I diti intrecciati di Zagrebelsky

Giuliano Ferrara

Che disastro, la replica di Gustavo Zagrebelsky a Eugenio Scalfari. Quanta deferenza formale, da piccolissimo e ipocrita funzionario di un impero editoriale, un minimandarino che ha imparato la lezione immortale di Fracchia. Ezio Mauro ha fatto malissimo a suggerire all’amico Gustavo la penosa autodifesa, pena la sua sconfessione obbligata e definitiva. Capra e cavoli sì, magari li salviamo, ma il prezzo è il passaggio da Alessandro Galante Garrone e Norberto Bobbio a Paolo Villaggio. Seguirà, come dicono, una dichiarazione di voto di Gustavo per il Pd, splash a mano tesa, e senza misericordia.

    I mandarini appartengono tutti a una casta particolare, sono indipendenti da ogni controllo popolare, e sono persuasi che il buono e misericordioso dio dei cinesi abbia creato apposta la Cina e il popolo cinese perché fosse dominato dai mandarini.
    (Antonio Gramsci)

    Dottore, mi si sono intrecciati i diti.
    (Fracchia)


    Che disastro, la replica di Gustavo Zagrebelsky a Eugenio Scalfari. Quanta deferenza formale, da piccolissimo e ipocrita funzionario di un impero editoriale, un minimandarino che ha imparato la lezione immortale di Fracchia. Ezio Mauro ha fatto malissimo a suggerire all’amico Gustavo la penosa autodifesa, pena la sua sconfessione obbligata e definitiva. Capra e cavoli sì, magari li salviamo, ma il prezzo è il passaggio da Alessandro Galante Garrone e Norberto Bobbio a Paolo Villaggio. Seguirà, come dicono, una dichiarazione di voto di Gustavo per il Pd, splash a mano tesa, e senza misericordia. Solo una certa Torino sub-sabauda, che ho sempre detestato di cuore, poteva produrre un simile documento, non dirò di viltà (mica siamo il Fatto), ma di ipocrisia, di finta “umiltà del bene” (quanto ci manca, professor Cassano) e di “vaghezza linguistica” (ci manca anche lei, professoressa D’Agostini). Certi torinesi sarebbero anche grandi, e nazionali, e di piena maturità europea, ma come mi disse una volta il compianto storico Paolo Spriano, non si piacciono, e allora si rifugiano nella grettezza, nella falsità del perbenismo.

    Il giureconsulto che considerò Giorgio Napolitano il “perno” di un’azione intimidatrice della magistratura combattente, un soccorrevole alleato e per giunta inconsapevole dei mafiosi e dei loro amici affossatori della “verità”, quella del figliolo pataccaro di don Vito Ciancimino, naturalmente, ora si considera ferito dalla reazione baldante e sorprendente del Fondatore, meglio ancora, sculacciato in pieno volto. Come si può insinuare che egli sia altra cosa da un “ingenuo”, scrive con il pennino intinto in un lago di dolore personale. Ha già dimenticato il Palasharp, il rapporto del segretario generale alla moralità pubblica, l’adunata delle stelle de sinistra chiamate a un programma di odio civile, quelle stelle dure e pure come diamanti, che si misero come orecchino un tredicenne ribaldamente usato per sparlare del nemico a fianco dei superbanali politici Eco e Saviano, tra applausi e boati seduti e all’in piedi. Lui – dice nell’atto di chiedere un’indulgente comprensione al Fondatore  – è un ingenuo che non si occupa del consenso, ché non è mica un articolo del codice. Lui prescinde dal consenso e anche dalla politica. Le questioni che affronta sono specifiche, professionali. La mafia? Il potere italiano? Le accuse di collusione? L’attacco al Quirinale? L’uso emotivo-ricattatorio dei fatti di giustizia branditi come una “clava” (Ferrara-Violante) da un partito militante fatto di giudici e di gazzettieri e di antipolitici e antisistema (“parole violente”, sostiene questo Gandhi che assicura di aver sussurrato a Cuneo al presidente quanto lo ammiri)? Sono incidenti interpretativi, cavilli da dirimere in sede tecnica.

    Lui, sì, conferma che il presidente ammirato dovrebbe ripensarci, perché il mondo è popolato di cattivi che vogliono stravolgere la Costituzione e il ricorso alla Consulta contro le intercettazioni abusivamente rese note a mezzo intervista, una palla con cui giocare il gioco del ricatto, potrebbe imbarazzare i cari colleghi del giurista Fracchia. Lui dice quel che pensa da candido, da capa fresca e pura, e non ritiene che sia un’oscenità né che sia osceno spettacolo di un carattere da commedia all’italiana il dirlo ora con parole sprezzanti ora, dopo la sculacciata, con parole soffuse e mielose. “Scusatemi, l’impasto della legge e del diritto è come un impasto di farina, e io sono panettiere ingenuo. Sia anatema, ma anatema dolce e amichevole nel caso del Fondatore, per chi afferma che nutro intenzioni politiche”. Disgustoso è vedere gli effetti dell’odio, ma non ci vuole una particolare manliness per trovare ripugnante l’occultamento della mano a sasso gettato, la fenomenologia della pura paura.

    Ha trovato anche il modo di citare Julien Benda e il suo saggio sul tradimento dei chierici negli anni Trenta del Novecento. Benda rimproverò a veri intellettuali la paura della politica nel momento delle scelte definitive, pensava che non ci si comporta come il giureconsulto Zagrebelsky, non si fanno un passo avanti e due indietro quando si parla delle cose ultime. Avevano disertato come lui, ma la democrazia e i diritti umani, non la procura del dottore Ingroia e il cesso mediatico di Beppe Grillo.
     

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.