L'appestato

Giulio Meotti

Pensi che fino a nuovo ordine non posso neppure recarmi al lavoro alla sede di Gallimard, sono costretto a lavorare da casa, il mio confino, come Cesare Pavese”, dice un po’ scherzando al Foglio Richard Millet, nella prima intervista concessa a un giornale italiano dopo il caso che lo ha travolto da agosto. L’editore dei suoi ultimi libri, Pierre-Guillaume de Roux, sostiene che l’affaire Millet, il caso Millet, ha raggiunto “livelli irrazionali”. Non si ricordano interventi di primi ministri contro un libro. E’ proprio una novità assoluta.

    "Pensi che fino a nuovo ordine non posso neppure recarmi al lavoro alla sede di Gallimard, sono costretto a lavorare da casa, il mio confino, come Cesare Pavese”, dice un po’ scherzando al Foglio Richard Millet, nella prima intervista concessa a un giornale italiano dopo il caso che lo ha travolto da agosto. L’editore dei suoi ultimi libri, Pierre-Guillaume de Roux, sostiene che l’affaire Millet, il caso Millet, ha raggiunto “livelli irrazionali”. Non si ricordano interventi di primi ministri contro un libro. E’ proprio una novità assoluta.

    Alcuni giorni fa il premier francese, Jean-Marc Ayrault, ha infatti attaccato l’ultimo scritto di Millet, diventato nel frattempo il pamphlétaire più controverso di Parigi. “Il primo ministro non ha letto il libro, ha fatto soltanto della propaganda”, dice Millet. Intanto la più grande libreria del Belgio, Filigranes, ha ritirato volontariamente dalla vendita le copie del suo “Eloge littéraire d’Anders Breivik”. Nessun tribunale le aveva imposto di farlo. “Per la prima volta in ventinove anni la libreria prende una decisione simile”, ha scandito il patron di Filigranes, Marc Filipson. “Censura”, replica la rivista francese Causeur, diretta da Elisabeth Lévy. “Sono dei vittoriani sempre pronti a inginocchiarsi all’ideologia dominante”, aggiunge Millet.

    Autore pluripremiato dall’Académie Française, lo scrittore è stato “dimissionato” dal comitato di lettura di Gallimard, la maison che ha dominato la letteratura del XX secolo, casa editrice di Marcel Proust e André Gide, Milan Kundera e Georges Simenon, Albert Camus e Jean Genet, dove Millet continuerà a seguire come editor gli autori, ma senza prendere decisioni in merito ai libri da pubblicare. Non è in discussione la libertà di espressione, gli ha scritto Antoine Gallimard, a capo del gruppo editoriale, ma il suo nome coinvolge inevitabilmente anche le edizioni per cui Millet lavora: “Appartenere alla casa implica una forma di solidarietà, un membro del comitato di lettura la rappresenta. Non posso approvare nessuna delle sue tesi politiche. Questa non è la mia posizione personale, ma è da sempre quella della casa editrice”. 

    Anticonformista? Provocatore? “Nouveau réactionnaire”, secondo la formula dell’intellettuale jospiniano Daniel Lindenberg? Vittima di un linciaggio ideologico? Esibizionista? Kamikaze culturale, come ha scritto qualcuno? Snob della gauche? Millet sembra un po’ tutto questo insieme. Attorno al suo nome si consuma una rottura senza precedenti nel mondo dell’alta editoria e cultura francese, dove Millet da anni primeggia come uno dei più raffinati e importanti editor letterari. “Suoi” sono gli ultimi grandi vincitori del premio Goncourt, il più blasonato di Francia, come “Le benevole” di Jonathan Littell e “L’arte francese della guerra” di Alexis Jenni. Entrambi autori, ricordava ieri il belga Le Soir, scoperti da Millet. Per questo è stato soprannominato “la fabbrica dei Goncourt”.
    Non solo, ma addirittura una ventina fra saggi e romanzi scritti da Millet sono presenti nel celebratissimo catalogo di Gallimard, come “L’innocence”, “L’amour mendiant”, “Lauve le pur” e “Ma vie parmi les ombres”. Insomma, un pezzo da novanta della classe intellettuale parigina.
    All’inizio dell’estate, Millet presenta il suo nuovo saggio “Langue fantôme”. In coda al libro, che si occupa perlopiù della crisi della letteratura, Millet inserisce una ventina di paginette intitolate “Eloge littéraire d’Anders Breivik”, una lettura provocatoria e discutibile sulle motivazioni che armarono il pazzo omicida norvegese. Millet non scusa, non cerca attenuanti al mostro, ma offre una visione inquietante, terribile, scandalosa, della mattanza di Utoya. Ovvero la crisi dell’identità europea e del multiculturalismo.

