Adieu grandeur, tutti a Roma

Michele Masneri

Al vertice di domani con Angela Merkel, Mario Monti e Mariano Rajoy, è difficile che François Hollande voglia replicare lo schema del direttorio franco-tedesco tanto caro al predecessore, Nicolas Sarkozy. Anche volendo, d’altronde, sarebbe difficile farlo, visto che la situazione economica della Francia si è ultimamente deteriorata più di quanto comunemente si pensi, al punto che Parigi è come se si fosse risvegliata da un sogno di grandeur. Da mesi i principali indicatori economici lanciano allarmi che spesso sono passati inosservati, nascosti dalle promesse della campagna elettorale.

    Al vertice di domani con Angela Merkel, Mario Monti e Mariano Rajoy, è difficile che François Hollande voglia replicare lo schema del direttorio franco-tedesco tanto caro al predecessore, Nicolas Sarkozy. Anche volendo, d’altronde, sarebbe difficile farlo, visto che la situazione economica della Francia si è ultimamente deteriorata più di quanto comunemente si pensi, al punto che Parigi è come se si fosse risvegliata da un sogno di grandeur. Da mesi i principali indicatori economici lanciano allarmi che spesso sono passati inosservati, nascosti dalle promesse della campagna elettorale. Lo stesso presidente della Repubblica, Hollande, ha chiesto alla Corte dei Conti un rapporto preciso sullo stato dei conti pubblici prima di lanciare la manovra di correzione finanziaria che dovrebbe riportare il deficit francese sotto controllo. Hollande si è impegnato a ridurre quest’anno il disavanzo al 4,5 per cento del pil rispetto al 5,2 per cento del 2011, mentre per il 2013 l’obiettivo è arrivare al 3 per cento. Eppure questi target – di per sé meno ambiziosi rispetto a quelli italiani, per esempio – paiono sempre meno a portata di mano.

    Gli osservatori sono scettici: si dubita che sia riformabile così velocemente un settore pubblico che pesa per il 55 per cento del pil (contro la media Ocse del 43 per cento), così come riportare il deficit in pareggio in un paese che non l’ha mai realizzato dal 1974, e con un welfare state che pesa per il 31 per cento del pil. E’ notizia delle ultime ore che proprio il tanto sbandierato “audit” della Corte dei Conti è stato fatto slittare dal 28 giugno ai primi di luglio. “Potrebbe essere presentato tra il 2 e il 4 luglio”, conferma un portavoce della Corte. Un ritardo grazie al quale Hollande non potrà presentare (come era invece previsto) le misure di aggiustamento ai partner europei per il vertice di Bruxelles del 28 e 29 giugno. Questo perché probabilmente dal tribunale contabile non ci si aspetta nulla di buono: già negli ultimi mesi la Cour des Comptes ha bocciato i programmi del nuovo esecutivo, che programma un piano di aumento dei salari minimi, ritorno all’età pensionabile di 60 anni per alcune fasce di lavoratori, posti di lavoro sovvenzionati. A maggio, alla presentazione del rendiconto 2011, il primo presidente della Corte Didier Migaud ha dichiarato che “l’annata 2011 ha registrato un netto assottigliamento della traiettoria di miglioramento della qualità dei conti”. “Stesso giudizio sulla previdenza”, ha detto il magistrato aggiungendo che “se questo rallentamento dovesse proseguire nel 2012, la Corte potrebbe avanzare ulteriori riserve e perfino non certificare il bilancio dello stato”.

    A preoccupare è soprattutto la spesa per la pubblica amministrazione: i costi del personale sono saliti dello 0,48 per cento nel 2011 a quota 117,7 miliardi, nonostante la politica dell’“uno su due” applicata da Sarkozy (cioè dimezzamento delle sostituzioni per i pensionamenti nella pubblica amministrazione, che ha portato a 32 mila esuberi). Per quanto riguarda la spesa pensionistica, sempre la Corte rileva come la spesa sia “cresciuta di 1,8 miliardi e comporterà a breve un aumento dei costi per lo stato”. Tutti elementi che rendono il paese “assolutamente non in grado di rispettare gli obiettivi di riduzione del deficit nel 2013”.

    Ma non c’è solo la Corte dei Conti: un warning più pesante arriva dall’Ispettorato Generale delle Finanze che il 4 giugno ha rilasciato un rapporto di 122 pagine in cui chiede che vengano effettuati tagli per 56 miliardi di euro di qui al 2016. Ciò significa dover effettuare riduzioni per 5,3 miliardi di euro l’anno sulla spesa dello stato, che ammonta a 365 miliardi. L’Igf raccomanda nello specifico un taglio dell’1,5 per cento annuo dei dipendenti pubblici (28 mila all’anno), con 900 milioni di economie da realizzare; blocco degli avanzamenti di carriera (1,2 miliardi di risparmi); congelamento della scala mobile per gli stipendi pubblici; congelamento degli investimenti militari (9,3 miliardi di minori spese).

    “Fondare un ritorno all’equilibrio dei conti pubblici solo sull’aumento delle entrate renderebbe la Francia un unicum e sarebbe in contraddizione con gli sforzi miranti a migliorare la competitività della nostra economia e il potere d’acquisto delle famiglie”, conclude il rapporto. Un quadro che poco si presta alle misure annunciate da Hollande. Il presidente ha promesso anche un aumento delle imposte (con l’aliquota monstre al 75 per cento sui super ricchi per la parte superiore al milione di euro) e un rallentamento dei tagli alla spesa (che dallo 0,48 per cento attuale dovrebbe risalire all’1,1 per cento annuo). Anche il piano sul salario minimo nazionale, che dovrebbe essere presentato il 26 dal ministro del Lavoro, Michel Sapin, ha forti controindicazioni. Come spiega al Foglio l’economista Emmanuel Martin dell’Atlas Economic Research Foundation, “per ogni punto percentuale in più del salario minimo, attualmente fissato a 1.398 euro mensili, corrisponderebbe una distruzione dell’1,5 per cento dei posti di lavoro, nell’ordine dei 20-25 mila posti, colpendo soprattutto le piccole imprese che occupano il 24 per cento di lavoratori con salario minimo, contro le grandi che ne occupano solo il 4,5 per cento”. Per ogni punto percentuale in più, stima Martin, si avrebbero così maggiori spese in cassa integrazione di 800 milioni di euro per lo stato.

