La prima fatwa

Giulio Meotti

Il 14 febbraio 1989 l’ayatollah Khomeini, principale autorità religiosa sciita e fondatore della Repubblica islamica dell’Iran, emette una fatwa contro “I versetti satanici” di Salman Rushdie: “Informo l’orgoglioso popolo dell’islam che l’autore dei ‘Versetti satanici’ che è contro l’islam, il Profeta e il Corano, e tutti coloro che sono implicati nella sua pubblicazione essendo consapevoli del suo contenuto, sono condannati a morte”. Per lo scrittore anglo-indiano è l’inizio di una peregrinazione lunga vent’anni. Il 18 settembre uscirà l’autobiografia dell’esilio di Rushdie nel mondo libero.

    Il 14 febbraio 1989 l’ayatollah Khomeini, principale autorità religiosa sciita e fondatore della Repubblica islamica dell’Iran, emette una fatwa contro “I versetti satanici” di Salman Rushdie: “Informo l’orgoglioso popolo dell’islam che l’autore dei ‘Versetti satanici’ che è contro l’islam, il Profeta e il Corano, e tutti coloro che sono implicati nella sua pubblicazione essendo consapevoli del suo contenuto, sono condannati a morte”. Per lo scrittore anglo-indiano è l’inizio di una peregrinazione lunga vent’anni. Il 18 settembre uscirà l’autobiografia dell’esilio di Rushdie nel mondo libero. Il colosso americano Random House ha sborsato diversi milioni di dollari per assicurarsi i diritti esclusivi del libro.
    “E’ finalmente giunto il momento che io racconti questa storia pubblicamente”, aveva annunciato lo scorso febbraio Rushdie. Quella fu la prima volta in cui la maggior parte degli occidentali udì la parola “fatwa”, che da allora è entrata nel vocabolario corrente dello scontro di civiltà.

    Quando Scotland Yard chiese allo scrittore di scegliersi uno pseudonimo, Rushdie mise insieme i nomi di battesimo dei suoi autori preferiti, Conrad e Cechov, diventando il signor “Joseph Anton”, con cui firma queste memorie.
    Il caso Rushdie, l’editto che lo ha colpito, erano segni che avremmo dovuto decifrare meglio di come abbiamo fatto. La condanna a morte di Rushdie scagliata da Khomeini fu il primo sparo di una lunga guerra culturale ancora in corso. Ma contiene anche un paradosso. Che emerge proprio dal libro di memorie.
    Rushdie è un grande intellettuale mondano, che ha reagito alla fatwa blandendo l’islamismo con mille distinguo, ammansendo il conflitto dopo l’11 settembre, stemperandolo in nome di un fugace e indifferente irenismo (“si dovrebbe inventare una Gerusalemme fai da te, così la si potrebbe avere dappertutto, in Palestina, a Milano… questa è la mia soluzione”) e con la posa dello scrittore impegnato (“il terrorismo fa parte della vita di tutti noi, serve uno sforzo per cercare di entrare nel cuore del problema, nella mente di chi professa il terrorismo, lo scrittore ha questo compito come e più di altri”).

    Intellettuale globale, modernista e comunitarista che dice di odiare l’espressione “guerra al terrore”, Rushdie è diventato parte della vita pubblica, tiene conferenze, presenta show in tv, è comparso in un cameo del film “Il diario di Bridget Jones” e in un video con Scarlett Johansson. Nel frattempo si è consegnato al multiculturalismo più naïf, e da paladino della libertà è diventato icona della “literary London”, l’idolo di Democracy Now e di un milieu fatto di equivalenza morale. Rushdie, scrive Daniel Pipes, è entrato a far parte del “goscismo fashion”.
    Mentre Rushdie si volgeva al multiculturalismo britannico, a un milieu culturale tinto di antiamericanismo  e di infingimenti della tolleranza (“bisogna riguadagnare  il nostro senso di personalità molteplici, dopo di questo la tolleranza viene automaticamente”), i sicari della fatwa iniziavano a ingrossare il loro bottino.

