Bossi, la solitudine di un italiano

Giuliano Ferrara

Bossi è psicologicamente distrutto, umanamente afflitto. Naturale che sia così. Gli è saltato tutto a partire dagli affetti. Prima la malattia. Poi la rovina politica culminata nella sconfitta del governo con Berlusconi nel novembre scorso. Infine lo smantellamento della sua famiglia e la dannazione del suo nome ormai legato a storie popolane al limite dell’incredibile in cui si parla in modo documentato e inoppugnabile di tesorieri e uomini dell’inner circle capaci di ogni malversazione; per di più, tutto testimonia di un familismo amorale, tra paghette dei figli, false lauree comprate e sprechi di denaro pubblico affidato per legge alla Lega e gestito come in una satrapia senza regole e certificazioni.

    Bossi è psicologicamente distrutto, umanamente afflitto. Naturale che sia così. Gli è saltato tutto a partire dagli affetti. Prima la malattia. Poi la rovina politica culminata nella sconfitta del governo con Berlusconi nel novembre scorso. Infine lo smantellamento della sua famiglia e la dannazione del suo nome ormai legato a storie popolane al limite dell’incredibile in cui si parla in modo documentato e inoppugnabile di tesorieri e uomini dell’inner circle capaci di ogni malversazione; per di più, tutto testimonia di un familismo amorale, tra paghette dei figli, false lauree comprate e sprechi di denaro pubblico affidato per legge alla Lega e gestito come in una satrapia senza regole e certificazioni. Un disastro colossale che eccede gli scandali ordinari perché colpisce l’unico vero tesoro di Bossi, il suo rapporto di fiducia carismatica senza riserve con un popolo da lui stesso creato in nome di criteri che sono l’esatto opposto di comportamenti adottati per la stravagante manutenzione del capo assoluto e dei suoi familiari. Oggi Bossi è il ritratto di una solitudine senza scampo e della fine di ogni futuro.

    Ma Bossi non è questo. Non è la trivialità della situazione in cui è caduto. Chiunque abbia interesse per la politica, per il senso della storia e per un civismo non inquinato dalla banalità dei dettagli, per quanto scabrosi e ridicoli, perfino grotteschi, lo sa o lo dovrebbe sapere. Bossi è a suo modo un italiano grande, se non un grande italiano. Il suo lascito vero e durevole è fatto di idee, di passioni, di follie popolane e di espansioni dell’ego, nell’identificazione di un leader e di un popolo e di una nuova geografia della realtà nazionale. Bossi ha qualcosa di garibaldino, e faceva le cose alla garibaldina. Nessuno può togliergli il profondo significato di una storia politica e sociale intensa, emotivamente divisiva, politicamente composta di un dare e di un avere che vale per tutti, per i suoi seguaci tribali e per i suoi avversari, almeno per quelli disposti a riconoscersi con lealtà parte di un panorama italiano come esso effettivamente è dopo la scoperta del Nord, letteralmente un punto cardinale della nostra immagine e mappa di noi stessi.

    Di Aldo Moro dopo l’assassinio si seppe che trafficava con Sereno Freato, secondo i vecchi metodi poi messi in evidenza dalle inchieste sulla corruzione politica. Ma Moro fu creatore di chimica politica e di storia nazionale, e fu estensore di lettere straordinarie in fin di vita e sotto processo del popolo, una letteratura (in mostra negli originali a Roma, Sant’Ivo alla Sapienza) che corrisponde all’immagine di un intellettuale meridionale e di un cattolico fedele a un suo progetto che fu fatale, anche nel bene, al paese uscito dalla guerra e incamminato sulla via della modernizzazione di centro sinistra. Un altro italiano grande.

    Bossi dovrebbe ritirarsi senza non si dice amarezza, questo è impossibile, e nemmeno senza sentire il violento dolore che la lotta politica propina a piene mani a chiunque ne sia vero protagonista, ma nella sicurezza di aver fatto dei suoi errori grossolani, del suo statuto di capo tribù, della sua vita personale così speciale e non protocollare, con tutti i vizi inerenti, uno strumento di autoriconoscimento e di emancipazione per idee e persone che hanno avuto un ruolo decisivo nel riscrivere il profilo dell’Italia di oggi. Il capo sconfitto non deve preoccuparsi dei ruffiani che gli voltano le spalle, del giudizio censorio della gente perbenista che è sempre a caccia di predoni da impacchettare e incarcerare, e non vede le cose perché vede e considera solo la parte moralistica del proprio giudizio sulle cose. Deve perdonare tutti e tutto, sapere che “guai ai vinti” è una verità proverbiale e solo i veri vincitori che soccombono ne fanno esperienza. C’è una dimensione umana da recuperare, una solitudine felice da coltivare oltre le apparenze, una spes contra spem da incontrare, una situazione di silenzio e di sguardo oltre l’orizzonte umanamente compatibile con la vecchiaia e la malattia, con gli affanni e le circostanze. Anche chi ha difeso il nucleo del maggioritario, delle riforme reali introdotte da Bossi insieme o contro Berlusconi nel linguaggio e nei modi della politica mandarina e del giornalismo straccione che si danno la mano, deve sentire in questo momento l’impulso di abbracciare Umberto Bossi e perdonare, perché non sa quello che fa, chi gli sputa addosso.

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.