Nei misteri della legge elettorale

Giuliano Ferrara

Trattano. Certo che trattano. Tema esclusivo e fatale: le regole elettorali. I partiti non fanno altro da mesi. Ora sono vicini all’accordo, sembra di no ma è così. Anche quando parlano di presidenzialismo o di società civile, di patto tra i moderati o tra democratici e progressisti (nuova formula di Bersani, presa a prestito dal Cominform: per una pace stabile, per una democrazia popolare)  sotto c’è il sugo e il sapore del negoziato sulla legge elettorale.

    Trattano. Certo che trattano. Tema esclusivo e fatale: le regole elettorali. I partiti non fanno altro da mesi. Ora sono vicini all’accordo, sembra di no ma è così. Anche quando parlano di presidenzialismo o di società civile, di patto tra i moderati o tra democratici e progressisti (nuova formula di Bersani, presa a prestito dal Cominform: per una pace stabile, per una democrazia popolare)  sotto c’è il sugo e il sapore del negoziato sulla legge elettorale. E le chiacchiere politiche più generali (lo spread, l’emergenza, i tecnocrati, l’agenda Monti, la data del voto, perfino la corruzione e la giustizia) hanno senso soltanto se viste nella prospettiva delle regolette che devono decidere non tanto chi vince, perché sembra comprensibile che il pendolo al prossimo movimento si sposti lontano dalla maggioranza berlusconiano-leghista eletta nel 2008, quanto come vince, in quale situazione di teatro; e, sopra tutto, quanto sarà solido il dominio centralizzato sugli eletti. Quest’ultimo punto per Berlusconi è perfino una fissa psico-culturale, visto che un imprenditore-azionista che rischia di suo alla fine vuole quote di rappresentanza e non anime vive, e dunque incerte, nei comportamenti (lavoro, guadagno, spendo, pretendo). Per Bersani è esistenzialmente vitale, visto che i governi di centrosinistra sono tutti, senza eccezione, caduti ingloriosamente sul particulare comportamento assunto da soggetti parlamentari allo sbando nell’ambito di assemblee incontrollabili dai vari Ulivi o Unioni e dai loro pomposi programmi.
    Collegi, preferenze, quorum per i premi maggioritari, listini, territorio sono tutte formule che insistono sul come vincere, sul come controllare poi o un governo di grande coalizione o un governo di schieramento composto di una pluralità di soggetti o una opposizione di alternativa e di compromesso. La vocazione maggioritaria, per cui si va alla battaglia per governare in nome di un quadro certo di idee e di cose da fare e di classi dirigenti incaricate di realizzarle, è un fatto in Inghilterra (bipartitismo di tradizione), in Germania (idem: la socialdemocrazia e la Cdu-Csu sono una cosa seria e una roba forte, non le ammucchiate della Seconda Repubblica), in Francia (presidenzialismo e doppio turno), in Spagna (modello elettorale efficace perché suffragato da un bipartitismo tra socialisti e popolari nato insieme alla democrazia negli anni Settanta). 
    La faccenda non è politologica, cioè molto noiosa. Riguarda il potere e il suo esercizio, la democrazia e anche l’economia, la decisione che conta, infine il portafoglio. Nella criticatissima Italia di prima, quella dei partiti e della legge elettorale proporzionale, la prima regola era la Guerra fredda, non ratificata dal Parlamento nazionale ma definita nella conferenza di Yalta tra Roosevelt, Churchill e Stalin, insomma una regoletta mica male. I comunisti al governo no, almeno finché l’Unione sovietica come impero d’oriente si contrapponeva all’impero d’occidente guidato dagli americani. Dentro questa regoletta in Parlamento poi si faceva di tutto, e il voto segreto e i franchi tiratori erano i regolari fantasmi della democrazia, decidevano delle finanzierie (debito pubblico, welfare) e dei presidenti della Repubblica (questo sì, questo no). La Dc e gli altri partiti storici mediavano questa situazione (compresi i comunisti) e se ne avvantaggiavano variamente. Fino all’abolizione del voto segreto doppio per le leggi di spesa, realizzata da Craxi e De Mita arcinemici, i partiti lavoravano su un tracciato solido, ideologia e storia e sviluppo economico, più i confini di Yalta, ma erano espressione del Parlamento. Poi il Parlamento è diventato espressione dei partiti e dei loro gruppi dirigenti. C’è da scommettere che questo ultimo dettaglio più o meno sopravviverà in qualunque legge elettorale partorita dagli attuali gestanti. Che, appunto, su questo trattano. 

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.