    Perché la cosa importante non è mai stato il contrasto tra il pio ayatollah e lo scrittore dai divorzi in serie (cosa che invece ha monopolizzato il caso, e il libro, di cui Roberto Saviano su Repubblica ha fatto appunto l’apologia della “vita blindata”). Il dato storico del caso Rushdie è che la fatwa si è imposta sulla umma, la comunità islamica dei credenti, in occidente quanto in oriente. Se Rushdie è sotto alta protezione ormai da più di dieci anni, questo è dovuto al fatto che era dovere sacro di ogni musulmano applicare la fatwa contro di lui. Khomeini riuscì a rendere “normale” che chiunque venisse considerato offensivo nei confronti dell’islam meritasse la morte. Non solo, ma in occidente gli intellettuali furono lesti a sanzionare il diritto della teocrazia iraniana a regolare il discorso sull’islam nelle terre del mondo libero. Lo scrittore francese André Glucksmann ha scritto che “nel nostro occidente democratico, le autorità religiose e politiche cominciarono con l’abbozzare una smorfia che liquidava moralmente sia l’autore dei ‘Versetti satanici’ sia gli inquisitori di Teheran”.
    Il libro racconta episodi mozzafiato della fuga di Rushdie. Come i giorni trascorsi in Scozia, in una remota fattoria a Powys, per proteggersi dai mandanti iraniani, ospite di un suo ex agente letterario. Ci sono le visite blitz ad amici storici come Ian McEwan e Martin Amis, che lo ha protetto per un po’ a casa sua.

    Il giorno della fatwa Rushdie e la moglie americana, Marianne Wiggins, da cui divorzierà, furono prelevati dalla loro casa a Islington, nella zona nord di Londra, dal servizio segreto inglese, per essere portati nelle oltre cinquanta “case sicure” in cui lo scrittore ha vissuto per dieci anni. I due sono protetti da un apparato di sicurezza gigantesco e costosissimo, simile a quello riservato a un capo di stato. Lo scrittore giapponese Kazuo Ishiguro ebbe a dire che Rushdie viveva come gli ostaggi a Beirut. Per anni nessuno sapeva dove vivesse. 

    Le telefonate anonime contro il figlio di Rushdie, Zahar, a tutte le ore del giorno e della notte, diventano una cosa normale. Quante volte avrà risposto al telefono e sentito una voce che diceva di sapere il numero di telefono e l’indirizzo, e che avrebbero pagato per la “blasfemia” del padre. Quando voleva parlare con il padre, Zahar doveva chiamare Scotland Yard, che trasferiva la telefonata ovunque lo scrittore si trovasse. E quando riusciva a vederlo, la polizia formava attorno a loro un cordone di sicurezza quando uscivano di casa, affinché nessuno riconoscesse Rushdie e tentasse di fargli del male. Per un po’ la polizia utilizzò i celebri taxi londinesi, considerandoli meno appariscenti delle auto di servizio, per portarli da una parte all’altra della città.
    Quando Rushdie dovette tenere una lezione all’Institute of Contemporary Arts in London, fu l’amico e premio Nobel Harold Pinter a leggerla al posto suo. Per intervistarlo, il regista David Cronenberg dovette sottoporsi agli inquisitori di Scotland Yard. Alla vigilia dell’appuntamento, Cronenberg riceve una telefonata di uno 007 inglese. “Un agente ti incontrerà nella lobby del tuo albergo”, disse, “il suo nome è Sinclair. Prenderete un taxi insieme che vi condurrà a un luogo top secret”.

