Elogio del “mostro”

Redazione

Prima di cimentarmi in una sorta di Elogio letterario di Anders Behring Breivik vorrei che fosse chiaro che non approvo assolutamente gli atti da lui perpetrati il 22 luglio 2011 in Norvegia. E’ tuttavia proprio su questi atti che vorrei soffermarmi, essendo rimasto in un certo senso colpito dalla loro perfezione formale, supposto che sia possibile renderli avulsi dal contesto politico, o addirittura criminale, in virtù della loro dimensione letteraria, visto che la perfezione, come il Male, ha sempre una qualche attinenza con la letteratura.

di Richard Millet

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    “Suicidarsi? Non ce n’è bisogno: la vita e la morte sono la stessa cosa. Questa è la mia visione dell’eternità, ove mi trovo in questo momento, ove sono sempre stato e sarò sempre”.
    Pierre Drieu La Rochelle, “Fuoco fatuo”

    Prima di cimentarmi in una sorta di Elogio letterario di Anders Behring Breivik vorrei che fosse chiaro che non approvo assolutamente gli atti da lui perpetrati il 22 luglio 2011 in Norvegia. E’ tuttavia proprio su questi atti che vorrei soffermarmi, essendo rimasto in un certo senso colpito dalla loro perfezione formale, supposto che sia possibile renderli avulsi dal contesto politico, o addirittura criminale, in virtù della loro dimensione letteraria, visto che la perfezione, come il Male, ha sempre una qualche attinenza con la letteratura.

    Siccome da quando noi europei siamo usciti dalla Storia per vivere non in un periodo post storico, ma al di fuori di questo contesto, in un’epoca dove la “non storia” si è rivestita della maschera del divertissement nichilista – poiché il peggio riguarda ora l’insignificanza letteraria, artistica, intellettuale e politica dell’Europa, assurgendo addirittura a velocità di crociera dell’intero occidente – gli eventi (perlomeno quelli che la stampa fino a poco tempo fa chiamava le “notizie” e che – assoggettandosi all’ordine linguistico mondialista che disgrega la lingua abbreviando le parole, rivedendole o sostituendole – ha ribattezzato le “news”) vengono resi noti rapidamente e dimenticati con la stessa velocità, è doveroso ricordare quanto è accaduto il 22 luglio 2011. Il trentaduenne norvegese Anders Breivik fa dapprima detonare una bomba nel centro di Oslo, alle 15,26, davanti all’edificio che ospita la sede del governo e il ministero del Petrolio e dell’energia, quindi il centro del potere della Norvegia contemporanea. L’esplosione provoca otto morti. Un’ora dopo, travestito da poliziotto, Breivik sale a bordo del ferry che porta all’isola di Utoya, vicinissima a Oslo. Qui uccide sessantanove persone, per lo più giovani universitari laburisti radunatisi per un campo estivo, che, sommati alle otto vittime di Oslo, dà un totale di settantasette morti e numerosi feriti. Breivik viene arrestato dalle forze dell’ordine, arrivate sull’isola solo un’ora dopo, senza che si sia verificato alcuno scambio di proiettili. E’ stato dichiarato “schizofrenico paranoico irresponsabile” dagli psichiatri, evidentemente degli “esperti”, ovvero persone sostanzialmente incaricate dal Sistema di sostenere l’illusione di un sapere “specializzato”, integrato nella grande menzogna mediatica: l’esperto che avanza mano nella mano con il giurista, il giornalista e lo scrittore post letterario, tutti al servizio dell’ordine politico. La “follia” di Breivik – com’è stata qualificata da nuovi esperti – è un espediente per ridurre al silenzio un uomo che è stato dichiarato sano di mente e in grado di intendere e volere. Un processo di questo tipo, in cui Breivik espone le proprie idee sull’islamizzazione dell’Europa, è chiaramente difficile per la democrazia norvegese, così bramosa di trasparenza, tolleranza e pacifica fratellanza tra i popoli, alla stregua di tutte le nazioni europee, quantunque angustiate da un’immigrazione extraeuropea, per lo più musulmana, che, contestualmente all’illusione ossimorica di un “islamismo moderato”, alimenta un’intimidazione vittimista, ovvero una paura quotidiana, ossia un fermento di guerra civile.

