Di una sovranità limitata

Giuliano Ferrara

Il primo gennaio del 1948 abbiamo promulgato una Costituzione aperta al soviettismo (“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”). Il 18 aprile dello stesso anno, tre mesi e mezzo dopo, abbiamo votato per entrare nella sovranità tutelata militarmente, economicamente e culturalmente dagli Stati Uniti d’America. Molti anni dopo (1993), andata in crisi quella formula, abbiamo messo a Palazzo Chigi Ciampi, il migliore amico della Bundesbank in Italia, e progressivamente, con lui con Prodi e con tutti gli altri, Berlusconi firmatario dei nuovi patti di Roma compreso, siamo slittati nell’orbita economica franco-tedesca di Maastricht, suggellandola con la moneta unica senza una banca che la governi.

    Il primo gennaio del 1948 abbiamo promulgato una Costituzione aperta al soviettismo (“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”). Il 18 aprile dello stesso anno, tre mesi e mezzo dopo, abbiamo votato per entrare nella sovranità tutelata militarmente, economicamente e culturalmente dagli Stati Uniti d’America. Molti anni dopo (1993), andata in crisi quella formula, abbiamo messo a Palazzo Chigi Ciampi, il migliore amico della Bundesbank in Italia, e progressivamente, con lui con Prodi e con tutti gli altri, Berlusconi firmatario dei nuovi patti di Roma compreso, siamo slittati nell’orbita economica franco-tedesca di Maastricht, suggellandola con la moneta unica senza una banca che la governi. (L’analisi di Antonio Pilati docet, a partire dalla quinta colonna qui a fianco). Ora da veri italiani loquaci, e chiacchieroni, parliamo molto di sovranità. Ma i tedeschi ci fanno la lezione e ricordano al capo del nostro governo, Monti, che i Parlamenti esprimono la volontà popolare. I governi eseguono, sono esecutivi.

    Attenzione, una balla è diventata una bolla. Una bolla di balle. E’ appunto la questione della cosiddetta “sovranità”. Ernesto Galli della Loggia nel Corriere richiamava domenica la Costituzione con parole dignitose. Vuole rapporti alla pari, come c’è scritto nella Carta. E vabbè, è un po’ accademico come ragionare, ma ci può stare. In linguaggio istituzionale, la bolla però comincia a gonfiarsi paurosamente, ed è portatrice insana di parecchia demenza.

    La maggioranza eletta nel 2008 è scomparsa nel 18 Brumaio di Napolitano III. Con Monti, lo sappiamo, è in carica da quasi un anno un governo non eletto, nominato dall’alto e imposto ai partiti recalcitranti e consenzienti (“Sono fuggiti dal governo”, dice Pomicino) per curare l’Italia in fallimento senza la procedura democratica della consultazione elettorale sotto la neve. Ora D’Alema ha lasciato che girasse la propalazione secondo cui è lui il mandatario, avendo incontrato Monti da Guido Rossi (immagino) per chiedergli se gli sarebbe andato di impegnarsi. Ma se facciamo il conto negli anni di quanti, da Berlusconi in giù, hanno chiesto a Monti di impegnarsi, non la finiamo più (il Cav. lo voleva ministro del Tesoro, per esempio). D’Alema ha solo fatto la fila e sgomitato per un posto in vista. Monti è arrivato quando la Merkel, che ha mandato in avanscoperta il ridanciano marito di Carla Bruni, lo ha ritenuto opportuno.Punto. Non è un gioco alla pari, con tutta evidenza. Di quale sovranità stiamo mai parlando?
    I voti di fiducia che hanno sommerso Monti, la riforma delle pensioni e altri tentativi onesti di mettere una pezza all’emergenza, guardando al di là delle prossime elezioni (obbligate per Costituzione), sono la maschera parlamentare o parlamentarista di una sostanza che eccede il Parlamento. Tanto è vero che Monti ha detto in un colloquio con lo Spiegel, settimanale prestigioso che si concepisce in Amburgo, Lega Anseatica: “Se avessi dovuto tenere in considerazione le proposte del Parlamento italiano, dal quale avevo avuto indicazioni di far passare gli Eurobond, non avrei dovuto dare il consenso italiano nell’ultimo Consiglio europeo” di fine giugno. Bum! E ancora più bum!, anzi bum! bum! bum!, ecco il resto: “Ogni governo ha il dovere di guidare il suo Parlamento”, se i governi seguissero “esclusivamente le decisioni dei Parlamenti la rottura dell’Europa sarebbe più probabile della sua integrazione”.

    Mi sembra chiaro, e anche questo non è precisamente un gioco alla pari: la sovranità come decisione della maggioranza popolare. affidata a legittimi capifila di coalizioni che la legge elettorale in vigore indica come candidati-premier e fornisce di maggioranze parlamentari premiali quando vincano le elezioni, se ne è volata via nel novembre scorso. Al castigo degli elettori è seguito il castigo dei partiti, oggi maschere di un governo allogeno, per quanto a noi caro e da tenere da conto se non ci siano alternative serie. Se non vogliamo passare per buffoni, dobbiamo trasferire la questione di diritto accademico-istituzionale, che fa ridere, alla questione politica, che potrebbe farci piangere.

