Bastioni, acciaio, persone

Luigi De Biase

Forse Taranto ha il destino che spetta alle città degli strateghi greci, lo stesso che è toccato al Corno d’Oro di Istanbul e Sebastopoli in Crimea. In tempo di pace sono metropoli operose e prospere, ma si tratta pur sempre di centri studiati per sopportare l’assedio: se la battaglia avanza, l’intera pressione poggia su un solo punto, su pochi metri di mura ben difese e qualche migliaio di cittadini.

    Forse Taranto ha il destino che spetta alle città degli strateghi greci, lo stesso che è toccato al Corno d’Oro di Istanbul e Sebastopoli in Crimea. In tempo di pace sono metropoli operose e prospere, ma si tratta pur sempre di centri studiati per sopportare l’assedio: se la battaglia avanza, l’intera pressione poggia su un solo punto, su pochi metri di mura ben difese e qualche migliaio di cittadini. A Taranto lo scontro gira intorno all’Ilva, il polo dell’acciaio che occupa dodicimila persone e inquieta il resto della città. Un giudice del tribunale, Patrizia Todisco, ha ordinato il sequestro di sei impianti a caldo, sei strutture decisive nella catena produttiva. La ragione è negli scarichi delle ciminiere, che hanno provocato, così dicono le carte, un “disastro ambientale”.

    L’ipotesi viene da perizie, cartelle cliniche, analisi raccolte negli ultimi anni, il Riesame ha confermato la decisione lunedì mattina, ma il futuro dell’Ilva resta incerto: quattro periti, quattro tecnici scelti dal tribunale dovranno stabilire nei prossimi giorni qual è il sistema migliore per mettere in sicurezza i forni, se la chiusura è l’unica soluzione praticabile o se ne esiste un’altra che permetta di mantenere la produzione, se bisogna scegliere tra salute e lavoro o c’è un modo per salvare entrambi. In città ci sono operai che reclamano diritti, sindacalisti divisi, donne che mostrano le foto di figli e parenti malati, piazze e parrocchie e rioni divisi secondo regole abbastanza precise. In un certo senso è una questione di distanza: più ti avvicini all’Ilva, più impari a sopportarla.

    Non a caso, la protesta più grande s’è vista una settimana fa nel centro di Taranto, che è il punto più lontano dalle ciminiere ed è anche quello da cui si vedono meglio. Duemila persone sono scese in strada e hanno chiesto la fine dell’Ilva, la chiusura definitiva del polo siderurgico più importante del Mediterraneo. Avevano manifestato anche all’inizio d’agosto, ma quella era una mossa di disturbo contro il corteo di Cisl e Uil e il comizio dei loro leader, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. La protesta di venerdì è stata più corposa, si doveva tenere sul ponte girevole ma il ponte è stato bloccato dai carabinieri di prima mattina, così il gruppo si è spostato in fretta in una piazza centrale, la piazza dell’Immacolata, poco lontano dal palazzo della prefettura. Alla prefettura, nelle stesse ore, c’erano Corrado Passera e Corrado Clini, i due ministri arrivati da Roma per incontrare sindaci, sindacati e industriali del posto. Il gruppo era ben organizzato, alla testa c’era un comitato della città, un’associazione che si chiama Liberi e pensanti ed è formata da famiglie, studenti e da qualche ex operaio. Quella mattina hanno afferrato il microfono un giovane dipendente dell’Ilva che si è definito “pentito” e ha chiesto scusa per non avere mai fatto nulla contro l’inquinamento, una pediatra che ha detto di essere stanca di vedere bambini malati e un avvocato che ha ricordato a Cgil, Cisl e Uil che non si può tutelare soltanto il lavoro, ma bisogna tener conto della salute. Lo ha detto con parole un po’ più forti di queste. I rappresentanti sindacali, insieme con i politici e i giornalisti considerati vicini ai Riva, la famiglia lombarda che controlla l’Ilva da quindici anni, sono quelli che raccolgono il maggior numero di attacchi dalla piazza.