    Prima di morire, quattro mesi dopo la fatwa, l’ayatollah Khomeini disse che “anche se Salman Rushdie si pentisse e diventasse l’uomo più pio di tutti i tempi, è obbligo di ogni buon musulmano impiegare ogni sforzo e ricchezza per mandarlo all’inferno”. La morte improvvisa di Khomeini ha reso eterna la fatwa. E ancora valida.
    La lezione principale dell’affaire Rushdie, come si evince anche dalla sua autobiografia, è sconfortante. Per dirla con Glucksmann, “i tempi nuovi furono inaugurati dalla fatwa contro Rushdie e pochi ne rimasero turbati salvo qualche artista, giornalista o letterato. Le autorità morali e politiche occidentali manifestarono un po’ di comprensione nei confronti dei loro colleghi di Teheran: occorreva che i benpensanti di tutti i paesi si unissero di fronte alla minaccia blasfema”.
    Nel 1991 la fatwa dà i suoi primi frutti: a Tokyo viene ucciso a pugnalate il traduttore giapponese dei “Versetti satanici”, Hitoshi Igarashi, che indomito aveva deciso di tradurre il romanzo. Poi i sicari iraniani giustiziano un imam belga, Abdullah al Ahdel, e il suo assistente, a Bruxelles, perché aveva osato criticare la fatwa.

    Catene di librerie in tutta Europa bandiscono il libro, per paura di attentati. La casa editrice francese Christian Bourgois si rifiuta di pubblicarlo, e lo stesso fa l’editore tedesco Kiepenheuer. Minacce arrivano ai collaboratori della casa editrice. L’allora più grande catena americana di libreria, Waldenbooks, ritira dal commercio “I versetti satanici”. C’era persino il timore a esporli in vetrina.
    Gianni Palma, editore della versione giapponese del volume, riceve minacce di morte. “Sarai tu il prossimo”, trova scritto sulla sua porta di casa alla periferia di Tokyo. L’attentato più grande avviene in Turchia nel 1993. Trentasette ospiti di un albergo a Sivas vengono uccisi nei tentativi di linciaggio del traduttore turco di Rushdie, Aziz Nesin. Nell’incendio muoiono il critico letterario Asim Bezirci e il poeta Nesimi Cimen. 

    Secondo il Wall Street Journal, “oggi in Europa, decine di persone vivono nascoste o sotto la protezione della polizia a causa delle minacce degli estremisti musulmani”. Anche Papa Benedetto XVI ha ricevuto una raffica di minacce dopo aver citato le parole di un imperatore bizantino a proposito di islam. E da allora, il Vaticano ha “seppellito” la lezione di Ratisbona. In occidente la paura prende i nomi del giornalista danese Flemming Rose e del francese Robert Redeker, dell’intellettuale tunisino Lafif Lakhdar, della somala Ayaan Hirsi Ali e dell’olandese suo amico Theo van Gogh, assassinato per la stessa accusa di blasfemia. L’editore norvegese di Rushdie, William Nygaard, si becca tre colpi di arma da fuoco vicino a casa, alla periferia di Oslo.

    Rushdie è stato spesso accusato di essersi dimenticato delle vittime collaterali della fatwa. Vent’anni fa, Ettore Capriolo era il traduttore italiano di Le Carré e Hemingway. Nel 1989 poi tradusse “I versi satanici”. Il 3 luglio 1991 Capriolo ricevette nella sua casa milanese di via Curtatone un sedicente iraniano interessato a una traduzione. Il sicario colpì Capriolo a pugni e poi, estratto dalla giacca un coltello, lo trafisse al torace, al collo, agli avambracci e al volto. Alcuni giorni dopo Capriolo rilasciò una intervista al Corriere della Sera in cui criticava Rushdie, che “dal suo bunker protetto da decine di guardie del corpo non ha avuto il buongusto di mandare un telegramma”.
    Rachid Mimouni, autore del romanzo “La maledizione”, compare nelle liste di morte affisse nelle moschee insieme all’autore di “Ripudio”, l’algerino Rachid Boudjedra. Mimouni viene soprannominato “il Rushdie algerino” e condannato a morte dagli integralisti. Era diventato il nemico numero uno del Fis, che aveva pronunciato a più riprese una fatwa nei suoi confronti, dopo aver pubblicato il saggio “Della barbarie in generale e dell’integralismo in particolare”.

