Mani pulite al liceo

Guido Vitiello

Quando arrestarono Mario Chiesa avevo appena sedici anni. Del finimondo che mi accadeva attorno capivo ben poco, e registravo solo le informazioni che avessero qualche attinenza con la mia vita di studente di un liceo classico romano, per di più di un liceo storicamente “disimpegnato”. Dunque inezie, dettagli, nugae di poco conto. Non ero ancora hegeliano a sufficienza per vedere, nelle fotografie di Borrelli a cavallo che comparivano sui rotocalchi, l’immagine dello Spirito del mondo (Hegel era programma del terzo anno).

    Quando arrestarono Mario Chiesa avevo appena sedici anni. Del finimondo che mi accadeva attorno capivo ben poco, e registravo solo le informazioni che avessero qualche attinenza con la mia vita di studente di un liceo classico romano, per di più di un liceo storicamente “disimpegnato”. Dunque inezie, dettagli, nugae di poco conto. Non ero ancora hegeliano a sufficienza per vedere, nelle fotografie di Borrelli a cavallo che comparivano sui rotocalchi, l’immagine dello Spirito del mondo (Hegel era programma del terzo anno). Eppure, a richiamare oggi i ricordi di quella stagione, devo constatare che il mio fiuto di adolescente mi aveva portato a selezionare l’essenziale, a comporre un vademecum che ancora oggi mi è d’aiuto.

    Ricordo per esempio di quando vidi il faccione di marmo di Platone, lo stesso che campeggiava sul mio manuale di filosofia, sulla copertina di un volumetto dal titolo “Mani pulite”. Dentro c’erano l’“Apologia di Socrate” e il “Critone”, e il settimanale Epoca lo allegava al numero in edicola: prima, però, aveva avuto l’accortezza di distribuirlo a tutti i parlamentari del Parlamento dei corrotti. Non potevo sospettare che in quella copertina ci fossero in nuce tutte le festivaliere filosofie della turpitudine, ma intuii che qualcuno, in Italia, avrebbe presto dovuto bere la cicuta.
    Ricordo che Leoluca Orlando venne nella nostra scuola, con Alfredo Galasso al seguito, e ci arringò tutti nel palestrone, dove bivaccavamo tra le cavalline, i palloni e i cesti da basket. Ci parlò della primavera di riscossa che si annunciava, della società civile che prendeva finalmente coraggio. Sembrava sincero, poi però ci disse con gli occhi un po’ acquosi che credeva nell’“Italia dei nostri sorrisi”, e va bene che eravamo sedicenni ma mica eravamo scemi, ci avevano già detto di stare in guardia dai signori melliflui che vengono a offrirti le caramelle a scuola. Ricordo poi che ci si passava di mano in mano una petizione per scongiurare la chiusura di “Samarcanda” di Michele Santoro: a quanto pare, il Caf (come poi il Cav.) poteva sopprimerla da un giorno all’altro, e ogni settimana la messa in onda era a rischio.

    E ricordo ancora l’assemblea scolastica in cui tutti agitavano una copia di Repubblica, quella con il titolo a caratteri cubitali “Vergogna, assolto Craxi”. Non capivo molto di giustizia, dunque chiesi lumi: “Perché, l’hanno già processato?”. Dagli sguardi che mi puntarono addosso intuii che la domanda era alquanto sconveniente. Peggio ancora la prese l’unico craxiano della scuola. In verità non si definiva neppure craxiano, ma intiniano (tutt’ora fatico a cogliere la sfumatura). Sembrava un alieno, e nessuna delle ragazze osava accostarglisi (forse anche perché aveva gli stessi occhiali di Ugo Intini, vai a saperlo). Ma il messaggio era chiaro: a difendere il Pentapartito non si rimorchiava, i cuccioli in pubertà dovevano fare a gara di ferocia manettara come prova di virilità. Ricordo anche di quando appresi che nella nuova edizione del Devoto-Oli non ci sarebbe stata più la parola “craxismo”. Certo, era improbabile che ci servisse per un tema in classe (forse per una versione da Platone, chissà), ma quando sentii Giancarlo Oli dire che ormai la faccenda non riguardava più i linguisti ma i magistrati, be’, mi tenni stretto il mio Zingarelli. Ricordo come, da tutto questo, mi salvò Radio Radicale. E poi c’era l’entusiasmo delle scolaresche. Ricordo di quando il giornalista del Tg3, con immancabile piazza alle spalle, lesse la lettera di un bambino di nove anni ad Antonio Di Pietro, che gli aveva appena consegnato Sandro Ruotolo. Erano i giorni del decreto Biondi, e il pool minacciava di dimettersi: “Caro Giudice, sono un bambino di nove anni, spero che quando sarò grande l’Italia sarà un paese di persone oneste. Da grande voglio fare il carabiniere, come mio nonno dei Nas. Il telegiornale dice che lei vuole andare via, e invece desidererei di no, perché lei per me è un giudice giusto, che sa quello che fa, e grazie a lei tutti i ladri sono finiti in galera. Lei mi è tanto simpatico, se lei va via io perdo tutte le speranze che l’Italia cambi”. Chissà che il bimbo, tale Mario Bacherini da Genova, non sia lo stesso che ora fa lo chef in tv (forse è solo un omonimo). E chissà cosa farà tra vent’anni, e soprattutto cosa ricorderà, il bimbo del Palasharp.