    Ai sindacati rinfacciano di non avere fatto nulla per impedire il “disastro ambientale”, e quindi di avere tradito sia gli operai, sia i cittadini. Con la stessa forza i manifestanti hanno cantato slogan a favore di Todisco e del tribunale, hanno chiesto giustizia imminente, lo hanno fatto con quella particolare rabbia che ha l’uomo quando non giudica la faccenda semplicemente per quello che è (il “disastro ambientale” ipotizzato dai magistrati), ma anche per quel che lo irrita, ovvero le persone che ne avrebbero tratto beneficio. Intorno al palco c’erano una trentina di ragazzi con le pettorine verdi, un servizio di sicurezza formato da giovani con le braccia robuste e tatuate. Hanno detto di non avere nulla a che fare con gli ultras del calcio, ma hanno mostrato di cavarsela bene al momento di organizzare cori molto simili a quelli dello stadio. Sul palco, accanto agli oratori, un grosso impianto stereo ha trasmesso per qualche minuto una canzone dei Cccp, il gruppo punk venerato negli ambienti dei centri sociali. E’ di fronte a quel palco che si sono radunate decine di famiglie ansiose di vedere la fine dell’Ilva. La canzone si chiama “Curami” e la scelta non deve essere stata casuale. Verso mezzogiorno i manifestanti hanno deciso di mettersi in corteo e di sfidare i blocchi della polizia: “Voi davanti e noi dietro – hanno gridato dal palco – Perché se dobbiamo subire violenze, allora le subiremo tutti”. La marcia è durata duecento metri, la distanza che separava il palco dalle prime transenne. Poi in molti si sono seduti, qualcuno è stato male per il caldo, altri sono tornati all’ombra, al bancone del bar Cristallo, per chiedere se c’erano ancora pizzette.

    I tarantini ne fanno anche una questione di provenienza. Dicono: “La maggior parte degli operai dell’Ilva viene da fuori, arriva da altre città e da altre regioni; loro si prendono il lavoro e noi ci teniamo l’inquinamento”. Qui c’è il punto su cui si addensa la pressione dello scontro, ma l’Ilva non ha a che fare soltanto con questa città. La presenza di un’industria così grande solleva in tutti un briciolo d’orgoglio, il polo è enorme e copre tutta la parte nord di Taranto. Produce acciaio destinato all’Europa e al nord America, ogni anno può trasformare in lastre lucide qualcosa come venti milioni di tonnellate di materie prime. La cittadella ha una rete ferroviaria interna lunga duecento chilometri e strade per cinquanta. Nei suoi pontili attraccano un centinaio di navi al mese. Se la provincia di Taranto avesse il proprio pil, il 75 per cento dipenderebbe dal polo. Ma il peso dell’Ilva supera facilmente il confine di questo territorio: è un complesso nato negli anni Sessanta, in pieno boom economico, faceva parte della strategia statale per rinvigorire l’industria di base e offrire un appoggio allo sviluppo dei consumi. La massima occupazione è stata raggiunta nel 1980, quando il numero di dipendenti ha sfondato la soglia dei ventimila, ma si è ridotta gradualmente per la competizione dei paesi emergenti.

