Buffon, Nicchi e il mondo ideale

Matteo Matzuzzi

Ogni partita di calcio si disputa sotto il controllo di un arbitro, “al quale è conferita tutta l’autorità necessaria per far osservare le Regole del Gioco nell’ambito della gara che è chiamato a dirigere”. E’ la premessa, chiara e lineare, della regola 5 del Regolamento del Giuoco del Calcio. E’ l’arbitro che decide, è lui il responsabile ultimo di tutto ciò che avviene in campo.

    Ogni partita di calcio si disputa sotto il controllo di un arbitro, “al quale è conferita tutta l’autorità necessaria per far osservare le Regole del Gioco nell’ambito della gara che è chiamato a dirigere”. E’ la premessa, chiara e lineare, della regola 5 del Regolamento del Giuoco del Calcio. E’ l’arbitro che decide, è lui il responsabile ultimo di tutto ciò che avviene in campo. Quando anni fa frequentai il corso per diventare una giacchetta nera, gli istruttori spiegarono a me e agli altri amici e futuri colleghi che queste poche righe riassumono tutta l’autorità che fa del direttore di gara l’elemento più discusso (e più odiato) di una partita di calcio. Lo sanno sicuramente anche Paolo Tagliavento e Roberto Romagnoli, uomini che sabato scorso hanno sbagliato gravemente nel non vedere ciò che tutti hanno visto: un pallone che aveva varcato (e non di poco) la linea fatidica che determina la segnatura o meno di una rete. Polemiche a non finire, dubbi sulla buonafede dell’assistente, accuse reciproche che difficilmente si potranno stemperare in poche settimane. Nell’occhio del ciclone è finito pure Gianluigi Buffon, colpevole (secondo il solito perbenismo ipocrita) di aver dichiarato che se anche si fosse accorto della validità del gol, di certo non l’avrebbe detto all’arbitro. Apriti cielo: il presidente dell’Associazione italiana arbitri, Nicchi, ha accusato il capitano della Nazionale di non essere un esempio per i giovani, perché i fischietti andrebbero sempre aiutati.

    Questo, però, in un mondo ideale. Nicchi sa benissimo che l’arbitro è un uomo solo, che sopporta pressioni enormi e che qualunque decisione prenda nel corso di una partita scontenterà sempre qualcuno. Chi decide di iscriversi al corso lo sa, e chi si accorge di non riuscire a coltivare con passione e serenità l’hobby appende al chiodo il fischietto solitamente dopo un paio di incontri diretti su squallidi campetti di periferia. I giocatori pensano a giocare, a vincere. Ed è anche giusto che sia così: è l’arbitro che deve far rispettare le regole del gioco, grazie al potere immenso che il Regolamento gli dà. Buffon ha il merito di non essere stato ipocrita, di aver detto ciò che tutti i suoi colleghi pensano, tant’è che anche il difensore milanista Thiago Silva ha condiviso le parole del portiere. Non è questione di onestà, che nel calcio è merce sempre più rara, bensì di apprezzare chi non teme di dire ciò che pensa. Anche se la sincerità è spesso scomoda. Trasformare la svista clamorosa di Roberto Romagnoli da Macerata a un j’accuse nei confronti di Buffon è sbagliato, inutile e sciocco. Il portiere, estremo difendente della sua squadra, ha fatto il suo mestiere. A essere mancati, nell’adempimento del dovere, sono stati arbitro e assistente. Ed è su questo che, serenamente, qualcuno ai piani alti del palazzo arbitrale dovrebbe interrogarsi.

    • Matteo Matzuzzi
    • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.