Furto di un teatro, bene comune

Marianna Rizzini

Giuseppe Gioacchino Belli ci andava spesso, al Teatro Valle, attorno al 1830, quando il Valle, costruito un secolo prima dal conte Camillo Capranica, era sala per tragedie, commedie, operette e intermezzo. E chissà quante tragedie e commedie e intermezzi ha visto, il Valle, prima di assistere alla “Festa per la lotta per i beni comuni” in scena da ieri e per i prossimi venti giorni con la benedizione di Stefano Rodotà e Salvatore Settis, applauditissimi in un pomeriggio sonnacchioso.

    “Otto teatri fanno in sta staggione / de carnovale, si mme s’aricorda / Fani, Ornano, Er Naufraggio, Pallaccorda / Pasce, Valle, Argentina e Tordinone”. Giuseppe Gioacchino Belli ci andava spesso, al Teatro Valle, attorno al 1830, quando il Valle, costruito un secolo prima dal conte Camillo Capranica, era sala per tragedie, commedie, operette e intermezzo. E chissà quante tragedie e commedie e intermezzi ha visto, il Valle, prima di assistere alla “Festa per la lotta per i beni comuni” in scena da ieri e per i prossimi venti giorni con la benedizione di Stefano Rodotà e Salvatore Settis, applauditissimi in un pomeriggio sonnacchioso (alcuni occupanti, per  non sonnecchiare, escono a prendere il caffè, e una ragazza, vedendo al bar Fabrizio Gifuni e Rocco Papaleo, mattatori previsti per la serata, anticipa la festa chiedendo, già alle quattro e mezza, “un bel vinello bianco”).
    C’è la lotta per i beni comuni e tutto si tiene, secondo Rodotà, dal libero accesso al web (cosa condivisibile) all’acqua (cosa condivisa da molti cittadini al referendum) al Valle (ma siamo sicuri che acqua e Teatro Valle siano proprio la stessa cosa?). “Proviamo a far cadere Gianni Alemanno sul bilancio”, dice un occupante, nemesi crudele per un sindaco che, forse per non fare la figura dello sgomberatore alla Zuccotti Park, li aveva persino coccolati, gli occupanti. Si aspetta la serata di musica, al Valle, nel giorno del primo compleanno dell’occupazione, e Rodotà e Settis, eleganti in platea, danno la patente di cosa buona a quello che pare un buon centro sociale innestato nel posto sbagliato.

    (L’occupante dice: “Usiamo questo bel teatro come spazio aperto per discutere di beni comuni”, ma allora perché non a casa mia o a casa tua, viene da pensare, invece che nel bel teatro che sarebbe bello utilizzare ancora come teatro, più che come spazio “dibbbattito” con bollette pagate dal comune). Si andava a vedere Carmelo Bene, al Valle, ma oggi la rupture teatrale, a sentire gli occupanti, passa per venti giorni di assemblea, spettacoli e aperitivo non necessariamente in quest’ordine, venti giorni come fosse festa degli antichi romani, ma per conto di un’occupazione che dei romani – quelli che non occupano – si interessa sì e no.
    Tutto nacque, come sempre, con le migliori intenzioni, ridiamo ai cittadini ciò che è dei cittadini, disse il collettivo, convinti che dietro le quinte fossero già pronti imprenditori del salame decisi a sfrattare la cultura con l’aiuto di Luca Barbareschi e addirittura dell’insospettabile Alessandro Baricco, leggenda metropolitana poi sfaldatasi al primo sole del luglio 2011, quando il comune di Roma, dopo mesi di inattività sull’argomento, si decise a dire “a me il Valle” con un protocollo poi rimasto appeso all’inerzia del comune stesso nonché all’occupazione infinita. In realtà, dicono oggi i muri del Campidoglio, il Valle, prima gestito dal defunto Eti, e poi (per volere dell’ex assessore Umberto Croppi) dal Mibac in vista del passaggio al Comune, si trova ancora a mezz’asta: né del comune né del Mibac, con Gianni Alemanno e l’assessore Dino Gasperini che, oltre a pagare le bollette, scrivono lettere a Repubblica (Alemanno nell’ottobre scorso proponeva un “patto per salvare il Valle”: il teatro deve restare pubblico, con gestione a una Fondazione partecipata da soggetti pubblici ed eventualmente privati dietro gara pubblica, e con garanzia “agli occupanti” di un ruolo “nella governance”). Solo che gli occupanti non ne vogliono sapere, del Comune, ché, ormai, il teatro Valle, preso per usucapione, stanchezza e inazione altrui è diventato “bene comune”, non pubblico e non privato ma collettivamente partecipato secondo l’insegnamento del professor Ugo Mattei, giurista a Torino e opinionista nelle trasmissioni di Sabina Guzzanti. E però il rischio c’è, che dietro l’idea di bene comune svanisca l’intero bene pubblico (della città e di quelli che la stagione del Valle, antico teatro, l’aspettavano e l’aspettano).

