Non è più un paese per Mao

Marco Pedersini

All'assemblea nazionale del popolo del Partito comunista cinese, a inizio marzo, Bo Xilai si guardava attorno, con le mani saldamente aggrappate ai braccioli. Sorrideva con la solita smorfia, un filo amara. Non poteva saperlo, ma politicamente era già morto. Non c’era più possibilità di tornare a prima della notte del 6 febbraio, quella in cui la Cina salutava i festeggiamenti per l’anno nuovo e il carismatico Bo Xilai diceva addio alla sua scalata inarrestabile ai vertici del Partito.

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    All'assemblea nazionale del popolo del Partito comunista cinese, a inizio marzo, Bo Xilai si guardava attorno, con le mani saldamente aggrappate ai braccioli. Sorrideva con la solita smorfia, un filo amara. Non poteva saperlo, ma politicamente era già morto. Non c’era più possibilità di tornare a prima della notte del 6 febbraio, quella in cui la Cina salutava i festeggiamenti per l’anno nuovo e il carismatico Bo Xilai diceva addio alla sua scalata inarrestabile ai vertici del Partito.

    Aveva speso cinque anni per tirare a lucido Chongqing, una metropoli da trenta milioni di abitanti diventata la vetrina della Cina che Bo aveva immaginato: welfare generoso, repressione della corruzione e ripresa degli inni maoisti di una volta. A forza di purghe contro imprenditori indicati troppo facilmente come capimafia ed esibiti fieramente come trofei di caccia, il modello Chongqing era diventato un miracolo. Bisognava andarci, per toccarlo con mano. L’avevano fatto in tanti, s’era visto più volte anche il futuro “presidente” Xi Jinping.

    Poi, il 6 febbraio, una parte essenziale del modello Chongqing, il superpoliziotto Wang Lijun, s’era fatto quasi cinque ore di auto per raggiungere il consolato americano della città di Chengdu. Ne sarebbe uscito il giorno dopo, nel tardo pomeriggio, tra una folla di agenti mandati da Pechino e di poliziotti a cui il suo ex sodale Bo Xilai aveva ordinato di cingere d’assedio il consolato (un gesto arrogante, in una città che non era di sua competenza). Non si sa cos’abbia confessato Wang. E’ certo però che il volo con cui il superpoliziotto è stato scortato a Pechino ha siglato la fine di Bo Xilai, l’uomo che aveva offerto un’anima forte e nostalgica a una Cina in cerca di se stessa, nell’anno in cui ci si prepara al cambio di tutte le posizioni di punta del Partito.

    Per questo la notizia delle sue “dimissioni” dalla guida di Chongqing, arrivata ieri, non è stata una novità (anche il Foglio l’aveva prevista, quasi un mese fa). I modi, però, sono stati inaspettati. Non capita tutti i giorni, soprattutto in un momento delicato come questo, di vedere accantonare il comandamento principe della Cina post Tiananmen, l’armonia prima di tutto. Il galateo del Partito, inoltre, impone una maschera cortese a ogni dichiarazione, un parlar coverto che vieta agli ufficiali di esprimere perplessità su  un altro membro, almeno in pubblico. Invece il segretario generale del Partito Wen Jiabao l’ha fatto, in una conferenza stampa di tre ore trasmessa mercoledì, in diretta, in televisione. “Il Partito e il governo di Chongqing devono riflettere seriamente sull’incidente di Wang Lijun. E devono imparare la lezione”, ha detto Wen in un passaggio del suo discorso in cui ha parlato di “riforme politiche arrivate a uno stato critico, ma che vanno portate a termine se si vogliono riforme economiche radicali”. “Senza questi cambiamenti – ha aggiunto Wen – tutto ciò che abbiamo guadagnato in questi anni potrebbe andare perduto. I nuovi problemi che attanagliano la nostra società potrebbero restare irrisolti e una tragedia come la Rivoluzione culturale, i cui errori sono ancora lì da correggere, potrebbe tornare ancora”.

    Ma, purtroppo per gli entusiasti, questa non è la primavera cinese. Basta vedere chi è stato scelto al posto di Bo Xilai: un vecchio gerarca di specchiata osservanza, che non si era fatto scrupoli a zittire per mesi le notizie sul contagio della Sars, iniziato nella sua provincia, o a sparare contro i contadini che chiedevano indietro i loro terreni.

    Se il Partito l’ha scelto vuol dire che ritiene che nella metropoli di Chongqing, adesso, ci voglia gente obbediente e capace, alla bisogna, di usare il pugno di ferro. E’ un’indicazione importante, ora che si riaprono i giochi per il Politburo, l’opacissimo consiglio di nove gerarchi che governa il paese. Ci si aspettava un trionfo neo maoista, al passaggio di consegne del prossimo autunno, ma l’epurazione di Bo Xilai ha riaperto la corsa in favore di chi, tra nazionalismo e sviluppo economico (i due pilastri del dopo Mao), sceglie senza dubbio il secondo. Si rafforza la posizione di chi, come Wang Yang, il capo della provincia del Guangdong, ha saputo combinare il verbo mercatista con recenti aperture alle richieste del popolo (concedendo, ad esempio, libere elezioni ai pescatori del villaggio di Wukan, che si erano ribellati a dicembre).

    Può sembrare una questione per specialisti, per appassionati di cremlinologia riciclatisi esperti di Cina, ma la lotta di questi mesi è di importanza capitale, se non altro per il peso specifico di Pechino nell’economia mondiale. L’ultima volta che si sono avvicendati il segretario del Partito, il premier e i membri del Politburo era il 2003. Era la quarta volta per la Cina e la transizione era passata senza spargimenti di sangue. Va detto che, nella storia dei regimi comunisti, era stata un’eccezione. L’unica che si ricordi.

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