    Nel tollerante Marocco fece scalpore il caso di Mohamed Choukri, che non potè lasciare Tangeri per raggiungere il Salone di Torino del 1989: si era saputo che il suo nome figurava tra le vittime designate dagli ayatollah iraniani insieme a Rushdie. I libri della siriana Ghada Samman vengono bruciati ovunque nel mondo islamico.
    In Turchia gli estremisti uccidono numerosi scrittori e giornalisti blasfemi. Toktamis Ates, giornalista del quotidiano laico Cumhuriyet, sfugge a una bomba sotto la sedia della libreria dove stava presentando un libro. L’unico premio Nobel della Letteratura che il mondo arabo abbia avuto, Naguib Mahfouz, scampa a un attentato ordito in nome della fatwa contro Rushdie nel 1994. Uno sconosciuto lo avvicinò sotto casa al Cairo e lo pugnalò due volte al collo. Aveva ottantadue anni Mahfouz, era diabetico e cieco, eppure il commando legato ai Fratelli musulmani non ebbe pietà. Per l’attentato vennero arrestati e processati sette estremisti islamici, impiccati dal regime di Hosni Mubarak. “Abbiamo scelto il coltello – confessarono alla polizia – perché volevamo torturare la vittima a lungo prima di farla morire di morte lenta”. La condanna più violenta contro Mahfouz l’aveva lanciata Omar Abdel Rahman, lo sceicco cieco implicato nella prima strage del World Trade Center a New York, e considerato il padrino dei salafiti: “Ci fossimo comportati come dovevamo con Mahfouz, ora non avremmo problemi con Rushdie. Ucciso Mahfouz, non ci sarebbe mai stato Rushdie”.

    Meno fortunato è lo scrittore liberale Farag Foda, amico e collaboratore di Mahfouz che pochi giorni dopo essere stato dichiarato “apostata” nel 1992 venne ucciso assieme al figlio. In quell’occasione il più insigne teologo islamico, Mohammad al Ghazali dei Fratelli musulmani, legittimò in tribunale l’attentato: “L’uccisione di Farag Foda è stata di fatto l’esecuzione della punizione nei confronti di un apostata che lo stato non aveva attuato”.
    Anche in Algeria cadono, uno dopo l’altro, una dozzina di intellettuali laici. Viene sgozzato in piazza Mohammed Boukhobza, sociologo. Tahar Djaout, scrittore e direttore di un giornale indipendente, è finito a fucilate. Molti furono costretti a nascondersi sotto pseudonimi, a tenersi lontani dalle città, a cambiare il numero di telefono. “Io vorrei comprendere perché si muore”, disse il giornalista Said Mekbel del quotidiano Le Matin. “Chi è a uccidere e perché uccidono”. Mekbel morirà il 4 dicembre 1994. Il suo ultimo articolo, che stava finendo, doveva essere un racconto degli stratagemmi usati per sviare i terroristi che gli davano la caccia.

    Taslima Nasreen, scrittrice bengalese che difende con coraggio i diritti delle donne nel mondo musulmano, ha una taglia sulla testa. Il suo libro più famoso è “Vergogna”, in cui descrive le persecuzioni perpetrate dalla maggioranza musulmana contro la comunità indù. Nel 1994 ha ricevuto il premio Sakharov per la libertà di pensiero. Le sue opere sono tradotte in oltre venti lingue, ma vietate in Bangladesh perché “contengono sentimenti anti islamici e affermazioni che potrebbero distruggere l’armonia religiosa”. “Dovrà essere uccisa, decapitata”, recita una fatwa. La taglia non sarà ritirata finché Nasreen non “chiederà perdono, darà fuoco ai suoi libri e se ne andrà”, si afferma ancora nell’editto. 
    All’epoca del caso Rushdie, il presidente francese François Mitterrand definì la fatwa un “male assoluto”. Persino i Verdi tedeschi cercarono di rompere tutti gli accordi economici con l’Iran. Hans-Dietrich Genscher, il ministro degli Esteri tedesco, approvò una risoluzione europea a sostegno di Rushdie come “un segnale per assicurare la preservazione della civiltà e dei valori umani”. Nel 2012, reazioni governative del genere sono inconcepibili.
    Mentre leggiamo le memorie di Rushdie come se fossero una spy story, le “regole Rushdie” si sono imposte sulla comunità degli scrittori, dei lettori e dei governanti. L’occidente è un posto sempre più buio e insicuro. Il terrore furoreggia.

    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.