Contro mafie e veleni

Riccardo Arena

I cronisti più anziani ricordano ancora la scena. Da un lato don Vito Ciancimino, il ras di Palermo, l’ex sindaco mafioso, sempre pronto alla battuta tagliente e feroce nei confronti dei suoi nemici. Capace di provare un odio infinito e di esprimerlo nelle forme più svariate, Ciancimino, mafioso dalla lingua lunga e affilata, si faceva interrogare altezzoso nel processo che lo vedeva imputato per mafia e corruzione.

    I cronisti più anziani ricordano ancora la scena. Da un lato don Vito Ciancimino, il ras di Palermo, l’ex sindaco mafioso, sempre pronto alla battuta tagliente e feroce nei confronti dei suoi nemici. Capace di provare un odio infinito e di esprimerlo nelle forme più svariate, Ciancimino, mafioso dalla lingua lunga e affilata, si faceva interrogare altezzoso nel processo che lo vedeva imputato per mafia e corruzione. Dall’altro lato, nell’aula della quinta sezione del tribunale, c’era il pubblico ministero che aveva indagato su di lui. Giovane, poco più che quarantenne, in piedi e in toga, poneva una domanda dietro l’altra, senza deviare, all’alfiere democristiano del clan dei corleonesi, l’uomo simbolo della politica inquinata, padrone di Palermo e detentore di un ingente tesoro, accumulato col denaro delle tangenti del sacco edilizio che deturpò la città che Goethe aveva magnificato nel suo “Viaggio in Sicilia”.

    “Voi – diceva spocchioso don Vito – voi non avete trovato niente, non mi avete sequestrato niente. Solo un millesimo dei miei beni”. E il pm, con lo stesso tono tranquillo con cui gli aveva chiesto come si chiamasse e che lavoro facesse e se avesse precedenti condanne, intervenne con la sua voce pacata, ponendogli un’altra domandina facile facile: “Vuole dire l’imputato Ciancimino Vito dove si trova la rimanente parte dei suoi averi?”.
    Non lo disse, Ciancimino Vito. E non lo disse nemmeno Ciancimino Massimo, che anni dopo, morto l’ex sindaco, calcò le stesse scene giudiziarie in cui il padre aveva – alla fine di un lungo percorso – tentato invano di farsi passare per pentito. Don Vito fu fermato dopo un lungo rollaggio, senza mai riuscire a decollare. Le ali gli furono tarpate da Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia. A Massimo, in questo senso, è andata un po’ meglio. Nemmeno lui ha mai parlato veramente del tesoro, però con Ingroia è stato sulla ribalta per più di tre lunghi anni. Alla fine, però, come si dice a Palermo, “ha fatto tutta una caduta”. Sulla sua strada, incubo degli incubi, Massimuccio aveva ritrovato ancora una volta quel pm che aveva indagato suo padre, il magistrato che con voce pacata aveva osato chiedere a don Vito dove si trovasse “la rimanente parte” del suo patrimonio: Giuseppe Pignatone.

    C’è un dualismo, in fondo, tra i Ciancimino e Pignatone. Per quanto possa sembrare assurdo, paradossale, accomunare figure così eterogenee, il ladro e la guardia, il politico mafioso e il giudice, il criminale e l’inquirente, il rozzo e l’intellettuale. C’è un dualismo che è lo specchio di una città dannata. Ricca sì, ma solo di contraddizioni. Priva dei suoi tesori, nascosti o scomparsi o massacrati da gente come Ciancimino e Salvo Lima. Una città che costringe i suoi pezzi più pregiati a esportare se stessi. Una città capace di illuminarsi per ricordare gli eroi dell’antimafia e il loro sacrificio, ma che li celebra con trasporto forse proprio perché sono morti. Una città capace di far andare via un magistrato come Pignatone.

    E’ una città che non sa scegliere, Palermo. Il grano e la pula, l’erba buona e la zizzania pari sono, all’ombra del monte Pellegrino, il promontorio più bello del mondo. Quello di cui si innamorò Goethe. Ciancimino il Malefico e Giuseppe Pignatone, il Mascariato ad arte, si somigliano, secondo questa cultura. Pignatone sei anni fa fu battuto, nella corsa per la procura di Palermo, da Francesco Messineo. Ottimo magistrato, beninteso. E non è certo per colpa sua se negli ultimi anni Palermo è via via uscita dal cono di luce dei riflettori e dalla ribalta giudiziaria del paese. Se prima, con Gian Carlo Caselli e con Piero Grasso – che pure ebbero ingiusta fama di forcaiolo il primo, di normalizzatore il secondo – la procura del capoluogo siciliano era sempre al centro dell’attenzione nazionale, assieme a quella di Milano, adesso è come sparita. Ha vissuto, certamente, il fuoco di paglia delle roboanti dichiarazioni di Massimo Ciancimino. Ma ha anche incassato l’inevitabile contraccolpo del “tutta una caduta” del rampollo di don Vito.

