Ve lo meritate Beppe Grillo

Guido Vitiello

Breve cronaca di un finimondo. Quando nei talk-show, sui giornali e nelle aule parlamentari la retorica dell’o di qua o di là, del noi e del loro, della destra e della manca, delle formiche rosse e delle formiche nere cominciò a suonare come un irritante e vuoto cicaleccio, nell’aria si addensarono i presagi del diluvio imminente. I nocchieri politici più stolti non si accorsero di nulla, non abbandonarono gli antichi vizi, si accanirono nella guerra per bande, famiglie o contrade: di lì a poco, i denti ancora digrignati, li avrebbe spazzati via il nubifragio.

Guarda la puntata di "Qui Radio Londra" Il lecchinaggio di Grillo è destinato a finire male - Leggi Qualche dubbio di un parmigiano doc sul Movimento cinque stelle di Paolo Nori

    Breve cronaca di un finimondo. Quando nei talk-show, sui giornali e nelle aule parlamentari la retorica dell’o di qua o di là, del noi e del loro, della destra e della manca, delle formiche rosse e delle formiche nere cominciò a suonare come un irritante e vuoto cicaleccio, nell’aria si addensarono i presagi del diluvio imminente. I nocchieri politici più stolti non si accorsero di nulla, non abbandonarono gli antichi vizi, si accanirono nella guerra per bande, famiglie o contrade: di lì a poco, i denti ancora digrignati, li avrebbe spazzati via il nubifragio. I più lungimiranti s’ingegnarono per mettersi in salvo su arche, scialuppe di fortuna o grandi creature dei mari. Ce n’erano di robuste e ben sperimentate, ed è a queste che puntarono i più prudenti, gli inaffondabili democristiani, persuasi in cuor loro che per la Balena bianca, come per la chiesa di Roma, valga il mistero del “non praevalebunt”, che i flutti della storia e gli arrembaggi dei bracconieri non possano nulla contro quella pacifica bestia marina: presero a salmodiare le formule di rito – responsabilità, unità nazionale, centro, mediazione, serietà – e si affidarono alla Provvidenza. I più temerari, o anche solo i più disperati, si gettarono invece su una zattera basculante e malcerta. Né di qua né di là, proclamarono, piuttosto al di là, in tutti i sensi possibili. Nasceva la spettrale retorica dell’Oltre.

    Tra le molte tragicomiche campagne di manifesti del Pd, a ben pensarci, nessuna sopravanza quella che tappezzò le nostre città nell’inverno del 2011. C’era Pier Luigi Bersani, ritratto in un bianco e nero ossianico, sepolcrale, il cranio bene in vista come in un dipinto di Vanitas, la camicia indossata come una sindone, e una serie di slogan anch’essi postumi, impressi sotto un grande “Oltre” in verde pallido, scialbo, diciamo pure verde decomposizione: “Oltre le divisioni c’è l’Italia unita; oltre l’egoismo c’è una mano tesa; oltre il disprezzo delle regole c’è la Costituzione”.

    (Sottinteso: io, che sono già morto, posso dirvelo con certezza, e suggerirvi anche un ambo secco su tutte le ruote). La campagna, com’era facile prevedere, più che stornare il nubifragio popolare ne affrettò la venuta. Ma qualcuno, su quella stessa retorica dell’Oltre, del sopra e del dopo, che non si abbassa alle schermaglie e alla gazzarra dei litiganti, ha saputo negli anni costruire una fortuna, di cui riscuote oggi i dividendi. E’ il proverbiale terzo che gode. La sua finzione è semplice da riassumere e, in tempi di diluvio imminente, bisogna riconoscere che non manca di genio: la catastrofe in realtà è già avvenuta, assicura questo qualcuno, e io mi trovo alla guida dell’unico drappello di superstiti in un mondo di morti. Questo qualcuno è Beppe Grillo, capocomico. Tutto o quasi si è detto del suo linguaggio e delle sue metafore, del suo turpiloquio da fase anale, dei suoi “pazzesco” e dei suoi “vaffa”, dei nomignoli degradanti o fumettistici, delle irriverenze furbesche, delle gaglioffaggini, della scorrettezza politica come vuoto esercizio di stile.