    I partiti discutono di legge elettorale e della data delle elezioni, e di chi vince e di chi perde in questo gioco che ha variabili risibili, come Di Pietro o la “base di Vendola” o la “lista dei sindaci” che non aggiustano le buche delle città o le cento follie di una destra che non sa che pesci pigliare e vuole cancellare l’Imu, addirittura. E’ il loro sporco mestiere, nulla da dire se non che limitandosi a queste varianti i partiti fanno la figura di comparse ineffettuali. Infatti, sotto sotto, si capisce che la vera questione in campo, fuori dalla bolla della sovranità per modo di dire, è quella di che assetto dare a una sovranità limitata, non già dal destino cinico e baro, ma dal nostro alto debito, dalla storica disabitudine a lavorare investire rischiare consumare, salvo isole esportatrici del nord-est e una borghesia barcarola che consuma anche troppo e firma accordi bancari segreti con la famiglia Ligresti. Che assetto dare, questo è il problema della famosa agenda Monti. Su questo si agita il ministro Corrado Passera che vuole intercettare a settembre il centro politico-opportunistico e andare avanti nel solco del governo tecnico, con Monti ovviamente al Quirinale. Su questo si agita la destra, che può fare una cavalcata nazional-popolare per limitare le perdite e dare una mano al paese in difficoltà, ma deve sacrificare il populismo d’assalto alla necessaria credibilità e responsabilità politica. Su questo vogliono lucrare gli antisistema che lavorano per  la fine della casta con argomenti forniti dalla casta contro i partiti.

    Quale assetto non già sovrano, ma con parvenza di autonomia, immagina a questo punto la sinistra, che i sondaggi danno in vantaggio per il 2013 o data anticipata? Qui è il punto. Secondo me la tentazione di mandare tutto a monte e di votare con il porcellum, cosa che si può fare solo mettendo in crisi il governo Monti e addossando la responsabilità della crisi a Berlusconi, circola nel giro di Bersani e dei suoi sodali più agguerriti (leggetevi Stefano Fassina nell’Unità di ieri: articolo dignitoso e chiaro). Dicono che la storia del memorandum, cioè una specie di seconda lettera della Banca centrale europea, come quella fatale dello scorso agosto, che incastri qualunque governo emerga dalle elezioni a qualunque data si tengano, e imponga l’agenda Monti  ai successori, è un giallo. Gli impegni sono già stati assunti, si riconosce da parte loro (e con il loro voto di fiducia), ma fissarli nella forma delle “condizionalità” di cui ha parlato Draghi il 2 agosto in cambio di un intervento di salvataggio finanziario dell’Unione europea e delle sue istituzioni più o meno con licenza bancaria, questo sarebbe troppo, aggiungono.

    Chiaro? Bersani vede che la destra lo prende un po’ in giro sulla legge elettorale per massimizzare i propri risultati di parte contro quelli del Pd e suoi alleati; vede che i suoi alleati sono fragili e liricheggianti più ancora del Bertinotti di Prodi; vede che gli antisistema cooptano Di Pietro in tono minore e si avviano a prendergli un sacco di voti; nel suo partito e in lui stesso cresce la voglia di patrimoniale, di redistribuzione socialdemocratica, di laburismo inteso come vendetta dell’economia reale sulla speculazione finanziaria; e sa, Bersani, che i montiani del Pd sono pochi e disuniti, mentre l’infido Casini ogni tanto lo lusinga e ogni tanto trama per un centro che sia decisivo qualunque cosa accada. Se c’è una logica nella politica, e considerato l’effetto dirompente che avrebbe a questo punto la richiesta di aiuto dell’Italia all’Europa, e il memorandum sulle cose da fare in cambio, Bersani valuterà bene i rischi e le difficoltà, che sono molti, ma alla fine potrebbe strappare e cercare una vittoria meno condizionante per lui con l’attuale legge maggioritaria. Nell’accademia istituzionale la sovranità è un pallido ricordo, ma nella politica italiana la sua caricatura è il tema dirimente o si annuncia per tale.

    Angelo Panebianco nel Corriere di ieri ha elaborato uno scenario, a giusto titolo e come sempre con argomenti seri. Conclusione: con la proporzionale corretta secondo le proposte oggi in campo, il governo Bersani dura un anno e combina quasi niente, tutti finiscono nelle mani di Casini e dell’instabilità. Unica alternativa sarebbe la grande coalizione, che a me personalmente non dispiace affatto. Giusto. Ma Panebianco ha dimenticato un dettaglio: il teatro o scenario di oggi, quando una legge in vigore c’è, dà la vittoria maggioritaria alla coalizione che arriva prima, e teoricamente a questa tentazione, in nome della sovranità da difendere, e di una politica di crescita socialdemocratica da mettere in campo, contro il montismo e l’idea di un’Europa fondata sulle esportazioni tedesche, per realizzare la discontinuità con Berlusconi richiesta dal popolo di sinistra e non ottenuta come volevano dal governo Monti, il Pd di Bersani alla fine potrebbe non resistere. Ho detto “teoricamente”. In realtà Bersani cerca di convincere a un patto Monti e Napolitano. Se ci riesce, lo strappo è cosa fatta.

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.