    Breivik aveva senz’altro paventato di essere messo a tacere, tanto che, prima di passare all’azione, si è premurato di diffondere su Internet un “compendio” di 1.500 pagine, una sorta di manifesto nel quale non è difficile riconoscere le ingenuità, il carattere composito e la cultura wikipediani – che lo rendono indigesto, per quanto, a tratti, non privo d’interesse – ma che non è possibile sintetizzare se non in un violento rifiuto del multiculturalismo, in particolare la sua punta di diamante: l’islam. Breivik critica la ricomposizione etnico-razziale di un’Europa che sta perdendo la propria influenza internazionale e valenza economico-finanziaria, per quanto la Norvegia rappresenti un’eccezione, tanto che nel gergo giornalistico viene denominata la “manna petrolifera”, ricorrendo inconsapevolmente al vocabolario biblico o recuperando la dimensione cristiana della lingua, mentre le nazioni europee – dichiarate altrimenti obsolete o quantomeno invecchiate (con l’aspetto peggiorativo che attualmente connota questo epiteto, essendo considerato vecchio tutto quanto non beneficia della beatitudine dell’immediato) – si disgregano socialmente di pari passo che la loro essenza cristiana svanisce a vantaggio del relativismo generale e del multiculturalismo. Gli “esperti” ci dicono che il pensiero di Breivik non si differenze in nulla da quello dell’estrema destra europea. Sembra addirittura incarnarne la “doxa” e Breivik sarebbe il modello del “fascista” passato all’azione terroristica, dopo essere “andato fuori di testa”, per la grande gioia della società dello spettacolo, ovvero l’occidente socialista (o umanitarista, mondialista, antirazzista eccetera), che trova finalmente l’opportunità di condannare ciò che la teoria dell’estrema destra faceva tanto temere, per quanto solo gli imbecilli ne restano terrorizzati: questa grande paura che i “benpensanti” nutrono con la stessa intensità con cui per tanto tempo hanno coltivato la finzione marxista di albe radiose.

    Ma le cose non sono così semplici. Breivik è innanzitutto un prodotto esemplare di questa decadenza occidentale che ha assunto le sembianze del piccolo borghese americanizzato: figlio di genitori divorziati, con l’aspetto del genero ideale, che non porta piercing, tatuaggi, dreadlock, capelli rasati, né quei ridicoli abiti etnici che sono uno degli attributi della gioventù multiculturale, con un linguaggio in decomposizione, una beata ignoranza e un infiacchimento garantito della persona. E’ eterosessuale, ama lo snowboard, la birra Budweiser, i profumi Chanel e le polo Lacoste (la griffe – la spettacolarità oblige – ha subito protestato contro le foto nelle quali Breivik, in manette, ostenta, con uno strano sorrisetto, una polo con l’orribile coccodrillino che è l’emblema dell’infantilismo contemporaneo). Ha letto il “Leviatano” di Hobbes, il libro di Burke sulla rivoluzione francese e “1984” di George Orwell. Non stupisce quindi di sentirlo nominare “La società dello spettacolo” di Debord o certe opere di Baudrillard. Da buon enfant perdu ha ricercato delle appartenenze allargate – il Partito del progresso (chiaramente bollato come “populista e xenofobo” dalla stampa), la massoneria e l’Ordine dei templari europei – di cui le ultime due rappresentano, da un lato, una delle numerose derive di una democrazia comunque assetata di trasparenza e, dall’altro, l’aspetto kitsch della battaglia contro il multiculturalismo.

