Numeri, strategie e debolezze nel bilancio monstre della Apple

Michele Masneri

Una corazzata ormai in grado di far cambiare segno anche ai listini di Borsa. Questo è diventata Apple, che l’altra notte ha presentato i soliti strabilianti dati di bilancio (qualcuno già dice: condannata a superarsi sempre); aumento degli utili del 94 per cento, vendite dell’iPad salite del 150 per cento, 11,62 miliardi di dollari di utile netto in tre mesi.

    Una corazzata ormai in grado di far cambiare segno anche ai listini di Borsa. Questo è diventata Apple, che l’altra notte ha presentato i soliti strabilianti dati di bilancio (qualcuno già dice: condannata a superarsi sempre); aumento degli utili del 94 per cento, vendite dell’iPad salite del 150 per cento, 11,62 miliardi di dollari di utile netto in tre mesi. I risultati rilasciati nella notte dal gruppo di Cupertino hanno aiutato ieri mattina la piazza finanziaria giapponese, con l’indice Nikkei che è salito dell’1 per cento, e quella cinese con lo Shanghai Composite salito dello 0,75 per cento. Già, perché la Cina ormai è la frontiera su cui si gioca il presente e il futuro di Apple: qui la casa della Mela ha registrato vendite per 7,9 miliardi di dollari in tre mesi, pari a 3 volte tanto il risultato di un anno fa. Il paese asiatico ormai conta per il 20 per cento del fatturato, rispetto al 12 per cento dell’anno scorso. Ma la Cina è anche l’unico paese in cui si sia verificato il famoso effetto-traino sempre invocato dal compianto Steve Jobs e mai realizzato: le vendite di iPod, iPhone e iPad hanno infatti spinto in alto anche quelle dei computer Mac, sempre rimasti una nicchia del mercato globale (sotto il 10 per cento) e qui invece cresciuti del 60 per cento nel giro di un anno. “La Cina offre infinite possibilità per chi riesce a capire il paese”, aveva detto il mese scorso Tim Cook, amministratore delegato della casa nonché manager più pagato del mondo (634 milioni di dollari all’anno tra stipendio e stock option). E Apple sembra capire davvero bene la Cina, ricambiata. Il viaggio di Cook era strategico sotto molti punti di vista: da una parte firmare un contratto con China Mobile, gestore di telefonia che coi suoi 600 milioni di abbonati può significare un nuovo boom dell’iPhone, il telefono bestseller Apple. Dall’altra, una visita pacificatrice alla Foxconn, la mega azienda di componenti elettroniche con alti tassi di suicidi e condizioni-limite che costituisce il suo principale fornitore e poco si addice alla sua immagine liberal. Insomma, la Cina per Apple è l’inizio e la fine di tutto; da una parte luogo dove si costruiscono a bassissimo prezzo i suoi manufatti; dall’altra, futura frontiera dello smercio, grazie anche a una middle class in rapida crescita di potere d’acquisto: a livello geografico, passa dal 22 al 29 per cento il peso della Cina sul fatturato globale Apple.

    Tutto questo successo e questa potenza fanno svaporare i timori legati alla successione del fondatore carismatico Jobs. Ma allo stesso tempo causano critiche e (forse) invidie da parte dei concorrenti. Come Samsung, capofila del sistema alternativo Android, che batte Apple sia per quota di mercato del suo sistema operativo che per vendite di suoi smartphone, con una crescita annua del 310 per cento contro “solo” il 90 per cento di Apple, e 94 milioni di smartphone venduti nel 2011 contro i 93 della Mela. Eppure Samsung continua a essere considerato un marchio cheap dagli adepti della Mela. Così, in vista del lancio del suo ultimo prodotto, il telefono Galaxy SIII che verrà presentato la settimana prossima, Samsung ha lanciato due giorni fa uno spot provocatorio, in cui i seguaci Apple sono paragonati a un branco di pecore. Accostamento non nuovo; la definizione dell’Urban Dictionary per iSheep è: “Un seguace del culto Apple che non pensa all’utilità o al valore reale del prodotto”. Il messaggio dei concorrenti coreani, poco cool ma molto agguerriti, è preciso: ormai è Apple a essere mainstream, a costituire il paradigma imperante, e siamo noi oggi quelli che combattono l’establishment. Si attaccano così le stesse origini del mito Apple che nel 1984, con il celebre slogan “think different” e lo spot firmato da Ridley Scott, aveva puntato sul suo essere alternativa rispetto a un grande fratello tecnologico, allora Ibm. Oggi Ibm ha ceduto la sua manifattura ai cinesi, e con una capitalizzazione di Borsa di 600 miliardi di dollari, Apple è la regina di Wall Street. Se fosse una nazione, sarebbe la ventiseiesima più ricca del mondo, tra la Thailandia con 601 miliardi e il Sudafrica con 554 miliardi di dollari di pil. Con queste cifre, effettivamente, dev’essere difficile continuare a pensare alternativo.