Sandokan santo subito

Mariarosa Mancuso

Omar, Nadir, e Fathima con l’acca raccontano i pomeriggi trascorsi assieme a papà Emilio Salgari. Impossibile annoiarsi, in casa e fuori. Portava i rampolli lungo il fiume o in collina, poco coperti anche d’inverno perché non diventassero donnicciole. Fabbricava pupazzi di neve, costruiva palloni aerostatici, trasformava i paesaggi dietro casa nelle giungle del Borneo, teneva sul tavolino pugnali, divinità indiane, fiocine, foglie di palma rinsecchite. Aveva inventato il Gattodromo, e organizzava le gare tra i 27 mici domestici.

    150 anni fa, il 21 agosto del 1862, nasceva a Verona Emilio Salgari. Ripubblichiamo il lungo ritratto che ne fece Mariarosa Mancuso il 16 aprile del 2011 nel centenario della morte.

    Omar, Nadir, e Fathima con l’acca raccontano i pomeriggi trascorsi assieme a papà Emilio Salgari. Impossibile annoiarsi, in casa e fuori. Portava i rampolli lungo il fiume o in collina, poco coperti anche d’inverno perché non diventassero donnicciole. Fabbricava pupazzi di neve, costruiva palloni aerostatici, trasformava i paesaggi dietro casa nelle giungle del Borneo, teneva sul tavolino pugnali, divinità indiane, fiocine, foglie di palma rinsecchite. Aveva inventato il Gattodromo, e organizzava le gare tra i 27 mici domestici. Il serraglio di famiglia comprendeva anche la scimmia Peperita, il cane Niombo innamorato della gallina Ninì, il pappagallo Zulù che ripeteva “Sandokàn, Sandokàn”, l’oca Madama Sempronia. In visita al Museo Egizio di Torino, Emilio Salgari spiegava ai rampolli i riti funerari, che ai bambini piacciono moltissimo (Théophile Gautier ironizzava sul fatto che gli egizi passavano la vita a seppellire i morti, ma anche lui ebbe la sua fase orientaleggiante; e alzi la mano chi non ha avuto un brivido alle elementari leggendo e rileggendo la frase: “Estraevano il cervello dal naso dei cadaveri con un uncino”). Fathima ricorda la passione di papà Emilio per i cibi esotici assaggiati nei suoi viaggi – “cercate un babirussa che lo facciamo arrosto, e foglie di banano da usare come piatti”. E per l’opera lirica: omoni e dame in abiti pittoreschi “troppo grassi per abbracciarsi, per questo si tengono per mano”.