    Si può dunque affermare che Breivik è il prodotto sia del crollo della famiglia sia della frattura ideologico-razziale che l’immigrazione extraeuropea ha introdotto in Europa da una ventina d’anni e il cui avvento era stato preparato da lunga data dalla sottocultura di massa americana, conseguenza ultima del Piano Marshall: dal Piano Marshall all’onnipotenza di un Mercato globalizzato è possibile seguire il movimento che ha provocato la destoricizzazione dell’Europa sul piano economico, culturale e indubbiamente etnico. Non sto cercando di fare della socio-psicologia politica. Non sono un “esperto” e sono tutt’altro che affine a Breivik, di cui – ripeto – condanno le azioni. Sto semplicemente constatando che la deriva di Breivik si inserisce nella grande perdita di innocenza e di speranza che caratterizza l’occidente, che – in altre parole – equivale alla distruzione del valore e del senso. Come tanti altri individui, giovani o meno, Breivik è il modello di una popolazione davanti alla quale il continuo svilimento del concetto di nazione e l’infangamento dell’amore per il proprio paese, cioè la criminalizzazione del patriottismo, aprono un abisso identitario esacerbato dal fatto di assistere alla fine di una civiltà di cui non è possibile immaginare che un altro continente possa incarnare il miracolo, poiché i nuovi padroni del mondo, da Doha a Rio, da Hong Kong a Bombay e da Sydney a Singapore, non fanno altro che rappresentarne la versione tecnologica, ovvero la conversione dell’individuo in piccolo-borghese meticciato, mondializzato, incolto e social-democratico – ossia la tipologia di persone uccise da Breivik e che pertanto fanno di lui un’entità diversa da ciò che Enzensberger definisce un “perdente radicale”, poiché ha agito da solo e non di concerto con un programma terroristico e il suo gesto è stato, nella migliore delle ipotesi, una manifestazione derisoria dell’istinto di sopravvivenza di una civilizzazione
    Questo aspetto è stato deliberatamente ignorato dai media: Breivik manca di quella qualità inversa che avrebbe smesso di rassicurare le “anime belle” risvegliando il grande fantasma di un’estrema destra neonazista, che in Germania assume per esempio un carattere infame (che ha indotto la cancelliera Merkel a porgere le proprie scuse ai residenti stranieri, spesso turchi, insediati in terra tedesca, quelle “scuse” che rappresentano una farsa del cerimoniale espiatorio nel quale l’Europa è invischiata, tanto che anche la polizia di Oslo si è scusata per non essere intervenuta abbastanza in fretta). Breivik non è un razzista: non ha ucciso degli immigrati, ma dei giovani norvegesi che, secondo lui (e questo è in effetti il nocciolo della questione), erano dediti allo snaturamento della nazione norvegese.

    Breivik è quindi un combattente solitario: bambino abbandonato dal padre, è diventato il soldato perso di una guerra senza nome. Non è un fatto trascurabile. È per questo che il suo compendio – che abbozza il naufragio dell’individuo, la sua quasi-dannazione – contiene un’analisi pertinente della perdita dell’identità nazionale. Breivik ci ricorda – con una modalità la cui firma oltraggia (se non addirittura annichilisce) il pensiero – che in Europa è in corso una guerra civile. Ma che differenza, per esempio, rispetto al suicidio, non meno spettacolare, con cui Mishima si è opposto alla decadenza del Giappone moderno! Breivik sarebbe quindi un sintomo della nostra decadenza, più che un rivelatore di senso: quel senso della storia da cui l’Europa sta prendendo le distanze. E la recente islamizzazione politica del Maghreb, dell’Egitto e, presto, di tutto il Vicino Oriente, ce lo ricordano, dopo che irenici “esperti” di geopolitica o imbrattacarte affascinati dalle rivolte salafiste, in Libia come in Sira, avrebbero predetto il rinascimento democratico e laico di queste nazioni, dimenticando la potenza dell’assoggettamento volontario e il discredito che l’ideale democratico continua a gettare su se stesso, in un’Europa che ha rinunciato ad affermare le proprie radici cristiane.

