Cambia passo la crisi, verso l'atomica

Vogliono le teste di Napolitano, Monti e Berlusconi

Giuliano Ferrara

Giorgio Napolitano è pimpante, scrive ai magistrati nel giorno di Borsellino che le inchieste bisogna saperle fare, l’obiettivo è la verità, non il protagonismo dei pm. Ma è ferito. Bastava la logica del sospetto, l’intimidazione via intercettazioni rese note a mezzo intervista da un inquisitore, bastava il rilancio mediatico, la mezza e timida difesa degli amici, l’attacco duro dei nemici, la messa in causa della sua onorabilità in un pastiche ributtante di insinuazioni ai danni della Repubblica e dei protagonisti della sua storia.

Leggi Letta difende il Quirinale ferito dal partito della zizzania (e del dopo Monti)

    Giorgio Napolitano è pimpante, scrive ai magistrati nel giorno di Borsellino che le inchieste bisogna saperle fare, l’obiettivo è la verità, non il protagonismo dei pm. Ma è ferito. Bastava la logica del sospetto, l’intimidazione via intercettazioni rese note a mezzo intervista da un inquisitore, bastava il rilancio mediatico, la mezza e timida difesa degli amici, l’attacco duro dei nemici, la messa in causa della sua onorabilità in un pastiche ributtante di insinuazioni ai danni della Repubblica e dei protagonisti della sua storia. Il generale che arresta Riina è sotto processo a Palermo, i ministri della Giustizia e dell’Interno che hanno fatto le cose serie contro la mafia sono sotto osservazione processuale speciale, il cuore delle istituzioni è sfidato e dunque indebolito in attesa di un pronunciamento della Corte costituzionale che sarà comunque l’esito controverso di uno scontro in cui mezza testa di Napolitano è già caduta, in specie politicamente (l’obiettivo di inchieste vuote e propalazioni è politico).

    Mario Monti è ferito. Lo abbiamo sfruculiato: il preside, la giunta tecnocratica. Ma non può prescindere dal contesto, non è il generale Evren (il militare turco che riportò alla normalità il suo paese in preda alla guerra civile negli anni Settanta), è un bocconiano serio, intelligente, che cerca di fare la strada del possibile in mezzo all’impossibile della faziosità italiana. Finora ci ha salvato ma facendoci pagare prezzi inauditi per fare cose ovvie che avrebbero dovuto essere pegno di unità e coesione nazionale (teneteci da conto Monti) e invece hanno ottenuto un apprezzamento condiscendente e alla fine inconcludente dagli spreadomani o spreadomaniaci di Berlino e Bruxelles e dal partito tedesco della Bundesbank che detta parte decisiva della legge anche a Francoforte. Eppoi, senza un Napolitano forte, senza un mandatario reso autorevole dal successo politico di uno slancio nazionale a tutto tondo, un governo di doppia fine mandato necessariamente perderà colpi, anche e sopra tutto per via della tendenza anarco-giustizialista che si è reimpadronita della scena al primo annuncio di un possibile ritorno di Berlusconi (ma la brace facinorosa covava sotto la cenere comunque, e a certe cattive abitudini non rinunciano le corporazioni rampanti dell’inquisizione neo e pseudopuritana).

    Il cambio di passo della crisi italiana si vede tutto, non solo osservando Lady Spread e la minaccia di una offensiva speculativa d’agosto sulla scia del maltrattamento di mercato dell’economia spagnola (fondamentali deboli, debito pubblico privo di ogni tratto di eccezionalità). Il cambio di passo, con l’aggravante dell’irresponsabilità, è nella decisione fluttuante ma secondo me irrevocabile di mandare a monte la riforma elettorale, come annuncia nella sostanza Pier Luigi Bersani nell’intervista al Corriere della Sera di ieri, e di “rassegnarsi” a una battaglia maggioritaria vecchio stile per la presa del potere. Il punto è che nessuno più dissimula che la presa del potere passa per la cancellazione non solo di Napolitano, ma anche di Monti e della sua eventuale eredità politica e di stato. Bersani ha una sua squadra, tutta politica e giovanile e arrembante, pronta a rilevare il governo in una riedizione scalpitante della vecchia Unione. La sua legittima ambizione, però, non si muove nel solco di una tentata normalizzazione o di un razionale riordino politico del quadro che ha prodotto la grande crisi di democrazia e di governo avviata con l’esperimento Monti nel novembre scorso, dopo o in contemporanea con le dimissioni del vincitore delle elezioni politiche, Berlusconi. Bersani si avvale per necessità e gola di una cultura politica che non è la sua ma che lo condiziona.