    E’ in quegli anni che si è sviluppato il rione Tamburi, un quartiere di palazzine spuntate sotto l’Ilva, nel vuoto che un tempo separava i forni dalla città. Ci vivono operai ed ex operai, saranno ventimila e sono quelli che più soffrono per gli scarichi delle acciaierie. Dalla piazza principale le ciminiere si vedono a malapena, spuntano dietro qualche tetto, ma tutto qui fa pensare alla fabbrica. La chiesa è consacrata a Gesù Divin Lavoratore, sui muri dell’oratorio ci sono scritte spray che mettono in guardia dalle emissioni dell’Ilva. Prima c’era anche una falce con martello, i parrocchiani devono averla coperta con il cassone per la raccolta dei vestiti usati e allora la falce e martello è finita sopra al cassone. Il bar Tom e Jerry è l’unico aperto sulla piazza, ma il proprietario ha tolto da qualche tempo la macchina del caffè e ci ha messo i computer per le scommesse, quindi l’unico angolo in cui si trova una birra fresca è di fronte alla chiesa, sotto il tendone di una vecchia edicola che ora vende bottiglie fresche. Qui parlano tutti dell’Ilva, ne parlano sempre e lo fanno semplicemente perché l’Ilva per molti rappresenta quasi tutto, stabilisce gli impegni della settimana, le date delle ferie, i progetti per il futuro e anche i ricordi. Tamburi è il quartiere più quartiere della città, qui tutti si conoscono e hanno vite simili e le storie e le paure si propagano a potenza doppia. “Ho lavorato all’Ilva per quarant’anni, sono entrato quando hanno posato la prima pietra e sono uscito nel 1984 – racconta un uomo alternando dialetto e italiano – Io con l’Ilva mi sono sposato, ho fatto la casa e ora faccio una buona pensione. Perché la devono chiudere?”. Una ragazza sui trenta con una bambina in braccio si avvicina e dice: “Ci ho lavorato per sei anni, ogni mattina, sino a che è nata mia figlia; è vero, qui ci sono i malati, ce ne sono molti, ma anche a Milano la gente si ammala per lo smog eppure nessuno chiede di bloccare tutte le auto”.

    Alle dieci del mattino la chiesa è quasi vuota, ci sono una ventina di donne sedute sulle prime panche che cercano il fresco con un ventaglio e s’interrogano sulla Rolls Royce bianca parcheggiata di fronte alla piazza, chiedono se è il battesimo del figlio di un certo Peppino o cos’altro. Sulle pareti non si vedono affreschi, ma dietro all’altare c’è un mosaico enorme, un tappeto di pietruzze alto dieci metri con Gesù Cristo in piedi che benedice ragionieri e operai di buona volontà. Alla sua destra c’è una nave cargo che arriva dal mare, alla sinistra la ciminiera fumosa di una fabbrica: fa tornare in mente gli omaggi a Yuri Gagarin degli artisti sovietici. Il sacerdote si lamenta un po’ dei fedeli che hanno preferito restare in casa con il condizionatore acceso anziché venire a pregare, poi si mette a parlare dell’Ilva e dice che non si può scegliere tra salute e lavoro, che bisogna portare avanti tutto quanto, tutto insieme, e chi fa la spesa sa quanto aumentano i prezzi ogni giorno. Alla fine della messa le donne aspettano all’ingresso di capire a chi appartenga la Rolls Royce.

