Borsellino, la vergogna

La politicizzazione mediatico-giudiziaria della lotta alla mafia

Giuliano Ferrara

Berlusconi, Dell’Utri, Marina Berlusconi, la villa di Como stragi, estorsioni. I pupari di Massimo Ciancimino procedono da una buffonata all’altra, maligni e incuranti del ridicolo. Ci vogliono far bere che citano Berlusconi perché è parte lesa in un sospetto investigativo di estorsione, compiuta dal suo amico e sodale di sempre Dell’Utri: una presa per i fondelli. La convocazione è solo un modo per riallineare politicamente negli stessi titoli di giornali e telegiornali le parole stragi-Borsellino-mafia-concorso-soldi-scambio-e Berlusconi con tutti i suoi cari.

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    Berlusconi, Dell’Utri, Marina Berlusconi, la villa di Como stragi, estorsioni. I pupari di Massimo Ciancimino procedono da una buffonata all’altra, maligni e incuranti del ridicolo. Ci vogliono far bere che citano Berlusconi perché è parte lesa in un sospetto investigativo di estorsione, compiuta dal suo amico e sodale di sempre Dell’Utri: una presa per i fondelli. La convocazione è solo un modo per riallineare politicamente negli stessi titoli di giornali e telegiornali le parole stragi-Borsellino-mafia-concorso-soldi-scambio-e Berlusconi con tutti i suoi cari. Esattamente la stessa tecnica per cui Napolitano oggi deve difendere le prerogative del Quirinale sulle intercettazioni abusive, e questa difesa è sollecitata dalle iniziative di una procura che vuole dimostrare l’interessamento paramafioso della nomenclatura di stato all’inchiesta sulla macabra burla della “trattativa”: allineare le parole trattativa-stato-mafia-carabinieri-felloni e Napolitano con tutti i suoi cari.

    Nella campagna parallela del Foglio, questa è la lettera che un messo dell’avvocato Ghedini dovrebbe consegnare alla procura di Palermo: “Signor procuratore, non ho alcuna intenzione di deporre nelle mani dei dottori Ingroia e Di Matteo. Hanno la forza legale di impormelo ma non la legittimazione morale per esigerlo. Sono magistrati impegolati in una lubrica attività di sputtanamento della Repubblica, hanno gestito un processo farsesco per l’assassinio di Paolo Borsellino (Di Matteo) e un’inchiesta (Ingroia) in cui un calunniatore e pataccaro, detentore di arsenali dinamitardi e di un patrimonio illegale ben custodito, è stato spacciato per ‘icona dell’antimafia’ e sciolto come si fa con i cani contro il generale dei carabinieri che arrestò Totò Riina. Sono diffamatori professionali di galantuomini, in avida e ansiosa attesa di politica partitante a mezzo di pronunciamenti ricattatori, comizi e interviste, non magistrati della Repubblica. Potrei andare a Palermo solo per interrogarli io e domandargli se siano consapevoli del degrado che infliggono all’idea di giustizia che sta a cuore a tutti gli italiani. Con ossequio. Silvio Berlusconi”. Se uno come il Cav. si ritira o sta in paciolle, ha diritto a servizi giuridici dei migliori avvocati; se si ripresenta in scena, deve scommettere tutto sulla vera posta, solo così ritrova sé stesso e il popolo, mai tanto esposto alla frode, mai tanto esposto alla comprensione veritiera dell’aggressione giudiziaria alla sovranità della politica, nell’Italia mozzorecchi.

    I parenti delle vittime. Due parole, nel giorno di Borsellino, su un tema dolente e incandescente per chi abbia a cuore umanità e verità, tutte e due. La vedova Agnese, che molti anni dopo accusa un generale dei carabinieri; la sorella Rita, che si ritiene schiaffeggiata dalla decisione di Napolitano di impedire la violazione della Costituzione e della legge; il fratello Salvatore, che agita dopo tanti anni di silenzio, e sulla scia di una fanatica campagna mediatico-giudiziaria, l’agenda rossa del magistrato, un idolo polemico “icona dell’antimafia”, come Massimo Ciancimino. Il rispetto umano per il dolore che non passa nemmeno dopo vent’anni, dolore infinito, la considerazione per i sospetti naturalmente e sensibilmente covati, per l’idea che il sacrificio di un uomo caro alla famiglia e al paese, trucidato dai mafiosi, possa essere stato al centro di una infernale macchinazione politico-mafiosa: tutto questo è ovvio e naturale, umano appunto. Poi c’è la verità. La verità è che chi ha arrestato colui che ha deciso l’assassinio di Paolo Borsellino, il generale Mario Mori che catturò Riina, è infangato e processato a ritmo sostenuto, più e più volte, con l’aiuto solerte di un calunniatore bandito e sbandierato perfino dai pm inquisitori e dai loro reggicoda giornalistici e televisivi (Mori dimostrò in tribunale che Massimo Ciancimino era un falsario, prima che lo arrestassero i suoi seguaci della procura e della tv di polizia). La verità è che i parenti delle vittime non dovrebbero mai prestarsi a un uso partigiano del loro cognome, non dovrebbero usare la memoria a intermittenza, non dovrebbero consentire che la loro candidatura a funzioni pubbliche, la loro carriera politica personale e di gruppo, sia piegata ai desiderata morbosi di chi si dichiara ex post amico dei martiri, di chi ha sputtanato in vita un Falcone e poi lo celebra, di chi ha concreti e faziosi interessi da difendere attraverso l’uso e l’abuso di una storia dolorosa, di pm vanitosi che fanno comizi (che Borsellino non faceva). Quando i parenti delle vittime si fanno partito, tendenza politica, squadra in caccia di colpevoli fantomatici, di storie fantomatiche, allora c’è, agli effetti della verità, una disumanizzante perdita di credibilità che inquina anche il dolore personale, lo trasforma in vendetta tribale, lo schiaccia sotto il peso di argomenti e battaglie di opinione che tolgono serietà all’inconcussa fedeltà dovuta alla memoria vera.

    Puoi dire e affermare tutto, vivere e sopravvivere a un tuo caro assassinato con molta e decente volontà di fare pulizia, di impegnarti nei casi della Repubblica, ma è poco onorevole abusare di un nome e di una storia personale che finisce in martirio per imporre in modo pretestuoso e alla fine profondamente immorale una tua verità del tutto parziale e controversa, mascherata di solidarietà sentimentale universale. L’ultimo gesto è quello delle corone di stato rifiutate, della cerimonia di lotta all’insegna della difesa di inchieste impazzite, e dell’oltraggio patente a persone e istituzioni che non meritano, come i martiri, trattamenti ampollosi, facinorosi e in una parola barbarici.  

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    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.