    Barbara Spinelli ha scritto l’altro ieri che Monti è complice di una mancata discontinuità con Berlusconi, e l’ossessione neopuritana mette anche il successore del Cav. nel mirino della “colpa comune”. Gustavo Zagrebelsky ieri ha rovesciato d’incanto, come solo certi costituzionalisti che si dicono liberali sanno fare, tutto l’impianto della campagna antipopulista che culminò nel comizio talebano di un tredicenne al Palasharp di Milano. Nell’attesa che scatti un tranello antimafia, fervidamente apprestato nel contesto delirante che sappiamo, e nell’attesa di una condanna certa nel processo Ruby per il prossimo novembre, ecco che si cambia registro: fino a ieri le maggioranze popolari erano demonizzate come oltraggio populista alla democrazia liberale, ora il problema del paese è liberarsi dell’equivoco tecnico e dell’equivoco populista varando finalmente una maggioranza elettorale che dia stabilità e robustezza al progetto di una feroce ordalia o vendetta popolare contro l’odiato tiranno, e stavolta non si faccia illusioni nessuno, tutto sarà spazzato via dall’onda lunga della volontà popolare. Il partito neoazionista di Repubblica, nonostante le oneste ma impotenti sortite istituzionali del suo Fondatore, delegato alle chiacchiere con Napolitano e in difesa del Quirinale, si avvia a foraggiare di idee, notizie, propalazioni e bellurie più o meno da caserma (ci sono giornalisti specializzati per questo, di cui è meglio tacere) l’inelegante riscossa degli indemoniati in nome della sovranità popolare costantemente e pervicacemente negata per anni, via Porcellum. Dicevano che la buona Repubblica si governa con pesi e contrappesi, che la dittatura della maggioranza è una schifezza antidemocratica, che il ricorrente appello dei berluscones alla sovranità popolare andava imbragato e spento nella cultura repubblicana degli ottimati. Ora dicono il contrario. Nemica è la tecnica equivoca al potere, che ha stabilito un onorevole compromesso istituzionale con la storia di questo paese, che si muove da posizioni terze per ristabilire una convergenza o coesione nazionale decisiva per tamponare le falle e arginare la crisi, ma in realtà secondo loro è la mascheratura di un perdurante e mafioseggiante dominio dell’Arcinemico e della sua banda. Dunque, più o meno metaforicamente, vogliono tre teste in una: Napolitano, Monti e Berlusconi, possibilmente subito o con calma, senza storie.

    Il cambio di passo cingolato della crisi trova Berlusconi ormai completamente solo con il suo partito in via di trasformazione a mezzo marketing politico. Casini, Fini e la Lega sono un ricordo. Tutte le relazioni politiche effettuali, non quelle nominali e improduttive, sono ridotte al lumicino. Soffrono i comportamenti responsabili dovunque allignino. Bersani tenta di salvare con ragionamenti sul paese reale l’apparenza, ma lì è lo sbocco. E Berlusconi? Si trova davanti una situazione paradossale. Lo spread è patologico da un anno. Da nove mesi governa Monti, e non solo niente di radicale e significativo è cambiato, ma a dare i numeri e ragionare in soldoni, la media critica dello scostamento dei rendimenti dei nostri titoli di debito in euro da quelli tedeschi è tutta a sfavore dei tecnici, che il Cav. può legittimamente imputare, staccando la famosa spina dopo mesi di paziente attesa e di collaborazione talvolta anche leale, di essere curatori fallimentari falliti. Il Riamor nostro, come lo chiama Andrea Marcenaro, può dunque teoricamente ripartire con un suo heri dicebamus, con una riproposizione del suo sé più profondo. “Sì, cari italiani, vi ho deluso, ma vi spiego perché il sistema non mi ha permesso di stare alle promesse e alle premesse, e vi propongo di rinnovare un patto che è nelle vostre mani, che dipende da come votate: volete tornare indietro ai governi dell’Unione o volete andare avanti con un nuovo esperimento di riforma? Malgrado tutto io sono stato sempre dalla parte di un tentativo di rinnovamento, e il fronte conservatore mi ha opposto le sue legioni quadrate, mediatico-giudiziarie, e ci ha fregati tutti”.
    Farà lui, potrà forse tornare a essere persuasivo. Ma se taglia il rapporto con l’esperienza Monti, invece di rivendicarla, di mettersi in parte sulla sua scia stilistica e politica, per disegnare con radicalità e un nuovo stile un futuro che non deve assomigliare al passato, bè, è probabile che stavolta lo sistemino per le feste. Segnali sinistri dicono che, processi a parte, il 2013 potrebbe essere l’anno della svolta più radicale della storia italiana, con la fondazione di un regime fondato (ci sono precedenti) su un grande rogo simbolico. Forse poi nemmeno tanto simbolico.

    Leggi Letta difende il Quirinale ferito dal partito della zizzania (e del dopo Monti)

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.