    Viene in mente Carlo Emilio Gadda, quando racconta le pettorute soprano nella “Madonna dei filosofi”. Il collegamento tra l’ingegnere brianzolo e lo scrittore corsaro poteva riuscire soltanto a Ernesto Ferrero, lettore, commentatore e adoratore di Gadda fino al punto da immaginare (parecchi anni fa, durante una conversazione privata, sull’onda dei falsi Modigliani ritrovati a Livorno) uno pseudo-Gadda, fingendo di ritrovare il manoscritto tra le carte conservate negli archivi. Non lo scrisse. Ci va vicino con un falso Emilio che di tanto in tanto strizza l’occhio a Carlo Emilio. Si intitola “Disegnare il vento. L’ultimo viaggio del capitano Salgari”, esce da Einaudi in coincidenza con i cento anni dal suicidio dello scrittore, che fece harakiri il 25 aprile 1911. La letteratura infatti non salva la vita. Non agli scrittori almeno, se sono davvero grandi (i piccoli e i medi invece continuano a spacciare l’odioso luogo comune, per la gioia dei lettori modello Bovary): se non vi basta Salgari, pensate a David Foster Wallace.
    “La scrittura è una malattia che neppure la Fosfatina Carlo Erba riesce a curare” riassume l’Emilio Salgari di Ernesto Ferrero a uso di Angiolina, vicina di casa interessata ai segreti del mestiere (curiosità legittima: il fidanzato l’ha piantata per partire all’avventura, la testa scaldata dai kriss malesi). I quaderni di Angiolina compongono il magnifico patchwork, in alternanza con le gite domenicali raccontate dai figlioli, la cronaca del giornalista Casulli che incontra Salgari la vigilia di Capodanno del 1909, le testimonianze dei vicini dopo il suicidio, il resoconto del primo e unico viaggio per mare del giovanotto Emilio, salpato come mozzo da Pellestrina e rientrato in porto dopo dieci giorni di bonaccia e una tempesta – sempre di Adriatico comunque parliamo, non di Mare dei Sargassi – quando frequentava a Venezia l’Istituto nautico Sarpi. Passato lo spavento, si diede al giornalismo, firmando sulla Nuova Arena di Verona e incontrando Buffalo Bill nel suo tour europeo: l’articolo si può leggere in “Una tigre in redazione”, nel cofanetto appena uscito da minimum fax con il titolo “Capitan Salgari”, accoppiato a un documentario di Marco Serrecchia. Ma come Ernesto Ferrero suggerisce con dovizia di esempi, travestito da Salgari o con i panni suoi, la finzione sempre batte la realtà. Specialmente quando per realtà si intende un esperto assiso dietro la scrivania, in penombra su uno sfondo di antichi volumi. Per intervallo, Gino Paoli legge le lettere d’amore che Salgari scrisse alla moglie firmandosi “selvaggio malese” sbagliando le pause: peggio non si può fare a uno che il mondo non l’aveva girato, ma il ritmo l’aveva eccome.
    Carlo Emilio Gadda fa da suggeritore per le serate all’opera. Émile Zola si presenta appena un po’ mascherato nei quaderni di Angiolina, figlia di un fabbricante di vermouth che dopo le prime chiacchierate con Salgari si lascia scappare la parola “incrinatura”. “Fêlure”, avrebbe detto nella sua lingua lo scrittore che in venti romanzi raccontò la storia naturale e sociale della famiglia Rougon-Macquart: l’incrinatura sta alla base di molti vizi e altrettanti delitti, tara ereditaria aggravata dall’alcolismo, dalla miseria, dalle fatiche. Il destino si accanì anche sulla famiglia Salgari: prima del suicidio lo scrittore patì la vergogna di una moglie ricoverata al pubblico manicomio, mancando i soldi per una clinica privata.

    Angiolina riferisce quel che Salgari pensava davvero del rivale e collega Verne: “Il Verne l’è ’na secada”. Una gran noia, sempre lì a dar lezioni con la prosopopea dei francesi: “Anch’io metto notizie scientifiche nei miei romanzi, ma perché sono cose che ho visto con i miei occhi”. Al segretario della regina Margherita, omaggiata di copie con lunghe dediche, lo scrittore ricordava i quaranta libri pubblicati in dieci anni, “emancipando il paese dal giogo di altre letterature”, e forte di questi patriottici meriti cercava invano di scucire qualche soldarello. Poi si vergognava, non spediva la lettera, in onore della casa reale chiamava Jolanda la figlia del Corsaro Nero. Più di Verne, apprezzava Edgar Allan Poe per “I delitti della Rue Morgue”. Un collega finito malissimo, mentre Giulio Verne – allora si traducevano anche i nomi degli scrittori – morì nel suo letto, e con i guadagni si era pure comprato uno yacht, mentre Salgari arricchiva soltanto i suoi editori.

