Sherlock Holmes Variety

Mariarosa Mancuso

Chiacchiere da dopo cinema. Quanto sparano. Quanti botti all'Opéra dove  “Don Giovanni” sprofonda tra le fiamme dell'inferno. Gran spreco di travestimenti, oltre al guardaroba bohèmien con un tocco zingaresco. Pure un complotto internazionale. E il cane maltrattato per sperimentare le droghe? Sì, ma almeno il detective non fa gli occhi dolci al dottor Watson come nel primo “Sherlock Holmes” di Guy Ritchie.

Leggi la recensione dal Nuovo Cinema Mancuso Sherlock Holmes – Gioco di ombre

    Chiacchiere da dopo cinema. Quanto sparano. Quanti botti all'Opéra dove  “Don Giovanni” sprofonda tra le fiamme dell'inferno. Gran spreco di travestimenti, oltre al guardaroba bohèmien con un tocco zingaresco. Pure un complotto internazionale. E il cane maltrattato per sperimentare le droghe? Sì, ma almeno il detective non fa gli occhi dolci al dottor Watson come nel primo “Sherlock Holmes” di Guy Ritchie. Sicuro di aver visto “Gioco di ombre” di Guy Ritchie, o era la replica in tv di una pellicola con Basil Rathbone, se non “Basil l'investigatopo” della Disney? Nel mio film, il detective sfoggia abito, cappello, mutandoni ricamati e sottogonne da signora vittoriana, poi acchiappa la sposina e la butta giù dal treno. Commento di chi la sa lunga, punta alla vicina pizzeria e ha un repertorio di luoghi comuni da stordire Bouvard e Pécuchet: “Non sta nel canone”.

    Vabbé, chiamare canone una raccolta di romanzi e racconti gialli pare esagerato (pausa per le proteste degli holmesiani ortodossi e avvertimento: smettete di leggere, per il vostro bene). Non basta per dirottare la conversazione verso più piacevoli argomenti. Il fascino di Robert Downey jr., per esempio. L'unico attore su cui tutte le femmine concordano, come in anni passati si inchinavano agli occhi azzurri di Paul Newman. La solfa riattacca: non somiglia al detective tutto pipa e mantellina e cappello col paraorecchie. E le arti marziali, ma per carità… era un raffinato intellettuale che da un granello di polvere ricostruiva le tue mosse nelle ultime 24 ore. Le arti marziali – ditelo a chi non ha mai letto Conan Doyle – vengono da “Uno studio in rosso”, che nel canone c'è, eccome. Perfino Wikipedia alla voce “Sherlock Holmes” ha un capitoletto “Weapons and martial arts”: il detective sa combattere con il bastone e con la spada, tira pugni senza guantoni, per far precipitare il professor Moriarty dalle cascate di Reichenbach usa il bartitsu, arte marziale made in Britain molto somigliante al ju jitsu.

    Le deduzioni di Sherlock Holmes erano già state prese in giro da S. S. Van Dine, per bocca del suo detective Philo Vance: “Se i miei calzoni sono stati in lavanderia non vuol dire che anch'io sia stato in lavanderia”. Siamo negli anni 20 del Novecento: il detective rivale era colto, frivolo, altezzoso, aristocratico, ben equipaggiato di servitù. Lo scrittore – nome vero Willard Huntington Wright, nato nel 1887 e morto nel 1939 – era irresistibile quando stilava la lista degli espedienti vietati a ogni giallista, troppo triti e ritriti: confronto tra mozziconi di sigaretta, seduta spiritica che induce il colpevole a tradirsi, fratello gemello oppure sosia, cane che non abbaia. Si noti che era così snob da mettere tra le trame consunte quella di “Amleto”. E infatti le iniziali S. S. venivano dalla Smart Set, la rivista letteraria che il nostro aveva fondato a New York prima di finire lungodegente per eccesso di droghe (le biografie nelle vecchie edizioni Mondadori dicevano “collasso nervoso”). Letti quintali di gialli per passare il tempo – i medici gli avevano proibito ogni sforzo mentale – decise di mettersi in proprio (giusto in tempo per farsi stroncare da Dashiell Hammett, mentre Raymond Chandler scrisse che Philo Vance era “il detective più stupido di tutta la letteratura gialla”).