    Si sono evocati, diligentemente, i precedenti di Coluche e del povero Giannini, gli omologhi contemporanei come Michael Moore o il pagliaccio brasiliano Tiririca, e sullo stile di comunicazione del blog di Grillo – capace di combinare qualunquismi e leghismi, gerghi antimoderni e ultramoderni, sinistra anarcoide e destra arrabbiata, schiumanti desideri di forca e delicate nostalgie di orticelli ecosostenibili – fioriscono già da anni le analisi e le tesi di laurea. E però nessuno ancora, a nostra conoscenza, ha messo sotto la lente una delle fonti più ricorrenti del discorso di Grillo, che fornisce il canovaccio a molte delle sue invettive: la fantascienza post apocalittica, quella che racconta le avventure di superstiti a devastazioni naturali, guerre nucleari, pandemie sterminatrici. Si prenda ad esempio questo proclama settario del profeta in polo nera alla “Woodstock 5 stelle” del settembre 2010: “Siamo vivi, vivi! Siamo usciti dalle catacombe. Siamo sopra e oltre. Sopra al nulla della politica, oltre questa civiltà basata sul denaro e sul consumismo. Sopra e oltre. Io ci credo, voi ci credete. La rete ci ha unito. Possiamo cambiare la società, il mondo solo se lo vogliamo. Cosa abbiamo da perdere?”. E ancora: “Siamo vivi, non fatevi contaminare dai morti”. Io sono vivo, voi siete morti, diceva il Philip K. Dick di “Ubik”. Grillo sembra piuttosto volersi presentare come una versione ridanciana di Robert Neville, il protagonista della saga fantascientifica-horror “Io sono leggenda”, nata negli anni Cinquanta da un romanzo di Richard Matheson e rilanciata in anni recenti da un film con Will Smith. C’è stata una catastrofe, e poi un’epidemia che ha lasciato la terra popolata da zombie e vampiri. Neville è persuaso di essere l’unico sopravvissuto, nel suo laboratorio sotterraneo cerca una cura al contagio, poi però rintraccia una colonia di vivi immuni dal virus e grazie a loro riesce a rifare daccapo un mondo spacciato. Ecco, peschiamo a caso dal blog di Grillo: “Noi siamo vivi in un paese di morti, di vecchi che occupano ogni spazio e si credono eterni, che si nutrono di potere e si sono fottuti la vita (…). I partiti sono morti, zombie che camminano, strutture del passato, costruzioni artificiali”. Sul governo tecnico: “I politici sono stati seppelliti alla veloce e sostituiti dall’esorcista Mario Monti. Puzzavano per la decomposizione. Il lavoro dei becchini era urgente e necessario. Il loro fetore non era più sopportabile”. Sui vecchi politici: “I giornalisti nel ruolo consueto di medium li hanno riportati in vita. Zombie in poltrona ci spiegano come uscire dalla crisi, i sacrifici che ci attendono, una nuova visione dell’economia. Loro, i responsabili del disastro. Nessuno che chieda scusa e ritorni nella tomba. Perché evocare i morti e non invitare i vivi? (…) Ma il loro tempo è finito. I vivi e i morti non possono dividere la stessa casa. I morti non hanno, per definizione, un futuro”. Sul nucleare: “Siamo in guerra. Da una parte ci sono i morti, dall’altra i vivi (…). Il nucleare lo vuole l’Italia dei morti (…). L’Italia dei vivi ha detto NO”. Potremmo allineare qualche altra dozzina di proclami dello stesso tenore. Oppure leggiamo alcuni titoli dei suoi post: “Berlusconi, zombie che parla”; “L’italozombie”; “I vampiri della Repubblica”; “Gli zombie della Tav”; “Cimitero vivente”; “La televisione dei morti viventi”. Certo, tutto è messo in ischerzo, sono battute di un comico, non vanno prese troppo in parola; ma forse neppure nelle riviste delle SS c’era una tale ossessione necrofila. Tra post e commenti, la parola zombie compare più di milletrecento volte, vampiri settecento, neppure fosse un blog di cultori del gotico o dell’horror. E’ un continuo parlare di carogne, putrefazioni, cimiteri, mattanze purificatrici.