    Emigrante per necessità a Reggio Calabria, Pignatone in quattro anni ha svolto un lavoro che in tutto il Dopoguerra non era mai stato fatto, da quelle parti: ha indagato con metodo e con una squadra. E ha ottenuto successi imprevisti. Imprevisti da chi non lo conosceva, beninteso. E da chi – il Csm, ad esempio, quando non lo nominò procuratore di Palermo – non si era accorto che quel magistrato aveva “solo” coordinato le indagini che erano sfociate prima nella cattura di Totò Riina, poi quelle che avevano dato l’input per ricostruire il massacro di Capaci, poi le altre che smantellarono il clan dei corleonesi, fino alle lunghe e pazienti inchieste che, passando per il sequestro di una piccola parte (“appena” 60 milioni) del patrimonio della famiglia Ciancimino e per la condanna del figlio di don Vito e dei suoi prestanome, portarono alla cattura di Bernardo Provenzano e alla condanna a sette anni di carcere del presidente della Regione Sicilia, Totò Cuffaro. Unico politico di rilievo che, in Italia, stia scontando una condanna. E una condanna con l’aggravante di mafia per di più.
    Ma Pignatone non se l’è presa, per l’esilio. O meglio, non l’ha dato a vedere. Ha lavorato con serenità, lontano dai veleni palermitani. Si è tuffato nella realtà calabrese, tanto somigliante alla Sicilia degli anni 70: paludosa e magmatica, piena di sabbie mobili, di insidie e di trappole, nella stanza accanto come nei salotti e nei palazzi del potere. Prima, senza mai dirlo e senza fare proclami, per la naturale ritrosia e per la riservatezza che lo hanno sempre contraddistinto, ha guardato in casa propria, negli uffici delle procure e dei tribunali. Poi ha scatenato l’offensiva. Guadagnandosi una bomba incendiaria dietro il portone della procura generale. E un bazooka pronto a sparare contro la finestra del suo ufficio. Ma anche l’attenzione di Giorgio Napolitano, delle istituzioni e della società civile verso quella regione disastrata che è la Calabria. Ha lavorato in pool, col fidato Michele Prestipino, divenuto suo aggiunto dopo avere coordinato con lui (e con Marzia Sabella) la cattura di Provenzano e dopo avere ottenuto (con Maurizio De Lucia) la condanna di Cuffaro.

    Come aveva già fatto in Sicilia, il procuratore ha utilizzato al meglio le forze di polizia, le ha coordinate, ha evitato che si pestassero i piedi fra di loro. Sono finiti nella rete decine di latitanti, anche di peso, e le indagini condotte in collaborazione con la procura di Milano, con Ilda Boccassini “la rossa”, hanno portato a risultati incredibili, trecento arresti tutti in una volta, sequestri per centinaia di milioni di euro, la scoperta delle numerosissime e insospettabili ramificazioni padane della ’ndrangheta. Ci sono stati tradimenti e pentimenti. Le cosche hanno cominciato a temere per la propria sopravvivenza. Ma non solo loro. La società cosiddetta civile, la vastissima area grigia calabrese e non solo, composta da avvocati, commercialisti, notai, uomini delle forze dell’ordine, politici organici alle ’ndrine, è stata aggredita per la prima volta in maniera seria e costante.

    Tribunali e Corti d’assise hanno cominciato a condannare. L’impunità della ’ndrangheta non si è sciolta come neve al sole, ma il disgelo è iniziato. L’organizzazione criminale calabrese, che, nei tanti coni d’ombra che le erano stati creati attorno, aveva prosperato indisturbata, ha incassato colpi durissimi. E’ diventata un problema nazionale. Si è scoperto che è la mafia più potente non solo in Italia, ma anche una delle più forti del mondo, con le sue propaggini che toccano il nord Europa, il nord America, l’Australia. Con le sue ricchezze, cui fanno un baffo quelle di don Vito Ciancimino e di tutta Cosa nostra, sempre più relegata a un ruolo secondario, nel panorama criminale.

    E’ così che Giuseppe Pignatone, che profeta in patria non era riuscito a essere, è diventato procuratore di Roma, dunque capo dell’ufficio inquirente più importante d’Italia, all’unanimità. Nello stesso giorno – per pura coincidenza – in cui il Csm ha “bacchettato”, a maggioranza, Antonio Ingroia per il suo intervento al congresso di Rifondazione e per la sua auto definizione, “partigiano della Costituzione”, che ha fatto arricciare il naso persino a uno che i partigiani veri li conobbe bene, perché militò egli stesso nella resistenza: Giorgio Napolitano. Il capo dello stato non se l’è presa per il riferimento ai partigiani, ma ha voluto lanciare un monito contro il protagonismo dei giudici. E a spingere per la bacchettata ad personam (il comportamento del pm è stato definito “inopportuno” e se ne terrà conto nelle sue future valutazioni di carriera) è stato Guido Calvi, esponente laico designato dal Pd.

