak contrario oggi all’attacco preventivo israeliano alle installazioni atomiche iraniane senza il via libera degli Stati Uniti? Ha iniziato Haaretz, ma le fonti anonime citate nel pezzo della cosiddetta “conversione di Barak” hanno fatto temere un elemento di spin.

    Roma. “Israele non fa affidamento sul resto del mondo per evitare che l’Iran si doti di armi nucleari”, ha appena dichiarato il ministro della Difesa d’Israele, Ehud Barak. “Io e il primo ministro Benjamin Netanyahu la vediamo allo stesso modo sull’Iran”. Come spiegarsi allora le voci, sempre più insistenti, che danno Barak contrario oggi all’attacco preventivo israeliano alle installazioni atomiche iraniane senza il via libera degli Stati Uniti? Ha iniziato Haaretz, ma le fonti anonime citate nel pezzo della cosiddetta “conversione di Barak” hanno fatto temere un elemento di spin. Però poi Maariv e infine Yedioth, ovvero i maggiori giornali israeliani, hanno riferito che il ministro, considerato il falco per eccellenza sulla questione iraniana, avrebbe assunto una posizione più vicina alle aspettative americane. Senza il sostegno di Barak lo strike israeliano contro l’Iran sarebbe impossibile. Già il Mossad e lo stato maggiore sono, come noto, critici rispetto all’attacco: Netanyahu non potrebbe ordinare una simile operazione senza Barak, che diventa così l’uomo chiave. Soldato più decorato della storia israeliana (“Number One Soldier”, è il titolo della biografia scritta da Ilan Kfir) ed ex capo di stato maggiore, Barak è il “the decision maker” sull’Iran. Per quarant’anni, ha dominato l’establishment militare israeliano, elaborando la politica su Teheran.

    Amir Oren di Haaretz scrive che “Barak si oppone a un attacco a ridosso delle elezioni americane”. Ci sarebbe una ragione politica: Barak vorrebbe entrare in un partito dell’ex leader di Kadima, Tzipi Livni. Ma per altri insider, la faccenda è più complessa. “Barak sa che, senza l’America, Israele non può attaccare i siti iraniani”, ha detto Shimon Shiffer, giornalista veterano di Yedioth, riprendendo un detto dell’ex primo ministro Ariel Sharon: per iniziare una guerra Israele ha bisogno di un accordo con Washington. Secondo David Horowitz, direttore del Times of Israel, c’è un’altra ragione: “Per Barak il momento della verità è stato oltrepassato”, non dice più che l’Iran è vicino alla “zona di immunità”, l’espressione da lui coniata e oltre la quale per Israele sarebbe inutile bombardare i siti atomici.
    Un mese fa lo scrittore Yoram Kaniuk ha firmato un appello contro lo strike israeliano all’Iran. Alcune settimane dopo però ne declina un altro. “Non ci sarà alcun attacco, Barak è contro”, dice Kaniuk. “Non vuole danneggiare ancora di più i rapporti con gli americani”. Fonti vicine a Barak dicono che, per il ministro, Israele deve essere pronto a bombardare l’Iran, ma non fino al punto di rovinare il rapporto con Washington. Secondo Ben Caspit di Maariv, “è chiaro che Barak non sta con Netanyahu nell’ipotesi di un attacco all’Iran prima delle elezioni americane”.

    Efraim Inbar, a capo del Besa Center e fra i consiglieri informali del primo ministro, non ci crede: “L’attacco all’Iran resta sul tavolo, purtroppo Barack Obama non è disposto a tracciare una linea rossa di fronte all’Iran”, dice al Foglio. “Penso che Barak stia cercando di capire quanto Israele possa ottenere dagli Stati Uniti”. Ari Shavit, il columnist di Haaretz che alcune settimane fa aveva intervistato Barak, ritiene invece che il ministro della Difesa abbia una posizione diversa rispetto a Netanyahu. “L’opzione militare d’Israele è sul tavolo”, ci dice Shavit. “La tensione che c’era a luglio oggi però appare minore. Barak non ha cambiato idea, ma è più sensibile di Netanyahu al rapporto con gli americani”. Quando si è trattato di prendere decisioni unilaterali, Barak non si è tirato indietro: nel 2007 diresse il bombardamento del reattore nucleare di Damasco pur contro il parere dell’Amministrazione Bush. Ma sull’Iran potrebbe essere diverso.

    Barak, con la sua laurea di Analista a Stanford, ha fama di porsi sempre due domande: “Quali sono gli obiettivi? Quali sono i rischi?”. A differenza di Netanyahu, più ideologico, Barak è un pragmatico, tanto che da ministro rifiutò di approvare la seconda fase degli accordi di Oslo perché gravosi per la sicurezza. Sull’Iran, è possibile che l’ex soldato che a Beirut eliminò i mandanti della strage di Monaco ’72 abbia deciso di affidarsi agli Stati Uniti. Per lui nulla è più importante di mantenere un rapporto solido con l’establishment militare americano, che contribuisce per il venti per cento alle spese israeliane.

    A preoccupare Barak ci sarebbero segnali come un documento dell’intelligence statunitense dal titolo “Preparing For A Post Israel Middle East”. Ovvero preparatevi a un medio oriente post israeliano. Ottantadue pagine che portano la firma di analisti militari, dell’Homeland Security, dell’Fbi, della National Security Agency e della Cia. Si dice, in sostanza, che Israele potrebbe diventare un peso per la politica americana in medio oriente e che sarà necessario tagliare i contributi americani allo stato ebraico. Cosa rischierebbe Israele se attaccasse oggi l’Iran alienandosi gli Stati Uniti? Non crede ai report su Barak Yossi Klein Halevi, intellettuale israelo-americano e contributor di importanti testate: “Per Netanyahu, fermare il nucleare iraniano definisce la sua storia politica e quella ebraica. Barak forse gioca in chiave elettorale, ma il dato oggi decisivo è che Israele attaccherà l’Iran se avverte che Obama non sarà disposto a farlo”.

    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.