    Ora, questa retorica dell’Oltre, dei militanti vivi e puri che fremono di vita in un paesaggio di cadaveri, si presta ad alcune considerazioni. La prima, più banale, ha a che fare con le piccinerie e le astuzie del propagandista: nel proclamare politicamente defunti i propri avversari, si ha un bell’alibi per sottrarsi a ogni confronto, per tenere i propri monologhi in uno scenario post apocalittico senza l’eco umana del contraddittorio. E così, davanti a chi gli pone obiezioni documentate, a chi denuncia le mille frottole antiscientifiche dei suoi comizi, le mille patacche che spaccia senza pudore, Grillo può rispondere, se gli aggrada: coi cadaveri non parlo. A giocare a carte con il morto si vince sempre, ma si vince da maramaldi se non proprio da bari. La seconda considerazione, sul crinale tra psicologia e sociologia, riguarda il tipico emergere del delirio millenaristico dalle crisi di mezza età, un fenomeno che qualunque orecchiante di sociologia dei movimenti religiosi e delle sette conosce fin troppo bene: c’è fior di cinquantenni in canottiera che d’un tratto, mollati dalla moglie o buttati fuori dal lavoro, scoprono di essere il messia. C’è poi una terza considerazione da proporre, e ha a che fare con la vecchia faccenda dell’elefante.

    Un giorno qualcuno dovrà prendersi la briga di studiare la ricezione degna di Bouvard e Pécuchet che i geni della politica italiana hanno riservato alle tesi del linguista George Lakoff, quello di “Non pensare all’elefante”. L’idea che non si debba sottostare al modo in cui gli avversari politici definiscono e inquadrano la realtà, e che si debba trovare l’intelligenza e il linguaggio per proporre un’altra visione delle cose, si è sposata qui da noi a una inveterata propensione – mezzo filosofica, mezzo superstiziosa – all’idealismo magico, e alla credenza che le cose che scegliamo di ignorare cessino per ciò stesso di esistere. Dopo Veltroni e il suo “principale-esponente-dello-schieramento-avversario”, che ricordava tanto gli sforzi di Massimo Troisi in “Ricomincio da tre” per spostare gli oggetti per mezzo del fluido mentale, Grillo fornisce un altro caso di scuola di evitamento della realtà e delle sue asperità: dichiarando morti tutti gli altri, quando vai a sbattere contro un elefante puoi continuare beatamente a credere che non esista.

    Ma è la quarta e ultima considerazione la più interessante, e getta sulla retorica dell’Oltre e sulle Woodstock dei grillini una luce insolita. Grillo, lo si è visto, usa in chiave comico-grottesca il registro della fantascienza post apocalittica, e persuade i suoi sostenitori di essere i radi superstiti che si aggirano in un mondo di zombie e vampiri politici. Se oltrepassiamo questo primo fondale, ci accorgeremo che il fumettone è un travestimento pop del vecchio millenarismo politico, un perpetuo annuncio di catastrofi (ecologiche, economiche, politiche) sul punto di verificarsi o già avvenute: nulla di nuovo, in fin dei conti. Addentriamoci allora un po’ più a fondo, dov’è buio fitto. Ebbene, che cosa vedremo? Qui solo l’Elias Canetti di “Potere e sopravvivenza” potrà prestarci un lume adeguato: vedremo una smisurata, ebbra sete di potenza. La sopravvivenza, il sentimento di trionfo del guerriero che torreggia su una distesa di morti, è per Canetti la radice stessa del potere. Ergo, una fantasia di sopravvivenza è una malcelata fantasia di dominio, la fantasia del sovrano di un mondo disabitato. Canetti ricordava l’esempio leggendario del sultano di Delhi in estasi davanti alla città deserta. Si dirà: Grillo è un comico, questo registro sublime non gli si addice granché. E allora cerchiamolo di nuovo nei circhi e negli anfiteatri, nei luoghi dei divertimenti più esaltanti o più feroci. Ma attenzione, non lo troveremo tra i lottatori o tra gli atleti, e nemmeno tra i mimi o i funamboli. Lo troveremo tra quegli uomini con la maschera di Caronte sul volto che, informa Tertulliano, arrivavano a fine combattimento nell’arena insanguinata, piena di sozzura e decomposizione, a trascinar via i cadaveri dei gladiatori.

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