    Tanto che qualche mese fa anche l’Unità, in un articolo a firma Luca Del Fra, nutrendo qualche dubbio, riportò i pareri dei critici delusi (“molti meriti vanno a questa occupazione ma finora non è accaduto nulla di teatralmente rilevante”, diceva Attilio Scarpellini) e di qualche teatrante giovane (forse, diceva Daniele Timpano, “l’occupazione mediatica del Valle” illumina “uno spazio dove non c’è proprio un cazzo di interessante, con centri di drammaturgia senza drammaturghi” e “utopie democratiche senza democrazie”). E veniva un po’ di ansia a leggere la bozza di statuto vergata dal collettivo di dormienti in loco con brandina. Statuto emendabile via Web, dicevano, non emendando tuttavia la pomposità vetero e il disegno di autogoverno in cui gli autodenominati “comunardi” avrebbero sperimentato la guida a rotazione sotto un consiglio di “garanti” con poteri “ispettivi” sull’osservanza del “codice politico”. (Che sia una “privatizzazione mascherata?”, si chiedeva l’Unità).

    Ma oggi è un altro giorno. Oggi, in nome del “bene comune”, altri artisti accorreranno, convinti di fare il bene di tutti se non il proprio, anche se poi, come in tutte le cose, c’è sempre quello che sgomita a scapito degli altri (ma non si può dire a utopia in corso). Oggi, sul sito del Valle Occupato, si legge che bisognerà consultare “oroscopi, sfingi e maya”, visto che sta per accadere “l’inimmagginabile” (con due g – magari è un refuso, magari bisogna ripassare tutti la grammatica come chiede il ministro inglese dell’Istruzione Michael Gove). Oggi la “privatizzazione” militante si autocelebra per “difendersi dalla mercificazione della vita”, mentre il comune ci pensa su, tanto defilato quanto prima disponibile con quegli occupanti baciati dalla primavera dei referendum e dall’appoggio inizialmente entusiasta (poi chissà) di molti artisti – tra gli altri Jovanotti, Emma Dante, Moni Ovadia, Andrea Camilleri, Silvio Orlando e Toni Servillo, questi ultimi due pare più tiepidi via via. “Non ho la sindrome dello stare solo, più siamo a lavorarci meglio è”, diceva Gasperini, rassicurando di non avere propositi da law and order. Eppure c’era una via di mezzo: occuparsene (occuparsene come fosse un bene pubblico – non “comune” – e magari a livello di eletti e non di autonominati).
    Tutto è nato in un’altra epoca storica, sì: c’era ancora Silvio Berlusconi e la polemica per i tagli al Fus e persino l’occhio benevolo di Luca Cordero di Montezemolo che in un giorno di giugno, al Teatro Argentina, disse che gli occupanti del Valle erano “molto agitati” ma che lui li “capiva”, e mai avrebbe augurato al “peggior nemico” una vita “da precario”. Tutto è nato in un’altra epoca storica ma oggi viene da pensare a quando il Valle era il Valle, nel bene e nel male,  teatro per tutti e non solo per la nicchia di amici solidali, per tutti e anche per pensionati e abbonati e bambini recalcitranti portati in sala troppo piccoli da genitori troppo esperti che a fine anni Settanta andavano a vedere drammi sperimentali (ma era pur sempre un evento, la serata al Valle, con cena tardiva e attore spaventevole con gli occhi bistrati).

    “Manicomio, manicomio”, urlarono gli spettatori il 9 maggio del 1921, alla prima rappresentazione dei “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello, opera troppo straniante per quei palchi pur avvezzi a capricci di diva (Eleonora Duse) e satira d’avanguardia (Edoardo Scarpetta). “Manicomio, manicomio”, si pensa oggi nel Valle tenuto in ostaggio come “bene comune” dall’assemblea permanente di volenterosi privatizzatori militanti (l’anno scorso c’era anche un bimbo in carrozzina: i genitori a turno leggevano un foglietto con la dichiarazione collettiva per la stampa). Elio Germano dice che “l’utopia è diventata realtà”, ma, racconta un ex occupante, l’utopia da subito mostrava le sue crepe: alla fine, e per forza, poi decidono in pochi, alla fine in pochi raggiungono qualche eccesso di dispotismo veniale sui turni di pulizia. L’utopia è diventata realtà, secondo Germano, eppure il Corriere della Sera, a firma Paolo Fallai, dice che “gli occupanti del Valle sono bravi e simpatici, ma rimangono una minoranza che si è arrogata il diritto di occupare un bene pubblico”. Repubblica invece gioisce: “Chi l’avrebbe detto, un anno fa, che l’esperienza del teatro Valle Occupato avrebbe scandito un processo così unico, così esemplare, così condiviso, così civile, così artistico, così mediatico, così inattaccabile, così propositivo, così clamoroso a livello italiano ed europeo?”, scrive Rodolfo Di Giammarco. Manca solo il “così sia”.

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.