Deboli con i forti, caduta di stile

Giuliano Ferrara

Repubblica gioca al gatto con il topo. Il topo è il governo Monti. L’ultima provocazione, insidiosa e salace come sempre quando si tratti di applicare collaudati criteri di potere mediatico alla fragile impalcaura della democrazia italiana, era evidente a tutti. Per una squadra di tecnici del giornale-partito come Repubblica non basta far ballare Monti e il suo esecutivo inanellando una collana di titoli e commenti intorno ai fatti, bisogna creare il fatto come evento politico e amministrativo nudo, entrare nel governo, perquisirne i recessi operativi.

Leggi Geometrica potenza del partito Repubblica di Alessandro Giuli

    Repubblica gioca al gatto con il topo. Il topo è il governo Monti. L’ultima provocazione, insidiosa e salace come sempre quando si tratti di applicare collaudati criteri di potere mediatico alla fragile impalcaura della democrazia italiana, era evidente a tutti. Per una squadra di tecnici del giornale-partito come Repubblica non basta far ballare Monti e il suo esecutivo inanellando una collana di titoli e commenti intorno ai fatti, bisogna creare il fatto come evento politico e amministrativo nudo, entrare nel governo, perquisirne i recessi operativi, indagarne i riflessi mentali e morali, inquisirne la credibilità distribuendo torti e ragioni dentro una compagine che da un momento all’altro potrebbe essere facilmente trasformata in “cricca”, e scompaginarlo in alcuni dei suoi cardini, fare del lobbismo travestito da antilobbismo. E’ una specialità culinaria conosciuta, nessuno come Scalfari sa gli ingredienti della pietanza, e la cottura del presidente del Consiglio è stata direi perfetta. Ma con il suo diretto contributo, una lettera per lodare un “bell’editoriale” e incartarsi in una serie di giustificazioni, precisazioni, rettifiche, ammissioni, mezzi riconoscimenti che sapeva di ipocrisia e ha rappresentato una rara, e per questo più clamorosa, caduta di stile. Con scarso rispetto della funzione ricoperta, e una certa stanchezza psicologica.

    Il “bell’editoriale” sosteneva che alcuni dei principali collaboratori del capo dell’esecutivo e ministro del Tesoro, dal suo sottosegretario Antonio Catricalà al suo capo di Gabinetto Vincenzo Fortunato, fino al Ragioniere generale dello stato Mario Canzio, sono più o meno dei poco di buono. Criccaroli dello stigma lettiano (nel senso di Gianni Letta), avanzi di portata della grande abbuffata del berlusconismo. A Scalfari e a Repubblica fa orrore una lettura anche solo istituzionalmente continuista della successione Berlusconi-Monti. Il partito della zizzania lo hanno organizzato sulla falsariga di questa sindrome nevrotica, il rigetto di qualunque elemento di normalità politica e civile nel ricambio, che deve sempre essere di regime, deve sempre prevedere uno smisurato ribaltone e forse, potendo, appetendo, verificando, prima o poi, anche una qualche riedizione di Piazzale Loreto. Guai a chi si mette su quella strada e ostacola il cammino, magari perché fu nominato Commissario europeo da Berlusconi, magari perché è ideologicamente un “terzista” e si è sempre tenuto fuori dagli aspetti grotteschi della rissa sul Cav. preferendo fare un proprio discorso di metodo e di linea, magari perché Canzio Fortunato e Catricalà sanno fare tutto sommato il loro mestiere, potendo sbagliare come tutti, e non sono appestati.

    Nella sua risposta Monti, che si appresta a celebrare per vanità una intervista in piazza nella “Repubblica delle idee” giuste, punendo così il Corriere che lo ha incalzato a pezzi e bocconi con alcuni sgraditi articoli di Giavazzi e Alesina, più le intemerate di stampo liberale di Ostellino, subisce il paradigma del censore. Scalfari, è vero, ha una bella barba, un’età veneranda, prestigio presso una parte di italiani, e in generale il personaggio vale talvolta una risposta, anche perché i governi hanno il dovere di rendere conto del loro operato e di tenersi da conto il giudizio dei media, che in parte è anche il riflesso di una sensibilità di opinione in sé rispettabile.

    Però il testo firmato dal presidente del Consiglio, in risposta ad accuse solforose, non argomentate se non con insinuazioni e sillogismi sghembi, sa di paura, di remissività, di subalternità. Per quanto riguarda certe tecniche di allusività note da anni nella prosa del Fondatore bisognava dignitosamente mettere un fermo. Questa storia che lui, Monti, quelli lì li ha presi quasi per caso, li rabbuffa quando sia necessario, aspettandosi una lealtà che è un diritto e riservandosi di licenziarli alla bisogna, è un modo come un altro per mettersi, e chiedo scusa per la grossolanità dell’espressione, nella posizione della vacca alla monta del toro. Monti ha esordito, in una condizione di democrazia negata, con un notevole stile personale e di squadra. Ha cominciato fottendosene senza jattanza, ma anche senza alcuna falsa modestia, delle reazioni ideologiche e moralistiche al suo operato, è stato addirittura felicemente provocatorio, e pedagogico, nel proclamare che non stava lì a far vendette per conto terzi, che voleva “salvare l’Italia” nella crisi determinata da vecchi vizi delle classi dirigenti e del popolo tutto incompatibili ormai con l’assetto dei mercati mondiali e con la situazione strategica europea determinata dall’esistenza di una moneta unica e di un mercato unico. Questo Monti, nonostante obiezioni di principio forti all’operazione non democratica, ci è ovviamente piaciuto e ce lo siamo tenuti da conto. Quest’altro no.

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    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.