La Repubblica del ricatto

Giuliano Ferrara

Il reato di trattativa tra stato e mafia non c’è. C’è la buona fede di chi indaga sul nulla, dice l’ineffabile procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, che invece di coordinare le indagini se ne lava le mani, si affaccia con vasta pubblicistica sul proscenio della vita nazionale da ircocervo metà politico e metà giudiziario (anche lui). Il reato non c’è, anche a detta di chi lo persegue in giudizio, situazione grottesca. Non c’è, ma potrebbe esserci.

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    Il reato di trattativa tra stato e mafia non c’è. C’è la buona fede di chi indaga sul nulla, dice l’ineffabile procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, che invece di coordinare le indagini se ne lava le mani, si affaccia con vasta pubblicistica sul proscenio della vita nazionale da ircocervo metà politico e metà giudiziario (anche lui). Il reato non c’è, anche a detta di chi lo persegue in giudizio, situazione grottesca. Non c’è, ma potrebbe esserci. Ragion per cui si intercettano tutti, anche il presidente della Repubblica. Le telefonate intercettate non ci sono, a norma di legge sono già state virtualmente distrutte, ma potrebbero esserci ed essere pubblicate da un momento all’altro, il collega di Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, ne rivela a mezzo intervista la vitalità processuale, la disponibilità per le parti, l’utilizzabilità del nulla costituzionale per un attentato al funzionamento degli organi costituzionali dello stato (è su questo che deve decidere una Consulta che i manettari giudicano Alto Consesso se ci sia da respingere il lodo Alfano sull’immunità del capo del governo, e band of brothers o associazione degli amici se ci sia da stigmatizzare il comportamento surrettizio della procura di Palermo). In procura il sospetto non c’è, ma la questione del cognato del procuratore capo Francesco Messineo, che si muove a ruota dei suoi sostituti (il sostituto decide al posto del titolare, si fa così nella magistratura italiana), alligna di tanto in tanto nei conversari d’alto bordo forcaiolo e tra le righe di qualche articolo antimafioso. Il ministro Saverio Romano non trescava con la mafia da esterno, e non è una novità l’intenibile esito dei processi per concorso, già sbeffeggiati in Cassazione dal magistrato Francesco Iacoviello, ma intanto l’ex membro dell’esecutivo Berlusconi è stato tenuto sotto gogna per anni.

    La tecnica dell’esserci e non esserci dei reati è stata illustrata da un garantista di sinistra come Giovanni Pellegrino: in ogni sistema giuridico degno di questo nome non si persegue in giudizio a casaccio, sulla scorta di friabili sospetti d’accusa di cui si conosce già in anticipo la fatale debolezza d’impianto al vaglio futuro delle corti. L’antimafia c’è e non c’è, il suo campione assoluto, nel dibattito televisivo condotto da Enrico Mentana su La7, è Claudio Martelli che (dice) l’ha inventata con Enzo Scotti nel nome di Giovanni Falcone, un morto e martire citato a supporto di carriere precocemente interrotte e di rancori immortali di gente vanitosa. Come se Falcone e Gianni De Gennaro non avessero avuto il timbro dello stato nella costruzione del maxiprocesso di Palermo, che andò avanti a colpi di decreto legge firmati tra gli altri da Giulio Andreotti, come se il negoziatore impuro Mario Mori oggi sotto secondo abusivo processo non avesse arrestato Totò Riina nel bel mezzo della “trattativa”, come se Falcone non lavorasse al momento della sua esecuzione mafiosa in un governo con Andreotti e Claudio Vitalone, come se non fosse stato delegittimato dall’antimafia stessa degli Orlando Cascio e dei Michele Santoro. Un altro morto e martire tirato in ballo è Paolo Borsellino, ammazzato dalla mafia il 19 luglio di vent’anni fa, poi riammazzato da un processo farsesco e tutto deviato, poi tirato in ballo nella giostra indecente della strumentalizzazione politica dei parenti-attivisti (si preparano nuove parate per domani), poi aggregato attraverso un suo qualunque fratello al carro di Massimo Ciancimino il pataccaro, soldi e dinamite e calunnie al riparo di una definizione di “icona dell’antimafia” da parte del suo mentore impunito dottore Ingroia. Ora è il turno di Silvio Berlusconi, che dovrà passare a breve le forche caudine del processo del nulla testimoniando a Palermo per la gloria della specifica diffamazione di cui è vittima in quanto stragista e mafioso potenziale e chissà che cos’altro, e testimoniare nelle mani del pm che fece di un calunniatore infedele un’icona, un magistrato che fa politica, lo rivendica e ancora nessuno al Csm ha provveduto a sistemare fuori dal ruolo che ricopre.

    Che cos’è tutto questo? E’ la Repubblica del ricatto. E dell’insinuazione, dei processi mediatici costruiti ad personam, del tentativo di costruire una classe dirigente facinorosa al posto di quella esausta e dolente che ci ha lasciato la crisi della prima Repubblica dei partiti. Se penso a Francesco Saverio Borrelli, che non è la mia tazza di tè ma è pur sempre un borghese che ebbe il coraggio di dire a Tonino Di Pietro la verità, in un raptus di benedicente follia (“Caro Tonino, me lo dicesti tu, ambizioso politico, che a quello lo volevi sfasciare”), se penso a lui, penso che siamo passati da mani incautamente rivoluzionarie al grottesco, dalla ghigliottina alla cloaca dei falsi misteri di Palermo.
     La Repubblica del ricatto nasce da quella che il mio amico Sergio Soave chiama anarchia giustizialista in analogia con l’anarco-insurrezionalismo. E’ il prodotto della mancata riforma della giustizia, nostra responsabilità storica comune. E’ l’effetto di una rapina della sovranità di tipo castale e codino a sfavore del popolo, che la detiene solo formalmente, e a favore di una burocrazia togata irresponsabile nel suo autogoverno. Ma quella mancata riforma è a sua volta il prodotto della rinuncia a un sistema di divisione dei poteri (liberale) fondato sull’immunità ex articolo 68 della Costituzione, un testo voluto consapevolmente dai padri della Patria, e inconsapevolmente gettato alle ortiche dell’opinione pubblica fanatizzata nell’anno delle monetine. Che un comunista in nome di Einaudi abbia chiamato a rapporto l’Italia del ricatto è per me una soddisfazione. L’unica, purtroppo.

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    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.