La necessità di un Piano B

L'Italia che argina il deficit non legittima l'inerzia europea

Paolo Savona

Forse è la prima volta che gli italiani sono chiamati a sopportare un sacrificio per stare peggio. Il problema da affrontare nel nostro paese ha tre facce: il livello del debito pubblico sul pil, il disavanzo pubblico annuale che lo alimenta e la crescita reale più bassa del costo del debito.

    Forse è la prima volta che gli italiani sono chiamati a sopportare un sacrificio per stare peggio. Il problema da affrontare nel nostro paese ha tre facce: il livello del debito pubblico sul pil, il disavanzo pubblico annuale che lo alimenta e la crescita reale più bassa del costo del debito. Dei tre problemi, l'ultimo era destinato ad aggravarsi per la volontà della Banca centrale europea di restringere le condizioni monetarie; non è un caso che la situazione del debito pubblico italiano, solo apparentemente calma, si è messa in movimento dopo l'aumento dei tassi ufficiali sull'euro, la goccia che ha fatto traboccare il vaso già colmo delle esitazioni e dei ritardi della Unione europea sul Fondo europeo di stabilizzazione finanziaria. La valutazione che il sacrificio che ci viene richiesto è questa volta per stare peggio poggia su alcune previsioni. Innanzitutto che la crisi del debito pubblico italiano non è finita, perché si autoalimenta attraverso il meccanismo dagli effetti micidiali di un costo della sua gestione che lo fa crescere più di quanto non cresca il pil. Avere bloccato la sua alimentazione azzerando il disavanzo pubblico è utile, ma non risolve il problema di fondo: l'aumento dell'entità del debito.

    Tempo addietro fui criticato perché proposi di elaborare per tempo – e insisto che queste cose vanno preparate prima e non sanate dopo affannosamente – un Piano A, composto dalle decisioni da prendere per stare nell'euro, e un Piano B, composto dalle scelte da fare per uscirne ordinatamente. Ho sempre sperato che il paese avesse un Piano A solido e condiviso, ma ho anche sempre avuto il timore che alla fine avremmo dovuto ricorrere al Piano B, perché gli accordi europei muovono in direzione contraria allo sviluppo. Meglio affrontare una crisi pilotata con tutti gli strumenti a disposizione – ivi inclusa la creazione monetaria, i tassi dell'interesse e il cambio – piuttosto che essere oggetto di commissariamento europeo, che non ha tutti i crismi della solidarietà democratica.

    La seconda è che le politiche imposte dall'Ue e dalla Bce per rientrare dagli squilibri di finanza pubblica sono deflazionistiche, ossia fanno cadere la crescita, aggravando il problema. All'origine vi sono vizi di analisi della situazione che la gran parte degli economisti europei hanno asseverato. La ragione di questo comportamento è l'aver accettato il mercato capitalistico come forza vitale dello sviluppo, ma sottovalutato che non è deputato a decidere la distribuzione del reddito. Questo compito spetta ai consessi democratici. Cessato il vincolo esterno del “pericolo” comunista che induceva il mercato capitalistico a tenere conto dei bisogni del popolo per evitare che venisse attratto dalle promesse alternative di sistema, esso ha imposto la sua logica. Il mercato e le sue istituzioni di valutazione del merito di credito, come le grandi banche globali e le agenzie di rating, impongono la loro volontà ai governi, i quali finiscono con il seguirne le indicazioni. Fine della democrazia: i ricchi più ricchi e i poveri più poveri.

    La terza e ultima ragione è la “zoppia politica” della moneta unica europea. Il mercato vuole sapere se l'euro – candidato a essere una valida alternativa al dollaro – è una moneta con dietro una forma di stato dotato “di bilancia e spada” o un'istituzione mal organizzata e divisa negli intenti, e quindi inaffidabile. L'attacco alla Grecia, al Portogallo e all'Irlanda non ha funzionato da verifica perché gli importi coinvolti si sono mostrati, sia pure con tante esitazioni, all'altezza della possibilità di intervento dell'Ue. Poiché l'onere di questi interventi aggrava le condizioni di alcuni paesi più grossi, come Spagna e Italia, la verifica se l'euro si poteva considerare una moneta “forte” si è spostata su questi, per sapere se, in assenza di un intervento dall'alto dell'Unione, l'euro potesse essere difeso dal basso, a livello di singoli stati. Venga dall'alto o dal basso, la mia valutazione è che le risposte finora date non sono sufficienti. Ci vuole ben altro, e questo richiede un accordo globale sulle monete, al quale l'Unione europea si deve presentare unita.