    L’inquinamento esiste, è un problema vero, il tribunale dice che le “emissioni nocive” hanno provocato un disastro “ancora in corso”, il governo ha ribadito che non esiste un nesso di causa fra le emissioni dell’Ilva e le morti per tumore, ma qui rispondono che non c’è bisogno di prove scientifiche per dimostrare quel che tutti pensano, che a Taranto si muore per colpa dell’acciaio. Ma se si entra nella città vecchia, se si attraversa l’isola antica che separa Tamburi dalle strade del centro, i discorsi della gente scivolano dolcemente sulle cozze, sulle barche dei pescatori che tornano scariche al porto, sui preparativi per la festa dei santi Cosma e Damiano: insomma, ognuno ha le sue piaghe di cui discutere. Un altro centro del meridione ha avuto un problema simile qualche anno fa. Fra il 2004 e il 2005 il governo intendeva stabilire un deposito di scorie radioattive a Scanzano Jonico, che si trova a una cinquantina di chilometri di distanza. La gente del posto ha cominciato una protesta compatta e il progetto è rientrato dopo una trattativa durata pochi mesi. E più a sud, sulla costa calabrese, c’è il complesso industriale di Crotone che ora è quasi abbandonato, e un grande porto usato soltanto per tenere all’ancora le navi della vecchia Tirrenia in attesa di essere vendute. Qualcuno comincia a pensare che la storia si possa ripetere a Taranto. I fascicoli aperti dalla magistratura non riguardano soltanto le ciminiere e le emissioni, ma anche gli uomini che ne sono ai vertici da anni e alcuni personaggi pubblici della città. Tutto è in bilico, persino l’incarico del presidente dell’Ilva, Bruno Ferrante, che potrebbe essere revocato dalla magistratura. La Gazzetta del Mezzogiorno ha cominciato un ragionamento pochi giorni fa: che succederebbe se i Riva si accorgessero di dover pagare un prezzo troppo alto per il risanamento dell’Ilva, e decidessero di farsi da parte? Non sarebbe un buon segno neppure per le altre industrie di Taranto, per il deposito di petrolio che s’affaccia dritto sul mare, di fronte all’Ilva, e per la flotta della marina che qui ha costruito il proprio cardine.

    Questa storia avrebbe dovuto riportare la politica in fabbrica. La maggior parte dei dodicimila al lavoro fra i capannoni dell’Ilva ha una tessera, è così dagli anni Sessanta ed è stato lo stesso quando gli operai erano ventimila e la parola di un segretario aveva un peso decisivo per l’equilibrio della nazione. A Taranto sono cresciute almeno due generazioni di dirigenti che hanno avuto (e continuano ad avere) ruoli importanti nelle gerarchie della di Fiom, Fim e Uilm, le federazioni dei metallurgici di Cgil, Cisl e Uil. L’acciaio è stata una benedizione anche per loro: la città è una fortezza sindacale, probabilmente è l’unica in Italia con un centro sportivo che si chiama PalaFiom e ospita un’accademia di volley abbastanza prestigiosa, dimostrazioni di spada katana nel fine settimana e spettacoli di Ascanio Celestini a prezzi popolari. Queste tre sigle sono un blocco di potere consistente, hanno vita a sé, ci si aspetta di trovare i loro uffici in quartieri diversi e invece sono uno accanto all’altro, hanno una palazzina in pieno centro guardata con discrezione dagli agenti della Digos. Sull’Ilva si sono divisi più di una volta, anche prima che un giudice mettesse i forni sotto sequestro. Pochi mesi fa un uomo della Fiom ha preso il corridoio ed è passato alla Fim portando con sé quattrocento operai, come ha scritto un quotidiano locale, il Corriere del Giorno. Scaramucce del genere avvengono frequentemente, ma le decisioni del tribunale possono avere conseguenze durature sul futuro del sindacato. Nelle ultime settimane soltanto Fim e Uilm hanno organizzato scioperi e blocchi stradali per chiedere la tutela del lavoro, è stata una protesta morbida ma c’è stata. La Fiom ha preso la posizione opposta, ha chiesto ai suoi iscritti di continuare a lavorare come se niente fosse, non l’ha fatto perché vuole vedere la fabbrica chiusa, ma per rispettare un principio: bisogna evitare ogni possibile scontro con la magistratura. Così, quando i vertici dell’Ilva hanno annunciato un investimento di 146 milioni di euro anti inquinamento, i duri della Cgil hanno rilanciato con l’annuncio di una nuova vertenza contro il gruppo Riva. E’ una strategia rischiosa, è difficile spiegare a un operaio per quale motivo il sindacato non si opponga al blocco della produzione. Molti iscritti della Cgil hanno partecipato agli scioperi dei giorni scorsi: dopo essere uscita dalle piazze, la Fiom rischia di perdere tanti consensi anche nella fabbrica. Quel bastione potrebbe essere fra i primi a cedere nel bel mezzo dello scontro.