    Non si amano, Ingroia e Pignatone. Ma l’uno riconosce all’altro la grande intelligenza e la preparazione giuridica. Le loro opposte filosofie si sono scontrate per anni. E la stagione dei grandi processi palermitani ha visto le condanne solo in due processi istruiti dal pm Ingroia: Bruno Contrada sconta la pena, Marcello Dell’Utri tra pochi giorni conoscerà il verdetto definitivo della Cassazione. Gli altri imputati eccellenti sono stati tutti assolti, a parte il solo Giulio Andreotti, che in parte se l’è cavata con la prescrizione.

    Pignatone e il suo pool, invece, a Palermo come a Reggio hanno affrontato la mafia militare senza dimenticare i rapporti con la politica. L’unico politico (sconosciuto a livello nazionale) che prima di Cuffaro abbia mai scontato una condanna di mafia, a Palermo, è stato l’ex assessore regionale Franz Gorgone. E il processo glielo imbastirono Pignatone e il suo collega e amico Franco Lo Voi. Prima era toccato a don Vito Ciancimino, che più che politico-mafioso era un mafioso prestato alla politica. Poi è toccato a Totò Cuffaro. Eppure tra sussurri, grida, mal di pancia e maldicenze, Giuseppe Pignatone era stato accusato di essere un insabbiatore. Accusa che Leoluca Orlando rivolse anche a Giovanni Falcone. E che Marco Travaglio ha rilanciato nei confronti di Piero Grasso.

    Palermo è stata la città adottiva del procuratore di Reggio Calabria, nato a Caltanissetta 63 anni fa e figlio di quel Francesco Pignatone che fu tra i padri nobili della regione siciliana e della sua autonomia, protagonista del passaggio alla regione imprenditrice, dell’esperienza del milazzismo, il governo siciliano delle larghe intese ante litteram, con Pci e Msi dentro e la Dc fuori, all’opposizione. Nessuno è al di sopra dei sospetti e anche se “Ciccino” Pignatone era persona più che perbene, finì al centro dell’attenzione dei colleghi del figlio. E forse era proprio lui il vero obiettivo. Fino a quando – correva l’anno 1996 – anche per evitare ulteriori sussurri, grida e sospetti, Pignatone jr piantò le ricerche di Giovanni Brusca e si trasferì alla procura presso la pretura, lontano dai riflettori. Nei quattro anni in cui andò nel suo primo esilio, i colleghi fecero quel che dovevano, ma su Pignatone padre non venne fuori nulla.

    Il silenzio di Pignatone figlio non si ruppe nemmeno quando, tornato in procura come vice di Grasso, fu aggredito, assieme al capo dell’ufficio, per non avere impedito l’uscita dalla Direzione distrettuale antimafia – decisa dal Csm – di Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato. Ci fu chi accusò il collega di essersi fatto regalare la casa da un mafioso e lui, Pignatone, che la casa l’aveva comprata (e pagata) nello stesso palazzo e dalla stessa persona che l’aveva venduta a Lo Forte, dovette farsi forza per non rispondere per le rime. Perché in quello stesso periodo – tra il settembre 2002 e l’estate 2003 – le intercettazioni dei carabinieri stavano smascherando le talpe in procura. Una delle quali, Giuseppe Ciuro, spendeva con il manager mafioso Michele Aiello anche il nome del suo magistrato di riferimento, Antonio Ingroia, convincendolo a far eseguire alcuni lavori edili dallo stesso Aiello. Una volta scoperto l’inghippo, d’accordo con i colleghi, Ingroia dovette fare buon viso a cattivo gioco e, per non rovinare l’indagine, si tenne Ciuro nella stanza e Aiello a lavorargli nella casa di campagna.

    L’inchiesta poi andò avanti, scoperchiò un calderone maleodorante di trame, tradimenti, soffiate, infamie, interessi milionari nel mondo della sanità. Coinvolse anche Totò Cuffaro, nei cui confronti c’erano sospetti di mafiosità. Grasso e Pignatone però ritennero necessario puntare sul concreto: individuarono un paio di reati specifici e non vollero proseguire sul terreno del famoso “concorso esterno”. Furono accusati di minimalismo. Qualcuno tirò fuori ancora una volta quella parola, basata sul nulla: insabbiatori. Però i due minimalisti avevano visto giusto e ne sa qualcosa Cuffaro, che per quei reati – che evidentemente tanto minimi non erano – oggi è in galera.

    Massimo Ciancimino poi ha provato in ogni modo a infangare chi lo aveva trascinato in tribunale e l’aveva fatto condannare fino in Cassazione, sequestrandogli la Ferrari, la barca e vari spiccioli. Ha parlato di telefonate non trascritte, di domande che non gli erano state poste, ad esempio su Berlusconi. Invece c’è un interrogatorio in cui ci sono una serie di domande verbalizzate, compresa quella su un assegno firmato dall’ex premier e che sarebbe stato in possesso di Vito Ciancimino. Il figlio del sindaco mafioso decise di non rispondere a quei magistrati. Non gli piacevano. Ha risposto ad altri, li ha elogiati, ha detto che erano gli unici di cui si fidava. E alla fine, dopo tre anni di giri di valzer come “icona dell’antimafia” lo hanno arrestato pure quelli.