Sulle tracce dei soldi europei, la strada segnata di una Fiat senza Italia

Alberto Brambilla

Follow the money. Seguire i soldi per capire che cosa resterà di Fiat dopo l’annunciato abbandono del progetto “Fabbrica Italia” porta soprattutto alla branca della Ricerca e sviluppo, segmento ancora vitale in un mercato in affanno. In Europa una pista sicura è tracciata dagli investimenti in arrivo dalla Banca europea per gli investimenti (Bei), partecipata con una quota del 16 per cento anche dall’Italia. Nel 2012 Fiat Industrial, società del Gruppo dedicata ai veicoli pesanti, ha infatti chiuso un accordo per ricevere un prestito da 350 milioni di euro per sviluppare un progetto complessivo che vale il doppio su motori ibridi, a gas, nuovi combustibili e sperimentare migliorie nell’aerodinamica dei veicoli.

    Roma. Follow the money. Seguire i soldi per capire che cosa resterà di Fiat dopo l’annunciato abbandono del progetto “Fabbrica Italia” porta soprattutto alla branca della Ricerca e sviluppo, segmento ancora vitale in un mercato in affanno. In Europa una pista sicura è tracciata dagli investimenti in arrivo dalla Banca europea per gli investimenti (Bei), partecipata con una quota del 16 per cento anche dall’Italia. Nel 2012 Fiat Industrial, società del Gruppo dedicata ai veicoli pesanti, ha infatti chiuso un accordo per ricevere un prestito da 350 milioni di euro per sviluppare un progetto complessivo che vale il doppio su motori ibridi, a gas, nuovi combustibili e sperimentare migliorie nell’aerodinamica dei veicoli. Solo l’anno prima ne ha ricevuti 250, mentre nel 2010 ha attinto da una linea di credito da 3 miliardi di euro messa a disposizione dell’intero settore auto europeo. L’odore dei soldi incamerati da Fiat lascia una scia che parte dai centri di ricerca di Genova e Torino, dove finirà l’83 per cento del denaro europeo stanziato, e corre verso nord, al polo di Arbon in Svizzera e di Ulma, nel sud della Germania, per sviluppare i progetti sui veicoli industriali Iveco.

    Così prende forma la geografia di un segmento in cui Fiat investe ancora (4,1 miliardi negli ultimi due anni), anche per sviluppare la tecnologia da trasferire in Chrysler, di cui è azionista di maggioranza, come sui motori diesel. Difficile però capire quello che succederà in concreto, se la crisi di settore che ha convinto l’amministratore delegato, Sergio Marchionne, alla ritirata toccherà anche l’avanguardia tecnologica: a Torino i “no comment” sul futuro degli investimenti (di qualsiasi tipo) sono diventati un ordine in questo momento delicato. Quello che si intravede è però un polo multinazionale europeo della Ricerca e sviluppo. E, nel peggiore scenario, è questo il ruolo che i vertici del gruppo Fiat-Chrysler sembrano avere in mente per l’Europa e per l’Italia, dove però secondo i calcoli degli analisti di Centrobanca ci sarebbe spazio per la produzione di altre 600-700 mila vetture.
    “Non c’è dubbio che sia questo il punto”, commenta con il Foglio, Giulio Sapelli, professore di Storia economica all’Università statale di Milano, “ed era anche previsto da tempo che Fiat si dovesse indebolire in Europa dal punto di vista industriale perché è proprio scritto nel contratto di fusione con Chrysler: Fiat avrebbe aumentato la partecipazione nella casa automobilistica americana in maniera inversamente proporzionale al numero di auto prodotte in Europa”. “Ciò rende evidente che Marchionne e la famiglia Agnelli avevano da tempo deciso di abbandonare l’Italia per quanto riguarda la fabbricazione automobilistica. Del resto occorre sottolineare che Torino continua a rimanere un centro d’eccellenza dal punto di vista motoristico e del design”, aggiunge Sapelli.

    La creazione di nuovi prodotti e motori innovativi è anche il banco di prova di una trasformazione più ampia del settore automobilistico, necessaria per sopravvivere alle difficili condizioni di mercato che stanno penalizzando i produttori generalisti che non sono sostenuti dalla voglia di lusso degli emergenti. “In questa dimensione penso che le attività in partnership saranno sempre più consistenti, sia con attori istituzionali come le università, sia con altri produttori”, spiega al Foglio Giuseppe Berta, storico dell’Industria presso l’Università Bocconi. Convinto che sul lato industriale quest’anno gli investimenti non siano affatto mancati per Fiat, basti pensare al lancio del nuovo stabilimento Maserati nel 2013 con mezzo milione di euro sul piatto, Berta aggiunge: “Pensiamo al ridimensionamento di Peugeot, e alla crisi di Opel, parte del gruppo statunitense General Motors, fanno pensare che possano aprirsi delle possibilità di intese comuni, perché sono imprese che non riescono a reggere da sole. Si va verso una razionalizzazione del mercato e piattaforme comuni di produzione. Quando questo avverrà è difficile dirlo: dipende dall’approfondirsi della crisi industriale e da una politica europea per il settore che ancora non c’è, soprattutto per via delle resistenze tedesche”. In sintesi, Berta prevede che si stia andando a una velocità imprevedibile verso uno scenario in cui “le spinte verso la competizione sono molto forti, ma al contempo ci sono spinte altrettanto consistenti verso la ricerca di soluzioni comuni: un difficile equilibrio con cui il settore dovrà confrontarsi”.

    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.