    Tutto questo mentre le imprese francesi sono alle prese con una crisi senza precedenti. Ieri il rapporto annuale Ernst & Young sull’attrattività dei paesi europei certificava che la Francia ha perso (dato storico) il posto di numero 2 in Europa per gli investimenti esteri, sorpassata dalla Germania. Nel 2011, dice la società di consulenza, Parigi ha visto realizzati 540 progetti (meno 4 per cento annuo) contro i 597 di Berlino (più 7 per cento), mentre la Gran Bretagna rimane saldamente al primo posto. Un confronto che alimenterà le polemiche dei giorni scorsi tra una Francia che punta ad alzare le tasse e il Regno Unito che intende ridurre le aliquote. Intanto in Francia la parola “declinisme” campeggia negli articoli dei giornali.

    Altro fronte di allarme, quello degli investimenti: da due mesi, secondo un rapporto pubblicato lunedì dal centro di ricerca Rexecode, la tesoreria delle imprese si è fortemente contratta (meno 6,3 per cento anno su anno), con ritardi sui pagamenti. Anche il morale è in calo: secondo il rapporto mensile dell’istituto di statistica Insee, l’indice di fiducia degli imprenditori è sceso a giugno a 93 punti, sotto le previsioni degli analisti. E l’ultimo rapporto trimestrale della Confédération générale des petites et moyennes entreprises (Cgpme) e di Kpmg mostra dati negativi. L’82 per cento dei datori di lavoro con imprese tra i 10 e i 500 addetti si dice preoccupato della situazione economica in Francia.
    Anche il credit crunch si fa sentire: secondo lo stesso dossier, il 73 per cento degli imprenditori francesi ritiene che le condizioni di accesso al credito siano peggiorate, contro il 68 per cento del trimestre precedente. “La Francia è uno dei paesi in cui i margini delle imprese si sono deteriorati più consistentemente”, ha detto al Monde Denis Ferrand, direttore generale del centro studi Rexecode. “In dieci anni il margine è sceso di 4 punti, mentre è cresciuto di 10 in Germania”. Di fronte a un aumento del costo del lavoro e al declino dell’euro, le imprese francesi non hanno potuto trasferire questi maggiori costi sui prezzi finali. “Chi ha potuto, per non perdere quote di mercato ha dovuto ridurre i margini”, dice sempre Ferrand. “I tedeschi sono riusciti ad alzare i prezzi, ma è più facile farlo quando si producono Bmw invece che Renault Clio”.

    Per combattere questo scenario industriale declinista è stato coniato dall’Esecutivo un ministero nuovo di zecca, quello per il “Redressement productif”, cioè la riconversione industriale, sotto l’egida del ministero delle Finanze di Bercy, che è stato affidato ad Arnaud Montebourg, ex portavoce di Ségolène Royal e terzo classificato nelle primarie socialiste del 2011. Montebourg ricopre però un ruolo effimero, quasi onorifico, non avendo grande possibilità di movimento. Non giovano inoltre le sue posizioni anti globalizzazione: in diversi saggi tra cui “Votez pour la demondialisation”, del 2011, Montebourg teorizza un ritorno al protezionismo, ai dazi doganali, oltre a una messa sotto tutela delle banche per “riprendersi la sovranità economica repubblicana”.

    Ieri intanto sono arrivati i dati dell’Insee, l’Istat francese, secondo cui “la crisi è stata più profonda di quanto non si sia ancora apprezzato”, poiché la Francia “non ha cominciato a riguadagnare posizioni perdute durante la recessione del 2009. Oggi l’economia nazionale ritrova soltanto il livello di attività del 2008, con un manifatturiero che peraltro ha perso il 5 per cento del suo volume anche rispetto al livello di prima della crisi”. Dal 2009, dicono le statistiche, la crisi ha risucchiato 140 miliardi di euro l’anno. Sono stati anche rivisti al ribasso i dati sul pil del 2009, con un tonfo del 3,1 per cento invece che il 2,7 per cento precedentemente affermato. Con questo scenario, applicare le ricette di Hollande pare molto difficile.

    A parte il salario minimo, continuano ad arrivare iniziative che lasciano perplessi gli investitori internazionali. L’ultima, che verrà presentata il 3 luglio, prevede una tassa del 3 per cento sui dividendi delle imprese, che dovrebbe portare un gettito da 800 milioni di euro, e stimolare il reinvestimento degli utili. Ma le imprese già stanno protestando. Sul fronte dei conti pubblici una protesta più clamorosa si è avuta poi il 13 giugno: l’economista Christian Saint-Etienne si è infatti dimesso dal Consiglio di analisi economica (Cae) vicino alla presidenza del Consiglio, dichiarando che le posizioni del nuovo governo, e in particolare quelle sull’abbassamento dell’età pensionabile, sono in contrasto con tutte le raccomandazioni della Corte dei Conti, dell’Ispettorato generale delle finanze, dell’Unione europea, del Fmi e dell’Ocse.