    “Le notizie scientifiche le devi lasciar cadere come se tutti sapessero cosa sono, l’importante è il suono che danno” spiega il Salgari all’Angiolina, che subito pronuncia (i romanzi li aveva letti anche lei, non solo il fidanzato) “sciambàga, rotàng, duriòn, mamplàm”. “I lettori son come i cobra, li devi tirare fuori dal cestino con la musica” fa dire al suo Salgari Ernesto Ferrero, che aveva già dato prova del suo orecchio e del suo mimetismo linguistico facendo spiare Napoleone in esilio all’Elba dal bibliotecario Martino Acquabona. “L’imperatore pare soddisfatto. Ieri mi ha fatto il ganascino: come si porta il nostro Signor Erudito?”. Il romanzo, intitolato “N.”, vinse lo Strega nel 2000, “Disegnare il vento” sarebbe in ottima posizione per l’anno prossimo, se gli italiani oggi amassero la letteratura come quelli di allora, che pure erano dialettofoni e parecchio analfabeti. Il saggio del salgariano di ferro Pietro Citati si intitola infatti “Il profumo dei Nagatampo”, che non sappiamo esattamente cosa sono, ma assieme ai paletuvieri e alle pomponasse suonano bene.
    Dobbiamo a questo sturm und drang sonoro, secondo Ernesto Ferrero, anche la pronuncia “Sàlgari”, a cui ancora siamo affezionati perché suggerisce un arrembaggio (invece di “Salgàri”, dal veneto “salgaro” che vuol dire salice). Mentre la massa dei lettori sognavano l’avventura, l’élite antropologicamente superiore pensava già alla rivoluzione. Paco Ignacio Taibo II, per esempio. Spagnolo di nascita, e messicano per tutto il resto, ha appena pubblicato da Tropea “Ritornano le tigri della Malesia (più antimperialiste che mai)”. Sull’ultimo numero di Pulp si dichiara “antimperialista di origine salgariana”, come il comandante Tomás Borge della rivoluzione nicaraguense e come Ernesto Che Guevara. Nei diari, riferisce Paco Ignacio Taibo, il rivoluzionario argentino dichiara la lettura di 62 romanzi. “Uno in meno di me che di Salgari ne ho letti 63”, sottolinea Taibo (e noi, che già sospettavamo qualche legame tra raccolta di figurine e le smanie rivoluzionarie prendiamo appunti per un saggetto che mai scriveremo). Lettura non autorizzata da Emilio Salgari, che portava la paglietta con il nastro ed era un uomo tutto virtù domestiche, un po’ conservatore. Diffidava dell’elettricità e del progresso celebrato nel “Ballo Excelsior”: la versione per marionette della premiatissima Compagnia Carlo Colla e Figli mostra la Luce che combatte l’Oscurantismo con in testa una lampadina da minatore.

    Non esistono due scrittori che non abbiano motivo di ruggine tra loro, ragion di più se pescano nello stesso bacino di lettori. In “Disegnare il vento”, Emilio Salgari ha in odio Edmondo De Amicis, accusato di “allevare una generazione di piagnoni”, di compiacere un pubblico che si credeva a posto con la coscienza perché faceva un po’ di elemosina, e soprattutto di essere “un socialista ricco”, forte delle sue mille copie giornaliere. Poteva Ernesto Ferrero resistere all’attrazione fatale di “Cuore”? Certo che no. Dunque riferisce un Emilio che rise, quando seppe del terremoto che colpì il quartiere torinese dove De Amicis abitava, e certe parole non proprio addolorate quando gli annunciarono la morte del rivale. Salgari salva solo il racconto “Amore e ginnastica”, per quel bell’erotismo che traspare dagli esercizi ginnici della maestra Pedani, genere che Salgari apprezzava fino a coinvolgere nei suoi sogni erotici la regina Margherita: “Liberata dal carapace del busto lei lo invitava con un gesto di nobile semplicità ad accostarsi all’alcova dove il lino aveva un candore abbacinante. Lui leccava ad una ad una quelle dita affusolate, le introduceva in bocca, le succhiava delicatamente come gli ossicini degli oséi”.