    Polizieschi da leggere a quintali servirebbero da noi come barriera d'entrata: oggi i giallisti, se interrogati, scomodano almeno Beckett e Joyce, o citano George Simenon senza sapere che esisteva anche prima dell'Adelphi. Toglierebbero di mezzo i detective di mezza età sfigati e solitari, neanche troppo bravi nelle indagini, mica siamo meritocratici. Già che siamo in tema: perché uno dovrebbe leggere certi gialli scritti un'ora fa quando ha a disposizione i classici, valga per tutti la collana “Giallobeat” che sta ristampando Rex Stout e il suo Nero Wolfe? Per ricavarne un ritratto della provincia italiana? S. S. Van Dine non aveva conosciuto Marco Vichi, Massimo Carlotto, Carlo Lucarelli, Gianni Biondillo. Aveva le idee chiare, però: “Un romanzo poliziesco non deve contenere descrizioni lunghe, pezzi di bravura letteraria, analisi psicologiche insistenti, pagine di ‘atmosfera': tutte cose ornamentali nel racconto di un crimine e dell'indagine che segue. Rallentano l'azione e distraggono dal punto principale: porre un problema, analizzarlo, risolverlo. Consentiti solo quel poco di descrizione e di studio caratteriale necessari per rendere credibile la narrazione”.

    Nel caso di Sherlock Holmes, fedeltà e ortodossia suonano ridicole. Ormai c'è più materiale fuori dal canone che dentro il canone (4 romanzi e 56 racconti, per essere precisi). Materiale di primissimo ordine, come la serie della Bbc scritta da Steven Moffat e Mark Gatiss. 8 milioni di spettatori, un Bafta, tre casi risolti nell'estate televisiva britannica del 2010 – il primo in onda giovedì scorso su Italia 1, gli altri seguiranno le prossime settimane. Tre casi nuovi a gennaio, per gli spettatori inglesi e quelli esperti nell'arte di arrangiarsi. In un'intervista al Guardian, Gatiss e Moffat spiegano che “tutto è canonico”. Non solo i cimeli a cui fanno da guardia gli “holmesophiles”: le storie a imitazione di Conan Doyle stanno alla pari con i vecchi film, i fumetti, i telefilm del “Dr House”, che a Sherlock Holmes esplicitamente si ispira, lavorando sugli indizi (vi dicono niente un indirizzo al 221B, un solo amico, donne ancora meno, vicodin per drogarsi?). Per la prossima serie i due hanno rivisitato tre casi classici, primo fra tutti “Uno scandalo in Boemia”, dove Holmes incontra l'ex cantante lirica Irene Adler, l'unica donna che gli abbia mai fatto vacillare la logica. Dalla Boemia a Belgravia, il coinquilino Watson – anche lui reduce dalla guerra in Afghanistan, in ogni epoca ce n'è una che torna utile – saluta con gioia la romantica notizia, prima di capire che la ragazza ha la sua vena di follia. Secondo episodio, “Il mastino dei Baskerville”: un quasi horror che suggerì a Umberto Eco l'appellativo di Gugliemo da Baskerville. E a Mark Haddon il romanzo “Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte”, per detective un ragazzino con la sindrome di Asperger, forma leggera di autismo condiviso dallo Sherlock Holmes di Benedict Cumberbatch, affascinante quanto sprovvisto di garbo e buone maniere (a una ragazza appena fidanzata, sussurra “lui è gay”, lo ha capito dalla crema copriocchiaie). Terzo episodio “The Final Problem”, con tappa alle cascate di Reichenbach dove Holmes precipita avvinghiato a Moriarty: perfetta scena da soap, quando gli attori miracolati dal successo chiedono troppi soldi e li si minaccia di cancro telefilmico (Conan Doyle voleva liberarsi della sua creatura, che gli impediva di dedicarsi allo spiritismo). Non si sono fatti mancare nulla, e lo spiegano con il motto: “To hell with deferred pleasure”.