    Ma veniamo ora al massacro propriamente detto. Si è notato che l’Europa non è da meno dell’America quanto a massacri di massa? È notevole che abbiano quasi esclusivamente luogo nelle nazioni del Nord Europa, Paesi protestanti, o che tali sono stati, e inoltre socialmente e politicamente esemplari. Ne ricordo qualcuno. 13 marzo 1996: sedici morti a Dunblane, in Inghilterra; 27 settembre 2001: quindici morti al parlamento cantonale di Zugo, in Svizzera; 26 marzo 2002: otto morti al municipio di Nanterre, in Francia; 27 marzo 2002: diciassette morti in una scuola materna in Germania; 7 novembre 2007: dieci morti in una scuola in Finlandia; 11 novembre 2009: sedici morti in una scuola tedesca. In ciascuno di questi casi, l’assassino ha rivolto l’arma contro se stesso, come si suol dire eufemisticamente. Breivik, invece, si è arreso, il che fa del suo atto tutt’altra cosa rispetto a un suicidio in qualche modo accompagnato: un atto politico che si tenta di ridurre a un accesso di schizofrenia assassina. Un cineasta ne farà il suo Elephant? Il massacro della scuola superiore Columbine è stato in un certo senso un evento letterario eccessivo, una tragica parabola della noia e del vuoto americano che il film di Gus van Sant ha saputo rendere in maniera esemplare. Nel caso di Breivik sarebbe un brutto film d’azione, di cui peraltro bisognerebbe rimaneggiare la fine a causa del suo carattere politico – in quanto il ritorno alla calma non è abbastanza moralmente “spettacolare”, come sembra suggerire la copertina del Nouvel Observateur che mostrava, quell’estate, Breivik che mette a punto con tutta calma la sua arma, in occasione di una ricostruzione: su quella copertina, che ricorda stranamente quella del best-seller Millenium, basterebbe sostituire la sua testa con quella di Johnny Depp per entrare nell’insignificanza spettacolare e, così facendo, cancellare l’atto. Non è superfluo notare che, quasi parallelamente, il giornale Le Monde mandava in una deliziosa borgata marittima del Brasile un inviato speciale per abbozzare, a pagina intera, con tanto di foto in prima pagina, il ritratto del terrorista italiano Cesare Battisti, riconvertito in scrittore “francese”, appoggiato dalla sinistra radical-chic, che ostenta i suoi stati d’animo e si autoconcede l’amnistia con tanta compiacenza che il giornalista fatica a interrogarlo, con l’estrema sinistra gaudente in Europa, in particolare in Francia, il più socialista dei Paesi europei, espressione di un favore e di un’indulgenza che non pongono problemi di coscienza a chicchessia ma che spiegano anche l’atto di un Breivik – in particolare la sua volontà di lottare contro la “marxizzazione” dell’Europa: terminologia alquanto derisoria, considerato che il marxismo è stato da lungo tempo digerito culturalmente dal capitalismo – la cultura, o piuttosto ciò che l’ha sostituita: il culturale, che è simbolicamente di sinistra, ideologicamente dominante, e tanto più insignificante, benché si fondi sul Diritto, altro pilastro, insieme al Mercato, del Nuovo Ordine mondiale.

    Si potrebbe essere tentati di vedere in Breivik non solo un eroe maltusiano ma anche un esperto del massacro di massa. Ma questo significherebbe snaturarne gli atti, che si inscrivono su uno sfondo terribilmente cupo, che vale la pena di ricordare. Quell’estate – che ha visto la catastrofe nucleare di Fukushima e la politica ridicolizzata sul piano internazionale dal caso DSK, terrorista social-priapistico, “pendant” non dialettizzato dell’erotomane democristiano Berlusconi, e poi, l’indomani del massacro di Utoya, la morte di Amy Winehouse, che in un certo senso ha rubato la scena a Breivik – è quindi soprattutto il momento parossistico di una crisi finanziaria nata nel 2008 e che sta mettendo in ginocchio l’Europa. Solo gli imbecilli si ostinano a negare che questa crisi finanziaria segni anche il fallimento di una civiltà. Breivik è certamente il segno disperato, e disperante, del fatto che l’Europa ha sottostimato le devastazioni del multiculturalismo e segnala anche la disfatta dello spirituale a vantaggio del denaro. La crisi finanziaria è quella del senso, del valore e quindi della letteratura. Breivik, ingenuamente, lungi dall’incarnare il Male, si è fatto tramite sacrificale del male che corrode le nostre società cadute in un’orizzontalità acefala e ingannevole.

