Robert Hughes

Giuliano Ferrara

Larger than life, applicato a una persona, è espressione idiomatica traducibile variamente: un dizionario dice “uno che ha un’aura di grandezza, forse non sostenuta dalla persona reale che è”; un altro dice “esagerato, eccessivo, appariscente”; infine larger than life è traducibile semplicemente con Robert Hughes, morto ieri a New York, in un ospedale del Bronx, a settantaquattro anni: “più interessante e più eccitante di una persona comune”. Hughes, australiano di una storica covata intellettuale comprendente la scrittrice e femminista Germaine Greer e il poeta Clive James, ha scritto di arte per vent’anni su Time magazine, dettando le regole del gusto controcorrente.

    Larger than life, applicato a una persona, è espressione idiomatica traducibile variamente: un dizionario dice “uno che ha un’aura di grandezza, forse non sostenuta dalla persona reale che è”; un altro dice “esagerato, eccessivo, appariscente”; infine larger than life è traducibile semplicemente con Robert Hughes, morto ieri a New York, in un ospedale del Bronx, a settantaquattro anni: “più interessante e più eccitante di una persona comune”. Hughes, australiano di una storica covata intellettuale comprendente la scrittrice e femminista Germaine Greer e il poeta Clive James, ha scritto di arte per vent’anni su Time magazine, dettando le regole del gusto controcorrente, ma quando lo avevano cercato a Londra per assumerlo era in stato di paranoia al punto che riattaccò il telefono perché credeva a un agguato della Cia per punirlo delle sue posizioni contro la guerra nel Vietnam.

    Il Guardian nel suo obituary ci ricorda che coglieva come nessun altro l’atmosfera di sospensione silenziosa prima del ballo di un Watteau o il punto geometrico posto tra una perdita e la nostalgia o il colore in Gauguin, Van Gogh e Cézanne; altri ricordano che trashò sbrigativamente Andy Warhol mentre comprendeva bene Pollock alla luce dei suoi immensi paesaggi nativi del Wisconsin: tutti sanno che era chiaro e scandaloso e inaudito, rozzo nell’eleganza e popolare nel suo populismo critico, una voce decisiva nella fine del Novecento. Era emigrato dagli antipodi nel 1964, si era fatta su tutta la cultura degli anni Sessanta, alcol su droga, libero amore su rivolta, così come allora si portava, ma era uno tosto che sapeva cambiare opinione e testimoniò poi per molti anni, con immenso successo di pubblico e forti contestazioni, una missione di rinnegamento e riformulazione del decennio vagamente libertario, diventando come scrisse nel 2006 su The Nation il compianto Christopher Hitchens, suo estimatore, un solido “rivoluzionario e conservatore” (la definizione una volta era stata assunta per definire il buon Pci, ma questo Hitch non lo sapeva, da Enrico Berlinguer, guarda un po’ la vita che scherzi che fa). Celebre la sua confutazione del libero amore, praticato generosamente da quello splendido stallone che era stato in gioventù, contenuta nelle sue memorie tarde (ebbe tre mogli, solo l’ultima delle quali lo rese felice, e un figlio con la prima, che era anche l’amante di Jimi Hendrix: il ragazzo, oggetto di una pedagogia ovviamente trasandata, si uccise e rese infinitamente triste il proprio ricordo nel padre assente).

    Amò e raccontò Firenze e Roma, e che altro dovrebbe amare un critico d’arte?, ma anche Barcellona nel suo modernismo rococò. Sbeffeggiò le pretese di un certo postmodernismo quattrinaro, e si fece molti nemici nel mondo delle mode culturali (a Hitchens disse che stava “cercando di rimuovere una tonnellata di merda con un calzascarpe”). Al trauma del nuovo (The Shock of the New) dedicò un libro di universale diffusione e una serie televisiva anch’essa scandalosa. Si diede da fare per un’epica dei galeotti deportati in Australia da Giorgio III, e scrisse un gran libro di settecento pagine sulla riva o l’approdo fatale (The Fatal Shore) dedicato alla creazione di una nuova civiltà continentale, la cui arte aveva raccontato in un suo testo giovanile.

    Qualche anno prima della nascita di questo giornale (1993) svettò come pamphlettista con un testo meraviglioso sulla cultura del piagnisteo (The Culture of Complaint-The Fraying of America), che fu bersaglio e oggetto di vero odio a sinistra tra i liberal e a destra tra i conformisti. Il Barney Panofsky di Mordecai Richler è la versione meno cinica ma altrettanto abrasiva della poderosa e tenebrosa campagna di giustizia che Hughes intraprese contro il correttismo intellettuale di ogni genere, contro lo spaccio delle lacrime e delle imposture. D’altra parte anche Francesco De Sanctis diceva agli artisti di darci per cortesia le lacrime delle cose, risparmiandoci le loro.
     

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.