Opere e omissioni di Goldman Sachs

Michele Masneri

“Per un banchiere è peggio parlare con un giornalista che scappare con la cassa”: la vecchia massima di Enrico Cuccia spiega forse il perché dello scandalo suscitato due giorni fa dalla confessione del manager di Goldman Sachs Greg Smith, che ha scritto sul New York Times i motivi delle sue dimissioni. Secondo uno che Goldman la conosce bene lo scandalo delle dimissioni di Smith non è l’accusa all’ad Lloyd Blankfein di aver distrutto la cultura della “avidità di lungo termine” promuovendo invece quella dei profitti immediati.

    “Per un banchiere è peggio parlare con un giornalista che scappare con la cassa”: la vecchia massima di Enrico Cuccia spiega forse il perché dello scandalo suscitato due giorni fa dalla confessione del manager di Goldman Sachs Greg Smith, che ha scritto sul New York Times i motivi delle sue dimissioni. Secondo uno che Goldman la conosce bene, cioè William Cohan, giornalista di Bloomberg, oltre che ex banchiere lui stesso, autore di un volume intitolato “Money and Power: How Goldman Sachs Came to Rule the World”, lo scandalo delle dimissioni di Smith non è infatti l’accusa all’ad Lloyd Blankfein di aver distrutto la cultura della “avidità di lungo termine” promuovendo invece quella dei profitti immediati. Non è nemmeno che gli interessi della banca venissero prima dei clienti; o che i trader di Goldman siano stati larghi in arroganza e stretti in umiltà; no, il vero scandalo è che la denuncia di Smith sia finita sulla stampa.

    Questo è l’unico segno della decadenza: la banca, fondata nel 1869 al 30 di Pine Street, Manhattan, dall’immigrato tedesco Marcus Goldman, ex mercante di stracci insieme al genero Samuel Sachs, per un secolo esatto semplicemente non ha mai dato confidenza a un giornalista. Dovevano arrivare gli anni 70 del Ventesimo secolo perché Goldman avesse un addetto stampa; che però, come ha raccontato ieri Cohan sul Financial Times, non aveva un ufficio in azienda ma lavorava da casa, e i giornalisti lì lo chiamavano. Questa tattica ha contribuito a passare sopra alle crisi e consolidare la mistica della banca: fucina di talenti, culla dell’élite meritocratica, casa-azienda. “La differenza con gli altri banchieri è che mai vedrai uno di Goldman ubriaco”, scrive Cohan nel suo “Money and Power”.

    Già alla fine dell’Ottocento Goldman seleziona i migliori studenti direttamente dalle università; li indottrina poi attorno a valori spregiudicati ma basati sulla performance e sul merito, perché “Goldman è una famiglia, dove anche chi non ne possiede una si sentirà a casa”. Il primo dei 14 princìpi, codificati nel 1976 e che ancora oggi campeggiano sul sito internet della banca, recita: “L’interesse del cliente viene sempre per primo”, e probabilmente è sempre stato smentito. Fin dal 1869, quando Goldman e il genero si inventano un sistema per scontare cambiali ai commercianti trattenendo una piccola cifra. Questa è la prima vita di Goldman: ma già nel 1913 la ditta è sinonimo d’eccellenza se non proprio di virtù. Viene per esempio richiesta la sua consulenza per capire come dev’essere strutturata la costruenda Federal Reserve. Gli anni Trenta sono spericolati: in un capitolo intitolato “In Goldman Sachs We Trust” del suo libro “The Great Crash”, John Kenneth Galbraith racconta che Goldman con le sue esagerate speculazioni ha un ruolo fondamentale nel crollo del ’29. La banca rischia il fallimento ma capisce che il business giusto è un altro: diventa la pioniera delle initial public offering, o Ipo, sotto la guida di Sidney Weinberg, che sarà il padre padrone della ditta fino agli anni 70. Con lui, figlio di un venditore di liquori ebreo, è il periodo del mantra “longterm greedy”, avidi ma pazienti. Se ci sono perdite nel breve, saremo ricompensati nel lungo periodo.

    Goldman è la Mediobanca a stelle e strisce, è camera di compensazione, accompagna la corporation America in Borsa: nel 1936 fa quotare Sears a Wall Street, nel 1956 Ford. Nel frattempo Weinberg (soprannomi: Mr. Wall Street e Director’s Director, ma soprattutto The Politician) gioca il suo ruolo di Cuccia e di gran consigliere. E’ amico intimo di tutti i presidenti, da Franklin Delano Roosevelt a Kennedy. Quando finisce l’epoca di Weinberg finisce anche il periodo etico ed epico della banca: stanno per arrivare gli anni Ottanta, a “longterm greedy” si passa al “greed is good” di Gordon Gekko (a proposito, Oliver Stone regista di “Wall Street” definì Goldman “l’impero del male”).




    In un’inchiesta su Rolling Stone del 2009, il giornalista Matt Taibbi racconta che Goldman Sachs ha cavalcato tutte le bolle speculative: quella di Internet, quella immobiliare, quella petrolifera. La tecnica? “Posizionarsi in mezzo a una bolla, vendere investimenti che si sa sono tarocchi; aspirare vaste somme di denaro dalla middle class e dai ceti più bassi grazie a uno stato corrotto che riscrive le regole in cambio dei contributi elettorali. Alla fine, quando tutto scoppia, lasciare milioni di cittadini in mezzo a una strada; poi quelli di Goldman ricominciano lo stesso processo daccapo, facendo la parte di ragazzi brillanti che cercano di tenere in piedi il sistema”.

    Sarà, e sarà anche vero che a partire da Weinberg “The Politician” Goldman ha sempre avuto rapporti incestuosi con la Casa Bianca: Goldman è stato il primo fund raiser di Obama, ma non c’è da stupirsi perché l’istituto ha sponsorizzato negli anni Nixon, Reagan, Clinton e George W. Bush. Ha finanziato Henry Kissinger e Lawrence Summers. Ha offerto due ministri del Tesoro, anche qui con spirito da manuale Cencelli: Rubin con Clinton, Paulson con Bush figlio. I sostenitori delle teorie del complotto ricordano che per Goldman sono transitati personaggi come Mario Draghi, Mario Monti, Romano Prodi, e questa è la prova che Goldman comanda il mondo. Per altri, semplicemente, che la banca ha sempre puntato sul meglio. Questo spiegherebbe perché nei suoi 143 anni di storia è passata indenne attraverso diverse crisi: oltre a quella del ’29, nel 1970 il fallimento di Penn Central Corporation la trascinò quasi alla bancarotta; nel 1987 uno dei suoi principali manager, Robert Freeman, finì in carcere per insider trading. Negli ultimi tempi, i trucchetti contabili per aiutare Atene a entrare nell’euro. Però Goldman c’è ancora, a differenza di nomi defunti come Bear Stearns o Lehman Brothers. Non è poco: e pazienza se al rispetto dei suoi 14 princìpi (l’ultimo recita: “L’integrità e l’onestà sono il cuore del nostro business”) non ci ha mai creduto nessuno.