    Breivik – racconta un sopravvissuto al massacro – canticchiava a bocca chiusa in mezzo ai cadaveri. Lungi dall’essere un artista concettuale, come potrebbe far credere questa testimonianza, Breivik non sottoscrive quella che Baudrillard chiama la “duplicità” dell’arte contemporanea, vale a dire il fatto di “rivendicare la nullità, l’insignificanza, il non-senso, quando si è già nessuno” – il che, di fatto, annulla qualsiasi proposizione artistica ed esistenziale. Non ha cercato di trasformare un atto tutto sommato insignificante sul piano dell’efficacia politica in una “strategia fatale” dell’immagine. Non è il Warhol dell’anti-multiculturalismo e non ha nemmeno voluto il suo misero quarto d’ora di gloria mediatica. È uno scrittore per difetto e, indubbiamente, l’incarnazione estremizzata dell’eroe disperato del film di Joachim Trier, Oslo 31 agosto, uscito, si noti bene, alcuni mesi dopo il massacro di Utoya; un eroe che richiama alla mente il personaggio del Fuoco fatuo di Louis Malle, tratto dal romanzo di Drieu La Rochelle. Sebbene siano rari i giornalisti francesi ad averlo notato, Drieu resta uno dei più grandi “maledetti” della letteratura francese, nonostante abbia pagato i suoi errori col suicidio.

    Non che Breivik abbia compiuto il gesto surrealista più semplice, che consiste, secondo Breton, nell’“uscire in strada con una pistola in mano e sparare a casaccio sulla folla”. Non ha nemmeno preso alla lettera Cioran relativamente a quel desiderio di sterminio che ogni essere umano assennato prova per il semplice fatto di trovarsi in strada. A proposito dei due anzidetti enunciati, di Breton e Cioran, non si è sottolineato abbastanza che entrano in relazione sullo sfondo delle guerre e dei genocidi del XX secolo, con l’eco della condanna da parte di Adorno della cultura “post-Auschwitz”. Lo sterminio come motivo letterario: ecco l’ingiustificabile, e quindi la domanda, posta indirettamente (e forse involontariamente) da Breivik al sovrappopolamento mondiale e al disastro ecologico, riecheggia quelle sulla denatalità europea e sul venir meno dell’omogeneità di società quali la norvegese, la finlandese, la svedese, la danese e l’olandese, tutti Paesi dove quelli che pudicamente chiamiamo populisti sono entrati al governo. Noi che misuriamo quotidianamente l’incultura degli indigeni proprio come l’abisso che ci separa dalle popolazioni extraeuropee insediatesi sul nostro territorio, sappiamo che prima fra tutti è la lingua a farne le spese e, con essa, la memoria, il sangue e l’identità. Daremo per questo ragione a Breivik, col pretesto che le sue vittime erano solo giovani laburisti e quindi futuri collaboratori del nichilismo multiculturale? No: nella perfezione della scrittura col fucile d’assalto c’è qualcosa che lo porta al di là del giustificabile – che potrebbe essere, nondimeno, una delle definizioni, ristrette, della letteratura, e al contempo la negazione della stessa.

