I falchi della politica estera di Mosca

Luigi De Biase

Ci sono navi da guerra pronte per il Mediterraneo, cargo carichi di armi in viaggio verso la Siria, ministri e messaggeri che volano fra Mosca e Teheran. Dopo mesi di dialogo e di collaborazione con i paesi dell’occidente, la Russia imprime una svolta aggressiva alla propria politica estera. I segnali che arrivano dal Cremlino sono sconfortanti e riguardano i dossier più delicati del momento, dalla bomba iraniana alla crisi nelle province di Damasco.

    Ci sono navi da guerra pronte per il Mediterraneo, cargo carichi di armi in viaggio verso la Siria, ministri e messaggeri che volano fra Mosca e Teheran. Dopo mesi di dialogo e di collaborazione con i paesi dell’occidente, la Russia imprime una svolta aggressiva alla propria politica estera. I segnali che arrivano dal Cremlino sono sconfortanti e riguardano i dossier più delicati del momento, dalla bomba iraniana alla crisi nelle province di Damasco. Sul fronte siriano, la marina russa annuncia di avere un piano per evacuare i suoi cittadini, una strategia che prevede l’invio di due navi da guerra con almeno 150 uomini delle squadre speciali e venticinque mezzi blindati: è una manovra più che zelante, dato che i russi rimasti nel paese sono meno di cinquanta e si tratta di militari – sempre che sia quello il vero obiettivo della missione. Il presidente americano, Barack Obama, ha incontrato Vladimir Putin pochi giorni fa, al G20 di Los Cabos, per discutere un’azione internazionale in grado di fermare gli scontri in Siria. La risposta è stata molle come le strette di mano per le foto ricordo: un generico appello alla fine delle violenze e l’auspicio che la crisi termini secondo le regole della Costituzione. Sembra passata una vita dal tempo del “reset”, la stagione di nuovi rapporti fra Mosca e Washington, ma non si tratta che di pochi mesi.

    Che cos’è cambiato in Russia? Negli ambienti atlantisti dicono che l’unica, vera differenza rispetto all’anno scorso riguarda la guida del Cremlino: Putin ha vinto le elezioni a marzo ed è tornato presidente dopo quattro anni da primo ministro, scambiando le cariche con il suo delfino Dmitri Medvedev. Ha toni molto netti rispetto a Medvedev, tutti sanno che si tratta di atteggiamenti, che la sostanza resta la stessa, ma nel campo della diplomazia questo particolare risulta spesso decisivo. Anche il nuovo governo russo è dominato dal partito dei falchi. Il ministero degli Esteri è nelle mani di Sergei Lavrov, il diplomatico duro e sofisticato che porta avanti le trattative sulla Siria. A lui si rivolgono gli uomini del regime e i rappresentanti dei ribelli, per alcuni il suo ufficio è importante quanto l’aula delle Nazioni Unite. Due settimane fa ha ricevuto il collega britannico, William Hague, e ha trovato un modo poco formale ma molto efficace per spiegargli la situazione: “Il tango si balla in due ma qui c’è una discoteca”, come dire che le pressioni dell’Europa su Mosca sono inutili, la Russia continuerà a muoversi in autonomia, con buona pace per i mugugni londinesi. Accanto a Lavrov hanno posizioni di rilievo tre vicepremier conservatori, l’ideologo Vladislav Surkov, l’ex ambasciatore alla Nato Dmitri Rogozin e Igor Shuvalov, un consigliere vicino a Putin. Lo chiamano governo, in realtà è un gabinetto di guerra. In più, i movimenti della diplomazia arrivano insieme con quelli della Difesa, che porta avanti un programma di riarmo corposo. Il budget 2012 ha già toccato i seicento miliardi di euro e comprende l’acquisto di navi Mistral fabbricate in Francia.

    Per l’analista Evgeni Utkin, nessuno si dovrebbe meravigliare di questo atteggiamento: la Russia non è mai stata così forte dalla fine degli anni Novanta e oggi ha un ruolo dominante su numerosi dossier. Il veto russo all’Onu impedisce all’occidente di prendere decisioni definitive sulla Siria, la forza diplomatica del Cremlino ostacola le azioni unilaterali contro l’Iran, la geografia obbliga Obama a trattare con Putin per trasferire soldati e materiale verso l’Afghanistan: chi si vuole muovere sul fronte lungo e doloroso del medio oriente dovrebbe prima passare da Mosca. Secondo Dmitri Trenin, direttore del Carnegie Moscow Center e opinionista dell’International Herald Tribune, l’obiettivo a lungo termine di Putin è riportare la Russia allo status di superpotenza, sullo stesso piano di Stati Uniti e Cina. Tuttavia, sarebbe sbagliato pensare che la strategia russa sia guidata (soltanto) da un’ideologia: “Putin è super pragmatico, risponde alle singole sfide valutando le opportunità sul campo – dice Trenin al Foglio – Per questo, le mosse dei prossimi mesi non dipenderanno soltanto dall’uomo al Cremlino, ma anche dalle sue controparti, in particolare Washington e Pechino”.

    Il primo test è la settimana prossima, quando Putin sarà in visita in Israele. Al centro dei colloqui c’è il programma atomico dell’Iran e la Russia ha appena ospitato un round dei colloqui senza risultati. “Da Mosca ci aspettiamo responsabilità”, dicono al ministero degli Esteri di Gerusalemme: dopotutto, il pericolo che gli ayatollah arrivino alle armi di distruzione di massa dovrebbe mettere paura anche al Cremlino. Per Trenin e soci la strategia dell’occidente sarà efficace quando si scenderà sul serio a patti con Putin, quando la sua agenda e i suoi metodi saranno accettati: sembra il solo modo possibile per ottenere la collaborazione di tutta la Russia.