    La stampa francese si sta scannando sul suo caso, utilizzando un linguaggio da guerra civile. E’ come se l’affaire Millet avesse fatto esplodere le passioni più profonde dentro alla cultura parigina. “Come possono pensare che abbia scritto un elogio di Breivik?”, dice Millet. “Ho detto che è un mostro e un criminale”. Alla domanda se oggi cambierebbe il titolo del pamphlet che ha scatenato questo putiferio, Millet taglia corto: “No, era un buon titolo”. Ma adesso teme per la propria incolumità, perché la Francia, dice, può diventare un posto pericoloso. “Da venti giorni mi guardo le spalle e ho cancellato il mio nome dalla cassetta della posta”.

    Giovedì il settimanale Nouvel Observateur, l’ultimo di una serie, ha sbattuto Millet in prima pagina sotto il titolo “I neofascisti e i loro amici”, elencando il suo nome assieme a quello di altri scrittori rinomati, come Eric Zemmour e Alain Finkielkraut. “E’ un metodo stalinista”, dice Millet. “Chi può permettersi ancora di parlare liberamente?”. Millet dice di essere tutto tranne che “di destra”. “Non sono politico, non ho simpatie per il potere politico, non ho mai votato”. L’unica eccezione di stima è per Charles de Gaulle. “Era un bastione contro il comunismo ed è l’uomo della decolonizzazione”.
    J.M. Le Clézio, scrittore premio Nobel, pubblicato dalla stessa casa editrice Gallimard dove Millet lavora come editor, ha scritto che il suo pamphlet è sintomatico di una “certa corruzione del pensiero contemporaneo e della responsabilità degli scrittori nella diffusione del razzismo e della xenofobia”. Sulla rivista La Règle du Jeu, Bernard-Henri Lévy ha chiesto esplicitamente a Gallimard di far fuori Millet, definito “falangista”. “Antoine Gallimard, erede della casa editrice di Proust, pensava di chiudere il caso citando la ‘libertà d’espressione’”, aveva scritto BHL. “Non è chiaro come possano gli eredi di Sartre e Malraux continuare a essere editati da un uomo simile. Questo è solo l’inizio”.
    La scrittrice Annie Ernaux ha diffuso sul Monde un testo controfirmato da centoventi scrittori, in cui chiedeva la cacciata di Millet. Secondo la scrittrice, anche lei da anni pubblicata da Gallimard, Millet “disonora la letteratura”, “trasuda disprezzo dell’umanità” e “arruola di forza la letteratura in una logica d’esclusione”. Fra i firmatari dell’appello contro Millet figurano nomi quali Amélie Nothomb, Philippe Forest, Mathias Enard, Nancy Huston, Olivier Adam, Delphine de Vigan, Lydie Salvayre, Dan Franck, François Bon, Anne-Marie Garat e Marie Desplechin.

    Il Figaro ha tenuto banco con una campagna contro la demonizzazione dello scrittore, che secondo il giornale francese è stata ordita da un’“élite di bambini viziati”, mentre il columnist Ivan Rioufol lo ha chiamato “linciaggio mediatico”. Élisabeth Lévy ha scritto l’attacco più duro agli accusatori di Millet, dal titolo “la fatwa di Saint-Germain-des-Prés”, un riferimento a Gallimard, il “tempio della letteratura” che sorge al numero 5 di Rue Sébastien Bottin, una delle vie più piccole di Parigi a pochi passi da Saint-Germain-des-Près.

    “I critici di Millet non sono interessati a discutere, questi adoratori dello scandalo vogliono solo metterlo a tacere”, ha scandito Levy. “Viene da vomitare quando chi si professa per la libertà diventa un ausiliario della censura. Se la letteratura si riduce a Tahar Ben Jelloun, penso che non leggerò più un libro”. 

