Il passo del gambero

E' la rendita, bellezza! Taxi e altre retromarce da Roma a Milwaukee

Michele Masneri

Mentre slitta ancora il termine per la presentazione degli emendamenti al decreto sulle liberalizzazioni – dopo averlo portato da oggi a lunedì prossimo, le commissioni Affari costituzionali e Attività produttive della Camera hanno deciso di posticipare ulteriormente il termine a martedì a mezzogiorno – il cosiddetto “cresci-Italia” sembra essere finito nella palude soprattutto per il suo tema più simbolico e dibattuto, quello dei taxi.

    Mentre slitta ancora il termine per la presentazione degli emendamenti al decreto sulle liberalizzazioni – dopo averlo portato da oggi a lunedì prossimo, le commissioni Affari costituzionali e Attività produttive della Camera hanno deciso di posticipare ulteriormente il termine a martedì a mezzogiorno – il cosiddetto “cresci-Italia” sembra essere finito nella palude soprattutto per il suo tema più simbolico e dibattuto, quello dei taxi. “Retromarcia totale”, secondo alcuni: saltano doppie licenze, licenze part-time e taxi stagionali, mentre l’Autorità dei Trasporti viene svuotata dei suoi poteri e trasformata in un ente con funzioni consultive. Secondo la cosiddetta lobby dei tassisti, invece, proprio il contrario. Dunque tutti scontenti. Per Loreno Bittarelli, numero uno di Uritaxi e leader dei tassisti romani, non solo non è una loro vittoria “ma nemmeno un pareggio”, perché non sono state soddisfatte le richieste della categoria, cioè il riconoscimento della loro attività come lavoro usurante, gli sgravi sul costo del carburante e l’abbattimento dell’Iva sui beni strumentali.

    I Taxi continuano dunque a essere il Vietnam delle liberalizzazioni; e il loro significato simbolico va oltre la dimensione nazionale. Come ha scritto ieri il Financial Times, una battaglia simbolica sta andando in scena nella città americana di Milwaukee, Wisconsin, in uno scenario molto italiano, non solo perché è la città dell’eroe italoamericano Arthur Herbert Fonzarelli detto "Fonzie"; ma perché la questione dei taxi è molto simile a quella italiana. Ci sono solo 321 vetture di strada a Milwaukee, con il comune che non ne può rilasciare altre, e di conseguenza il valore di queste mediamente è di oltre 150 mila dollari. La differenza col caso italiano è che lì c’è un’azienda che gestisce la maggior parte dei taxi, che appartengono alla famiglia Sanfelippo (si può immaginarne l’origine). L’altra differenza è che a Milwaukee i consumatori hanno lanciato una class action per abolire il tetto alle licenze, in nome della libertà garantita dalla Costituzione; in questa battaglia sono stati sostenuti dall’Institute for Justice.

    L’Institute for Justice è uno studio legale della capitale federale americana, che è anche un think tank di stretta osservanza libertaria e si batte per abolire qualunque monopolio e/o rendita di posizione, e in generale squilibri del libero mercato. Il suo claim commerciale (lì è permesso) è: “Litigating for liberty” cioè battagliando in tribunale per la libertà, sottinteso, economica. Per il Financial Times, la questione dei taxi di Milwaukee potrebbe sembrare un affare di poco conto; eppure diventa una questione fondamentale perché rappresenta bene il tema della rendita di posizione: quella cosa che permette ad alcuni di diventare ricchi a spese di altri. Secondo gli economisti, “è lo spreco di risorse per mantenere o procacciare rendite di posizione il male peggiore, il cosiddetto rent-seeking”.

    Uno spreco che vale dl 3 al 12 per cento del pil americano e che è il nemico contro cui si batte il Tea Party. Matt Kibbe, presidente del gruppo pro-Tea Party FreedomWorks, dice che il suo partito è contro la rendita di posizione “quasi per definizione”. Ciò che non molti sanno invece è che su questo tema convergono anche i socialisteggianti di Occupy Wall Street; forse inconsapevolmente i due movimenti perseguono lo stesso obiettivo, perché anche i mega stipendi dei banchieri e dei top manager sono infatti rendite di posizione. A sostenerlo per esempio è Jesse Fried, professore di Harvard e co-autore di “Pay Without Performance”, un pamphlet contro i mega compensi dei manager, che “rappresentano almeno in parte rendite di posizione” perché non c’è rapporto tra paghe e performance dei dirigenti, né controllo da parte degli azionisti, che anche volendo non riescono a monitorare i loro “stipendiati”, a causa delle classiche asimmetrie informative. E poco cambierà anche con le nuove norme di trasparenza (come la cosiddetta “say on pay” che permette agli azionisti di esprimersi sul tema): i manager saranno sempre in grado di stabilire rendite, come i tassisti. E’ la rendita, bellezza.