    Gatiss e Moffat ebbero l'idea sul treno per Cardiff, mentre lavoravano insieme a “Dr Who”, la più lunga serie britannica di fantascienza. “Volevamo uno Sherlock Holmes moderno, come era moderno per i suoi tempi l'originale. Con i cerotti di nicotina invece della pipa e il BlackBerry sempre in mano”. I cerotti di nicotina sono rimasti (con qualche aiutino più pesante, il vecchio e il nuovo Holmes si stufano presto e temono la noia sopra ogni cosa). Al BlackBerry si aggiunge un iPhone, nel primo episodio della serie – ogni puntata dura un'ora e mezzo – intitolato “Uno studio in rosa”. “Uno studio in rosso” era il primo caso risolto da Holmes, e il primo caso in cui il dottor Watson si improvvisava cronista per lo Strand Magazine. Oggi ha un blog, e non è che il detective titolare la prenda bene, per il numero dei lettori e per certe figuracce: non sa, per esempio, che la terra gira attorno al sole e non viceversa. Anche Sherlock posta i suoi post, sul sito The Science of Deduction (sarebbe abduzione, non deduzione, la consideriamo una licenza poetica, anche se è l'unico dettaglio fedele alla lettera). Fa gli sberleffi all'ispettore Lestrade di Scotland Yard mandando messaggi sui cellulari dei giornalisti riuniti in conferenza stampa: “Sbagliato”, “sbagliato”, “bugia”. Continuando la catena, “Uno studio in nero” (in originale: “A Study in Terror”) era un racconto di Ellery Queen del 1966: manoscritto ritrovato dove Sherlock Holmes indaga sul caso di cronaca più celebre del suo tempo, Jack lo Squartatore.

    Lavorano con la stessa irrispettosa allegria Michele e Kieran Mulroney, sceneggiatori del secondo Sherlock di Guy Ritchie (meglio del primo: hanno capito che il vecchio canone importa solo ai duri e puri che al cinema non vanno). Rispolverano il fratello Mycroft, affidandolo al geniale Stephen Fry, l'attore inglese sosia di Oscar Wilde nonché maestro di cerimonie al raduno degli amici di Christopher Hitchens il 9 novembre scorso al Southbank Centre di Londra. Mycroft compare anche nel terzo episodio dello Sherlock targato Bbc, alto funzionario del governo britannico in cerca di una chiavetta con dati segreti: il detective sta facendo la guerra dei nervi con un Moriarty grandioso e nichilista, lascia il caso a Watson che decifra un paio di scarpe da ginnastica “tralasciando l'essenziale”. La leggenda vuole che Mycroft sia più intelligente di Holmes, che impersonato da Benedict Cumberbatch è al massimo grado del dandysmo: vestaglie di seta, riccioli neri, pallore byroniano e spleen baudelairiano. “I'm so bored”, spiega a Watson dopo aver sforacchiato la tappezzeria del salotto (“se lo meritava”, è la battuta che cita Oscar Wilde in punto di morte: “O me o lei”). Nel canone 2.0 entrano citazioni dal Dr House. Commosso per una vittima collaterale, Watson si sente dire: “C'è tanta gente che muore negli ospedali, perché non vai a piangere al loro capezzale e vedi se si sentono meglio?”. Arriva dritta dal giuramento di Ippocrate 2.0, pronunciato dal medico che odia il camice e in corsia è preceduto dal rumore del bastone: “Preferisci un dottore che ti tratta bruscamente e ti guarisce, o uno che ti tiene la mano mentre muori?”.

    “Il fratello più furbo di Sherlock Holmes” era il titolo di una parodia revisionista firmata Gene Wilder. Mentre Billy Wilder – in “Vita privata di Sherlock Holmes” – trascurava la pipa e insisteva sulla cocaina, oltre che certe malinconie, e l'acclarata incapacità del detective a smascherare le femmine doppiogiochiste. Oggi gli holmesiani di stretta osservanza immaginano uno Sherlock e un Watson ormai bacucchi, seccati alquanto con il film di Guy Ritchie, e con i due attori che si spacciano per loro (“Lo strano caso del falso Sherlock Holmes” di Luca Marinelli, annunciato e recensito sul sito Sherlock Magazine).