    Anche Bruno de Cessole, prima penna del Figaro, si è schierato a difesa dell’autore di Gallimard, contro cui ha detto è in corso una “caccia alle streghe”. “Ciò che colpisce in questo caso è notare come nessuno dei suoi critici stalinisti abbia veramente affrontato il testo incriminato. Per esempio, in che misura il massacro di Breivik è la conseguenza della politica migratoria norvegese? Ricordiamo, con Claude Lévi-Strauss, che in tutte le società esiste una soglia di tolleranza, un limite estremo da non valicare, pena reazioni aggressive. Millet, insisto, condanna il gesto dell’assassino e lo considera il sintomo estremo della decadenza e del lassismo occidentale, ma ha usato termini e formule oggi imperdonabili”.

    Durissimo lo scrittore e giornalista Denis Tillinac, che parla di “petainismo soft”, di “bigotti del nuovo ordine morale”, di “farisei che non ammettono che qualcuno possa sfuggire al manicheismo progressista” e di “Torquemada della sinistra”. Al caso Millet dedica una copertina il magazine conservatore Valeurs Actuelles, con la foto dell’autore, un titolo sui “linciati” e l’editoriale: “A Mosca era chiamata purga”.

    E’ intervenuto anche François Bousquet. “Il comunismo è morto a est, ma è stato sostituito all’Ovest dall’antirazzismo che Alain Finkielkraut ha definito ‘il comunismo del XXI secolo’. Per il filosofo si tratta di una filiazione del trotzkismo, il sogno di costruire una società senza discriminazioni né frontiere, un mondo d’agnelli. Una vera fiaba”. Gabriel Matzneff, scrittore libertino e amico di Millet, ha attaccato “l’atteggiamento dell’intellighenzia parigina nei confronti dell’islam. La spiegazione è chiarissima: la vigliaccheria. Nel 2012 il Café de Flore si inginocchia davanti ai barbuti fanatici di Libia, di Siria, così come trent’anni orsono si inginocchiava davanti a Stalin. L’intellighenzia francese si inginocchia sempre davanti al vincitore, oppure al futuro vincitore”.

    Nel 2007 Millet, nel libro “Il disincanto della letteratura”, aveva attaccato “l’eugenetica già in atto”, destando polemiche. E quasi tutti i suoi pamphlet hanno scatenato dibattiti accesi, come la sua controstoria della guerra civile in Siria. O come quando prevede la “fine della civiltà umanistica”, denuncia la “miseria morale” e la “servitù volontaria di La Boétie” che dominano la società europea, o attacca il “Maggio ’68 diventato quasi un dogma letterario”. 

    Millet aveva promesso di rispondere agli attacchi ricevuti con un piccolo pamphlet, sempre per le edizioni De Roux, dal titolo pascaliano: “Pourquoi me tuez-vous?”. Perché mi uccidete? Il Foglio lo anticipa.  Nel nuovo pamphlet, che l’editore diffonde gratuitamente alla stampa e nelle librerie, Millet attacca “l’odio politico-letterario” che lo ha sommerso, “l’ideologia antirazzista”, dice di aver “sempre distinto fra il suo lavoro come scrittore e quello di editor”, sostiene che l’Europa è sotto “intimidazione da parte del salafismo e del politicamente corretto”, che corre il rischio di vedere “distrutta la cultura umanistica o cristiana in nome dell’umanismo e del multiculturalismo”, quel multiculturalismo che considera “lo spirito nazionale, il genio dei popoli, la storia, la cultura, il cattolicesimo come nient’altro che volgarità”, quel multiculturalismo che “è una delle forme di decomposizione culturale, spirituale e sociale dell’Europa”.

    Millet definisce Anders Breivik, l’assassino seriale di Utoya, come un “sintomo demoniaco prodotto dalle nostre società” e lo accosta a Mohammed Merah, lo stragista islamico di Tolosa, che uccise quattro ebrei inermi, fra cui tre bambini. Millet non nomina i moltissimi autori e giornalisti che hanno chiesto e ottenuto il suo “ridimensionamento” a Gallimard, ma li elenca con queste parole: “Un invertebrato multiculturale, un poeta sdolcinato, un filosofo pop, una pasionaria post razziale, i KGBisti dell’incultura attiva”, a cui lui vorrebbe fosse concesso “un premio Breivik per il loro odio, ignoranza e volontà di uccidere”.

