Vegetariani per forza nel 2050, anatomia di una boiata pazzesca

Nicoletta Tiliacos

Mangiatori di carne, pentitevi. Divoratori di hamburger, vergognatevi. Consumatori di pancetta, almeno scusatevi. Dimenticate bistecche e prosciutto, arrosti e cotolette, ma anche latte e, già che ci siamo, uova. Come? Nemmeno una frittata, neanche un ovetto al tegamino? No, rispondono categoricamente gli illustri studiosi dello Stockholm International Water Institute, che dal Guardian hanno annunciato l’apocalisse alimentare entro il 2050, sotto forma di “catastrofica penuria di cibo”, se non ridurremo al minimo (non più del cinque per cento contro il venti per cento di oggi) la quantità di proteine di origine animale nella dieta quotidiana.

    Mangiatori di carne, pentitevi. Divoratori di hamburger, vergognatevi. Consumatori di pancetta, almeno scusatevi. Dimenticate bistecche e prosciutto, arrosti e cotolette, ma anche latte e, già che ci siamo, uova. Come? Nemmeno una frittata, neanche un ovetto al tegamino? No, rispondono categoricamente gli illustri studiosi dello Stockholm International Water Institute, che dal Guardian hanno annunciato l’apocalisse alimentare entro il 2050, sotto forma di “catastrofica penuria di cibo”, se non ridurremo al minimo (non più del cinque per cento contro il venti per cento di oggi) la quantità di proteine di origine animale nella dieta quotidiana. Meglio ancora, dicono, sarebbe abolire del tutto le proteine di origine animale, solo frutta verdura cereali, tutti vegani (la versione hard del vegetarianesimo) per causa di forza maggiore, se non per animalismo o per gusto personale.

    A metà del secolo saremo nove miliardi e non possiamo più permetterci di sprecare l’acqua per gli allevamenti di animali destinati all’alimentazione, dice il rapporto firmato dalla professoressa Malin Salkelmark e colleghi, reso noto in occasione della Conferenza mondiale sull’acqua, che si è aperta il 21 agosto nella capitale svedese e che vede riunito il consueto solito circo Barnum di funzionari dell’Onu e di ong, di politici ed esperti. Duemilacinquecento persone, informano le cronache, che omettono però i dettagli sul regime alimentare seguito durante i lavori (bacche e radici?). Rincara la dose su Repubblica il professor Umberto Veronesi, splendido ottantasettenne, vegetariano da sempre per convinzione salutista e per vocazione ideale. Sono, i suoi, argomenti personali e medici rispettabilissimi.

    Eppure, trasferiti sul piano delle esortazioni universali, trascolorano dalla saggezza alla boiata pazzesca. “I popoli che oggi non mangiano carne, con la crescita economica vorranno allinearsi alla cultura occidentale”, rabbrividisce il professore. E noi ci sentiamo trasportati à rebours nei rimpianti anni Ottanta, in epoca di ecologismo militante. Allora il tema era: vi immaginate che disastro, per il buco nell’ozono, quando tutti i cinesi vorranno un’automobile e un frigorifero? (ora l’ozono sta benissimo e i cinesi decisamente meglio, con molti più frigoriferi e automobili). Ancora prima, all’inizio degli anni Settanta, Aurelio Peccei con la sua accolita di malthusiani travestiti da filantropi chiamata Club di Roma, sulla scia del biologo e demografo americano Paul R. Ehrlich, andava predicando la soluzione più semplice: meno figli.

    Le persone in carne (pardon) e ossa hanno la pessima abitudine di mangiare, di bere, di respirare, di voler approfittare dell’elettricità: la Terra non se lo può permettere. Meno persone ci sono, meglio vivrà il pianeta (e noi che già ci abitiamo). Anche in quel caso, previsioni tragiche: esaurimento delle risorse petrolifere entro il 1992 (ne avete avuto notizia?) accompagnato dal parallelo esaurimento di quelle alimentari (eppure, secondo la Fao, dal 1961 al 1998 la produzione alimentare pro capite è aumentata del 23 per cento a livello mondiale e del 52 per cento nei paesi in via di sviluppo. Mentre sempre la Fao, nel 2010, ha annunciato che il numero di umani affamati era sceso sotto il miliardo). Uno dei santuari dell’ecologismo duro e puro, il World Watch Institute diretto dall’americano Lester Brown, ha dovuto ammettere che “la carne disponibile per ogni persona a livello mondiale è cresciuta del 122 per cento, passando da 17,2 chilogrammi nel 1950 a 38,4 chilogrammi nel 2000” (da “I padroni del pianeta”, Piemme, di Riccardo Cascioli e Antonio Gaspari). La verità è che gli avanzamenti tecnologici permettono oggi di ottenere più cibo da meno terra coltivata e che, più di un problema di scarsità, esiste un problema di eccesso, di spreco del cibo disponibile e di accesso al medesimo.

    Bene. Anzi, male. Per i predicatori dello Stockholm International Water Institute, corroborati dal sorriso incoraggiante del professor Veronesi – il quale invita a togliere la carne da tavola “almeno una volta a settimana” per “salvare il mondo” – non saranno né la politica né l’accrescimento delle conoscenze scientifiche né lo sviluppo a trovare soluzione ai problemi. Forse hanno ragione. A occhio e croce, ci pensa già la crisi a togliere la carne di tavola non una ma sette volte a settimana, con gran sollievo del mondo (chissà se anche degli umani).