    Non volendo inabissarsi in “Alimentare, Watson!” di Lucio Nocentini (all'attivo una lunga lista di libri tra sangue e salsa di pomodoro, tra cui “Il mistero della minestrina vegetale” con la detective Wilma De Angelis, un tempo in tv cucinava solo lei), gli sherlockiani da canone eppur vogliosi di novità hanno a disposizione “Natale in Holmes”. Esce da Gargoyle con il doppio marchio di garanzia: autorizzato da Dame Jean Conan Doyle, la nipote che prima di morire nel 1997 consentì l'uso dai personaggi (pura cortesia, i diritti erano scaduti), e con bollino di qualità “Uno Studio in Holmes”, filiale italiana della “The Sherlock Holmes Society”. La stessa casa editrice che aveva pubblicato “Sherlock Holmes incontra Dracula” firmato da un sedicente dottor Watson e probabilmente non autorizzato da nessuno (“Nosferatu” si chiama così perché il regista Murnau non volle pagare i diritti agli eredi di Bram Stoker, che vinsero la causa e lo constrinsero a bruciare le copie del film). In diretta concorrenza con “The Holmes-Dracula File” di Fred Saberhagen, e con la lista interminabile di romanzi in cui Sherlock Holmes incontra celebri criminali o altrettanto celebri personaggi letterari. Da Sigmund Freud, come lui consumatore di cocaina, a Bertrand Russell che lo arruola contro Aleister Crowley. Dal dottor Jeckyll a Karl Marx, passando per Oscar Wilde e i colleghi commediografi George Bernand Shaw e Georges Courteline. La lista completa occuperebbe un'altra pagina.

    “Un Natale in Holmes” ricama sulle feste natalizie trascorse insieme da Holmes e da Watson, che assommano 17 anni di carriera investigativa (Holmes da solo ne ha cinque di più). Durata da vecchia e strana coppia: uno dei grandi divertimenti è vedere come gli sceneggiatori moderni risolvono la faccenda della convivenza a Baker Street. Disastrosa per la serie della Bbc: Watson cerca il latte in frigo e trova una testa mozzata. Amorosa all'insaputa del dottore nei film di Guy Ritchie (lo si capisce anche dal fatto che Watson non è solo una spalla, utile per spiegare certe cose allo spettatore: nel ruolo, c'è ora la bella zingara Noomi Rapace). L'unico Natale passato insieme ad indagare, secondo Conan Doyle, coincide con “L'avventura del carbonchio azzurro”.

    Quasi Natale, perché ormai Watson è sposato, i due non vivono più insieme, Watson passa due giorni dopo per una visita. Negli altri Natali, a leggere questa biografia frammentaria e molto autorizzata, la coppia trascorre qualche giorno a Roma (dopo “Il caso di Ricoletti dal piede equino e della sua abominevole moglie”, citato da Watson nel Canone con la maiuscola), soccorre il reverendo balbuziente Charles Lutwidge Dodgson in arte Lewis Carroll (lo ricattano per certe fotografie scattate a ragazzine), incontra gli spettri del classico Natale dickensiano, sbuca pure una ragazza che potrebbe superare in fascino Irene Adler.
    Più sistematico e ambizioso “Histoires secrètes de Sherlock Holmes” (Denoël). L'audace impresa di René Réouven – pseudonimo scelto da uno scrittore francese di origine algerina, classe 1945 – comincia con un racconto del 1982, “Eleméntaire, mon cher Holmes”. Potrebbe essere, al cinema, lo slogan per “Senza indizio”, il film di Thom Eberhardt dove l'intelligente indagatore era Watson, che non volendo danneggiare la sua reputazione arruola il belloccio Michael Caine come uomo dello schermo, fotogenicamente equipaggiato di pipa e mantellina. Certo che il vero Sherlock non ha mai pronunciato la frase, secondo Conan Doyle (in francese, poi): il canone era già abbastanza imbastardito prima che entrassero in scena gli ultimi guastatori.

    Sherlock Holmes non compare, a favore di Arthur Conan Doyle e dei due personaggi storici che fecero da modello: il dottor Joseph Bell, incontrato alla facoltà di Medicina, e l'assistente Alfred Wood. Grande domanda ricorrente (e grande risposta da non svelare): “Perché Sherlock Holmes non indagò mai su Jack lo Squartatore?”. Rotti gli argini, René Réouven si concede ogni divertimento. Inventa storie che Watson nel canone si limita a evocare – tra cui “Le bestiarie de Sherlock Holmes”, tutto sugli animali, starring il Ratto gigante di Sumatra (guest star, un marinaio polacco che conosciamo con il nome di Joseph Conrad). Aggiunge le storie che Watson neanche osava evocare, per un totale di 995 pagine. Le ultime dieci, su “La plus grande machination di siècle”. Dove il fratello di Moriarty scrive allo Strand Magazine e accusa: “Holmes ha inventato tutto, io sono figlio unico, esigo una rettifica. Quanto ai danni morali e materiali, per lavare l'onta sul mio buon nome ci rivedremo in tribunale”.

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