E' vero, c'è crisi, ma l'autunno che ci aspetta non sarà affatto caldo

Ritanna Armeni

Si dice che ci sarà un autunno caldo, quotidiani e commentatori lo predicono non è chiaro se con preoccupazione o rassegnazione. Sicuramente con mancanza di precisione. L’autunno caldo, quello del 1969, fu una stagione del tutto diversa da quella che si prevede e che i titoli vorrebbero evocare. A chi è giovane o ha memoria corta ricordiamo che più di quattro decenni fa l’Italia fu attraversata da una stagione di lotte operaie che ne modificarono il volto e la storia. Per alcuni segnarono anche l’inizio di molti guai che il paese paga ancora con l’introduzione di modelli sociali e valori culturali ritenuti oggi disastrosi.

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    Si dice che ci sarà un autunno caldo, quotidiani e commentatori lo predicono non è chiaro se con preoccupazione o rassegnazione. Sicuramente con mancanza di precisione. L’autunno caldo, quello del 1969, fu una stagione del tutto diversa da quella che si prevede e che i titoli vorrebbero evocare. A chi è giovane o ha memoria corta ricordiamo che più di quattro decenni fa l’Italia fu attraversata da una stagione di lotte operaie che ne modificarono il volto e la storia. Per alcuni segnarono anche l’inizio di molti guai che il paese paga ancora con l’introduzione di modelli sociali e valori culturali ritenuti oggi disastrosi. Per altri furono l’inizio di un’Italia meno arretrata e più aperta ai cambiamenti sociali. E’ certo (e su questo denigratori e sostenitori di quella stagione non possono che essere d’accordo) che ci fu un cambiamento e questo dipese da una convinta decisione degli operai e dei sindacati a lottare per cambiare la propria condizione sul luogo di lavoro e nella società. Possiamo dire con una certa sicurezza, proprio perché sono passati molti anni, che ci riuscirono.

    Ma possiamo affermare oggi, seguendo quei titoli, che ci sarà un nuovo autunno caldo? Possiamo sostenere quell’affermazione semplicemente con i dati sul crollo dell’occupazione, con i numeri delle aziende che hanno chiuso i battenti, con le cifre sui salari, sulla disoccupazione giovanile e sulla produzione? Possiamo vedere i prodromi di una stagione propulsiva nella disperazione dei minatori del Sulcis? Le cifre, i dati, la cronaca, le dichiarazioni preoccupate di ministri e sindacalisti indicano che siamo alla vigilia di un autunno tutt’altro che caldo. E’ difficile prevedere nei prossimi mesi un protagonismo positivo e propulsivo di quelle categorie sociali che furono protagoniste di quella stagione. O prevedere una capacità sindacale di indicare una strada nuova sia di collaborazione con le imprese sia di protagonismo. O, ancora, pensare che la disperazione dei minatori, la rabbia degli operai dell’Ilva, la paura dei lavoratori della Fiat in attesa della chiusura inevitabile di uno o due stabilimenti possano tradursi in un una forza capace di cambiare la loro condizione e dare un contributo per uscire dalla crisi italiana.

    La rabbia, la disperazione, la paura non portano quasi mai a proposte positive, tutt’al più sfociano nella rassegnazione o in una ribellione, senza speranza, che è un’altra forma di rassegnazione.
    L’autunno che verrà non sarà contrassegnato quindi da alcun “calore”. Il dibattito che si sta aprendo fra governo organizzazioni imprenditoriali e sindacati poggia su due pilastri: la domanda degli industriali di sgravi fiscali, la richiesta del governo di un incontro fra sindacati e imprenditori per il raggiungimento di una sorta di patto per la competitività. Il governo ha detto in tutte le lingue che non ci sono risorse e quindi gli sgravi fiscali sono pressoché impossibili. In che cosa potrebbe consistere un patto per la competitività? In uno scambio fra una partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese in cambio di una maggiore produttività. In sostanza – si dice – all’estensione in Italia del modello tedesco di relazioni sindacali. Ed ecco che si arriva al nocciolo della questione. Le regole della partecipazione dei lavoratori sono molto vaghe, non ancora individuate, probabilmente viste con diffidenza da chi dovrebbe applicarle, poco realistiche in tempi di crisi. L’altro oggetto dello scambio, cioè la maggiore produttività da parte dei lavoratori, è molto più concreto. Significa modifiche che riguardano il salario e la organizzazione del lavoro. Non è difficile, in questo clima, prevedere un peggioramento di entrambi. Del resto un modello c’è, concreto e applicato, quello della Fiat di Sergio Marchionne.

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