    Il numero, il multiculturalismo, l’orizzontalità, la vertigine della fatica o della perdita del senso, o ancora quella che Renaud Camus chiama la “decivilizzazione”, con la “grande sostituzione” che le fa da corollario: questa è la sconfitta della letteratura. E si noti che, al di là delle considerazioni sulle nebulose di un’estrema destra che, d’altro canto, non si sa esattamente cosa sia se non un fantasma del socialismo mondiale, un giornalista del Nouvel Observateur ha notato, nell’estate del 2011, che i celebri giallisti scandinavi non avevano “previsto” Breivik, proprio loro, così pronti a denunciare presunti complotti neo o archeo-nazisti che minacciano le società di cui si conosce benissimo la vera causa della disgregazione. Questi scrittori, evidentemente di sinistra, vigilantes, ingenui, che vedono in generale solo quello che vogliono vedere, forse spiegano Breivik. I Davidsen, i Nesbø, i Mankell e il defunto autore di Millenium sono ciechi, o si coprono gli occhi, quando non si danno alla propaganda, come in Kvinnen i plast (Faux Semblants, ndt), del norvegese Kjell Ola Dahl, in cui Oslo viene presentata come capitale multiculturale, con i suoi immigrati extraeuropei e i suoi quartieri eterogenei, tanto cari ai “bobo” francesi. Vi si trova, per esempio, un commissario di polizia, norvegese di estrazione, prendere il nome di Mustafa per sposare un’immigrata musulmana, e una sua collega deambulare meravigliata verso il quartiere di Grobarlandslein: “Lena amava fondersi nella folla che formicolava tra gli edifici colorati, con contributi architettonici stranieri, come il minareto di Akerbergersvein. Mancavano solo gli appelli alla preghiera del muezzin per completare il tocco esotico.” Visione lenitiva di un “esotismo” a domicilio, dietro il quale ci si rifiuta di considerare che il canto del muezzin sancirebbe la morte della cristianità e quindi la fine delle nostre nazioni. In questa decadenza, Breivik è indubbiamente ciò che si meritava la Norvegia e ciò che attende le nostre società che non cessano di accecarsi per meglio rinnegarsi, in particolar modo la Francia e l’Inghilterra. Lungi dall’essere un angelo sterminatore o una bestia dell’Apocalisse, è al contempo boia e vittima, sintomo e rimedio impossibile. È l’impossibile, la cui negatività si è scatenata nel cielo spirituale dell’Europa.

    Un altro scrittore norvegese, Gunnar Staalesen, più sottile, soprattutto più ironico e forse più scrittore in quanto ex filologo, ha intitolato uno dei suoi romanzi, il cui eroe è un detective disincantato, I mørket er alle ulver grå (La nuit tous les loups sont gris, ndt). Breivik è un uomo disincantato divenuto lupo solitario e grigio. Ha qualcosa di grigio e questo aspetto avrebbe potuto fare di lui uno scrittore. Dopo aver constatato la cecità dei contemporanei, il giornalista del Nouvel Observateur crede di trovare l’origine di Breivik nel grande Knut Hamsun, di cui si sa che fu apertamente nazista e finì i suoi giorni in manicomio, come Breivik forse finirà i suoi. “Fame” resta un libro straordinariamente moderno e bruciante su ciò che divora il narratore, proprio come “Pan”, meraviglioso libro sul desiderio. Lo stesso giornalista si spinge fino a prendersela con l’Edda, vale a dire con le fondamenta stesse della cultura scandinava, il che farebbe di Breivik la reincarnazione derisoria del lupo Fendrir, figlio del dio ase Loki e assassino del dio Odino, che Snorri Sturluson descrive “con la gola irsuta, la mascella inferiore contro la terra e quella superiore contro il cielo”. Questo è un altro delirio, al servizio, però, del Nuovo Ordine mondiale: quello che tende a tacciare di fascismo qualsiasi interrogazione sulla purezza, l’identità e l’origine, e che, esauriti gli argomenti, finisce per ricusare ciò che noi stessi siamo: la nostra cultura, per esempio, la Canzone di Rolando, ben presto cancellata dalla nostra eredità culturale in quanto decretata politicamente scorretta e razzista, come l’Edda dei nordici, e con essa ciò che ci permette ancora di nominare e che il Nuovo Ordine morale sta sradicando: la letteratura.

    di Richard Millet

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