    Nella Torino tra Otto e Novecento, Salgari viveva alla Madonna del Pilone, allora borgo fuori città sulle rive del Po, dove si andava con il tram per prendere il fresco all’osteria (da quelle parti, ora centralissime, abita adesso Ernesto Ferrero, che oltre a leggere Salgari, scrivere romanzi e frugare archivi e biblioteche, dirige dal 1998 il Salone internazionale del Libro). La prima capitale del Regno d’Italia era un posto dove succedevano le cose, puntualmente registrate in “Disegnare il vento”. Il cinema, per cominciare: il Giovanni Pastrone di “Cabiria” era nato ad Asti, e una certa voglia di arrotondare i guadagni con il cinematografo Salgari la coltivava: “Poteva dire senza iattanza o superbia che il cinema – favola per immagini – l’aveva inventato lui. Possibile che delle ottanta storie scritte non ce ne fosse una adatta?”. Gli mancava una raccomandazione, una presentazione, qualcuno che facesse da tramite. Insomma, un bravo agente. Poi c’erano le nuove fabbriche di automobili, che spuntavano come funghi. E l’Esposizione universale del 1911, che si aprì pochi giorni dopo la sua morte, e già aveva invaso Torino con cartelloni colorati pieni di sudicerie (“il commercio cittadino era in stato di erotismo cronico” gli fa eco De Amicis). Tanto che Salgari si lagna: “Poi se la prendono con la violenza dei miei libri!”.
    “Disegnare il vento” evoca la pittura, prima passione di Salgari. Poi cambiò idea: a guardar bene, le parole consentivano giochi di prestigio più audaci del pennello. Poi tentennò di nuovo: lui si rompeva la schiena scrivendo pagine su pagine, ma poi – nella mente dei ragazzini e anche dei lettori adulti – Sandokan, Tremal-Naik, Yanez, Jolanda la figlia del Corsaro Nero, i Tigrotti della Malesia sono come comandavano le illustrazioni. Il minimo che potesse capitare, vista l’esistenza di illustratori autorizzati come Pipein Gamba prima e Alberto Della Valle poi. Racconta Ernesto Ferrero – in una delle sue migliori invenzioni, o forse no: non siamo tanto salgariani da voler tenere i conti del vero e del falso, siamo sicuri che su Internet c’è un gruppo di maturi fan che non aspetta altro, non vediamo l’ora di non leggere cosa hanno da dire – che il napoletano Della Valle metteva in posa familiari e amici, con i costumi adatti e le pose giuste, perché “i gesti devono essere parlanti”. Fotografava, e poi dipingeva.

    “Se James non ha mai cercato un tesoro, si può dimostrare che non è mai stato un bambino” disse Robert Louis Stevenson parlando del suo amico Henry James, freddino dopo aver letto “L’isola del tesoro”. Per inciso: una delle più stravaganti relazioni letterarie: il primo andò a morire ai Tropici con addosso i suoi stivali, il secondo si vantava di essere così ben introdotto nella società londinese da essere uscito a cena 140 volte in un anno; uno si spingeva fino alla terza subordinata anche parlando con i domestici, l’altro ci ha regalato Mr. Hyde e il pirata Long John Silver, andando al dunque senza perdersi in fronzoli.
    Anche Salgari aveva il suo tesoro, poco luccicante ma prezioso. In mano a qualcuno più abile a farsi gli affari propri lo avrebbe fatto diventare miliardario nelle lire di allora, altro che lasciar scritto nell’ultima lettera ai figli: “Io spero che i milioni di miei ammiratori, che per tanti anni ho divertiti e istruiti, provvederanno a voi”. Erano le sue schede, ricavate dalle enciclopedie e da altre letture. “Quando ho bisogno di qualcosa, vado lì a colpo sicuro”, spiega ad Angiolina, che intanto scorre l’elenco delle meraviglie: “Piante pietrificate. I grandi digiuni. I nani celebri. Il sagù e altre piante malesi. L’hashish il narcotico orientale. Scoperta degli aghi da cucire. Testuggine capelluta dei mari della Cina. Il manzanillo albero che uccide”. Insomma, tutto il repertorio poi finito nel “forse non tutti sanno che…” della Settimana Enigmistica, e ora su Wikipedia. Da cui, per esempio, Michel Houellebecq copia & incolla volentieri le descrizioni dei luoghi, nel suo ultimo libro “La carta e il territorio” (dove “carta” sta per “mappa”, suona anche meglio e si capisce il senso, non ci voleva tanto a tradurlo giusto, e va detto che anche Salgari e Stevenson erano grandi appassionati di mappe, assai meno noiosi del francese però). “Ne sa più di un’enciclopedia, anche per i viaggi che ha fatto”, scrive Angiolina, quando ancora è ingenua e non sa che i romanzi spesso funzionano al contrario. Val più uno stanziale di genio di un vagabondo pedante.