    Millet parla di funzionari, giornalisti, scrittori arrivisti, saggisti mediocri “interscambiabili, banali e insignificanti” e le cui opere “sono dimenticate poco dopo esser state pubblicate”. In fondo, “s’indignano proporzionalmente alla loro ignoranza”. E allora, senza tralasciare nessuno, Millet attacca “gli indignati, le femmine defemminizzate, gli zeloti, i nichilisti postlinguistici, i debordiani, i deleuziani, i derridiani”, tutti coloro che usano “la delazione come pratica letteraria e il vecchio programma fascista riciclato in indignazione”. La tattica usata oggi in Francia, scrive l’autore, “è la stessa di Goebbels e Beria: decontestualizzare, amalgamare, estrapolare, intimidire, insultare, mentire”.
    Millet accusa i suoi detrattori di non aver letto i tre testi che, insieme all’Elogio letterario di Breivik, costituiscono un unico “gesto letterario”. Ribadisce che non è stata colta “l’ironia” del titolo incriminato, rimpiangendo solo che “alcune delle sue espressioni abbiano potuto ferire quei lettori preoccupati dalla verità, soprattutto in Norvegia”. Breivik non sarebbe altro che il “fantasma” di una “guerra civile” in corso, che la letteratura deve avere il diritto di evocare, come hanno fatto in passato Dostoevskij, Genet e Truman Capote.

    Millet rigetta l’accusa di razzismo. “Sono cresciuto in Libano, fra diciassette comunità e la questione dell’origine mi affascina. Amo le razze, i popoli, la diversità, ma non credo che una massiccia immigrazione di popoli culturalmente e religiosamente diversi da noi sia fattibile”. Secondo lo scrittore, “l’antirazzismo come ideologia ha lo stesso odio che hanno gli antisemiti, gli anticlericali, gli ateisti”.
    “L’ambiente politico in Francia, soprattutto nel campo culturale, è immerso in una guerra civile”, dice Millet. “Tutti devono essere ‘socialdemocratici’, politicamente corretti, antirazzisti e così via… Se non sei d’accordo con questa ideologia, che è una falsificazione storica, diventi un traditore. La mia ‘colpa’ principale penso sia stata il fatto di aver detto che la letteratura francese è insignificante e che anche la Francia lo diventerà. La letteratura, soprattutto in Francia, è diventata la nuova menzogna della ‘tolleranza’”.

    Il cuore della sua critica contenuta nel saggio scandaloso, dietro un linguaggio spesso eccessivo, è stato l’attacco al multiculturalismo. “Questo cresce sulla morte delle culture nazionali in nome dell’umanesimo”, dice Millet. “Assumono la perfettibilità dell’uomo in un’infinita idealizzazione dell’altro cominciando dal clandestino, il rifugiato, la donna, l’omosessuale, il pazzo, il bambino, l’animale e presto anche l’insetto. E’ una grande fantasia egualitarista, un’escatologia sociale. Il multiculturalismo è diventata un’arma. Quando l’Europa si sente in colpa, dai genocidi alla colonizzazione, il nostro continente non può essere più se stesso. Gli europei vivono nell’odio di se stessi, che è una forma di nichilismo. Breivik è l’eco mostruoso e la risposta a questo odio. Viviamo nell’età della grande falsificazione”.

    Millet non si rimangia le parole senza mediazioni usate sull’islam politico. “E’ il nuovo terrore contemporaneo. Cresce sul senso di colpa europeo, che è l’altra faccia del terrore. Ed è a sua volta l’altra faccia del capitalismo americano: il Qatar, gli Emirati arabi, l’Arabia Saudita hanno un progetto economico-islamico, reso possibile grazie al declino della cultura, della cristianità, dell’umanesimo. Una verità giuridicamente supervisionata”.
    Prima di chiudere, alla domanda su cosa conti maggiormente per lui oggi, Millet risponde, laconico: “La cristianità, il linguaggio e la letteratura”. Progetti per il futuro? “Un saggio sulla musica”.

    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.