Promemoria per le anime belle

In tempo di ipocrisie beato chi sa perdere la faccia

Guido Vitiello

Basta accendere a caso la televisione, che in Italia, osservò Marc Fumaroli, è una corruzione dell'opera buffa “con le sue scene concitate e chiassose, le sue melodie pompose, i suoi interminabili recitativi”. Il duetto più ricorrente nei talk show politici da vent'anni a questa parte è “Onorevole, si vergogni!” “Si vergogni lei, piuttosto!”, e chiunque può veder bene che per quei tenori impettiti e quei contralti starnazzanti il richiamo all'onore non è che un suono privo di senso, un'arietta antica che tutti canticchiano senza ricordarsi il perché.

    Anticipiamo parte dell'articolo di Guido Vitiello, che sarà pubblicato domani nell'inserto culturale del Foglio in edicola.

    […] Basta accendere a caso la televisione, che in Italia, osservò Marc Fumaroli, è una corruzione dell'opera buffa “con le sue scene concitate e chiassose, le sue melodie pompose, i suoi interminabili recitativi”. Il duetto più ricorrente nei talk show politici da vent'anni a questa parte è “Onorevole, si vergogni!” “Si vergogni lei, piuttosto!”, e chiunque può veder bene che per quei tenori impettiti e quei contralti starnazzanti il richiamo all'onore non è che un suono privo di senso, un'arietta antica che tutti canticchiano senza ricordarsi il perché.

    Che i politici abbiano perso la faccia? Sembra, piuttosto, che non si curino troppo di averne una; non più, almeno. L'onore e la reputazione non sono più premi desiderabili. Se ci sia anche del buono in questo accantonamento delle antiche abitudini di decoro i tempi non sono maturi per dirlo, e nella concitazione delle cronache, tra il dito medio e l'uccello padulo, verrebbe solo voglia di rimettere a posto il tappo che è saltato con il tracollo della Prima repubblica. Ma una cosa è certa, chi un giorno vorrà porre la questione in modo non effimero sarà obbligato a passare (e ripassare) per il crocevia di Berlusconi e dello stile che ha imposto fin dalla sua discesa in campo.

    A questo studioso futuro suggeriamo fin d'ora di accantonare le tante metafore, per lo più improvvide o pretestuose, a cui si è fatto ricorso in questi anni per leggere il ciclo berlusconiano al tramonto – dal nuovo fascismo al populismo latino, dagli incubi orwelliani alla mignottocrazia – e di adottarne un'altra, che non è mai stata esplorata a dovere perché non viene facile associarla all'uomo del family day, del bunga bunga e del gallismo italico. In breve, si può pensare al berlusconismo come a un gigantesco “coming out”, un uscire allo scoperto sul modello dell'orgoglio omosessuale, la rivendicazione fiera e aperta di modi di vivere, umori e opinioni e che il galateo della Prima repubblica imponeva di accantonare nella penombra dell'inconfessato, di tenere sotto chiave perché non si affacciassero mai sulla scena pubblica.

    Da un giorno all'altro, come nel festoso e colorato corteo di un “gay pride”, i vizi arcitaliani punzecchiati da generazioni di osservatori del costume nazionale più o meno benevoli, più meno ironici, più o meno petulanti e accigliati, divennero motivo di pubblica e spavalda ostentazione. Era come se dicessero: “Saremo pure pacchiani, un po' cialtroni, furbi, erotomani, paraculi e parcheggiatori in doppia fila ma ce ne vantiamo, lo esibiamo alla faccia di tutti i micheleserra di questo mondo. Eravamo così anche prima, ma ci era stato detto che dovevamo vergognarcene: ora finalmente abbiamo trovato il coraggio di uscire dall'angolo e proclamarlo in piazza”. E' stato, questo sì, un grande momento della verità. Berlusconi si è messo alla testa della parata, con il costume più variopinto e impennacchiato, ma non si può dire che sia stato il solo e neppure il primo: il muro dell'ipocrisia pubblica, eroso alle fondamenta da anni di televisione-spazzatura, picconato da un presidente di scespiriana follia e strattonato dall'invasione verticale dei barbari padani è venuto giù in un crollo, che bastava appoggiarci un dito.

    La soglia del rossore si è spostata ogni giorno più in là, tanto che oggi appare come una confusa linea dell'orizzonte, una tremolante fata morgana […] Allo stesso modo, la fase nascente del berlusconismo offrì ad alcuni un prezioso lasciapassare: è il caso di quegli intellettuali liberali che schierandosi con il Cavaliere compirono una sorta di auto-ostracismo, un'uscita dalla rispettabilità, e si svegliarono per incanto senza l'ingombro di una faccia. Ma è pur vero che, Berlusconi regnante, troppi di quelli che hanno perso la faccia hanno rivelato che dietro, nel migliore dei casi, non c'era nulla, come nella favola di Fedro sulla volpe e la maschera tragica. Perché c'è modo e modo anche di perdere la faccia. Ci si può trovare di colpo alla tavola dei freaks che ti accolgono cantando “Uno di noi, uno di noi!” così come, una volta messi al bando, si può diventare saggi come un Edipo a Colono. E una nuova precettistica prudenziale, degna di un secolo non d'oro ma di bronzo, dovrebbe insegnar l'arte non già di conservare la reputazione, ma di liberarsene con stile.

    Un trattatista che volesse occuparsene, crediamo, potrebbe prendere ispirazione da una traiettoria esemplare: quella di Marco Pannella. Che del rispetto delle forme istituzionali ha fatto quasi un idolo, ma che ha maltrattato la propria reputazione come una puta, senza troppi riguardi, perché la buona fama presso la gente dabbene è una verginità di cui sbarazzarsi al più presto. La via, d'altronde, l'aveva segnata Pasolini nell'intervento mai pronunciato al congresso radicale del novembre 1975: “Non avete avuto alcun rispetto umano, nessuna falsa dignità, e non siete soggiaciuti ad alcun ricatto. Non avete avuto paura né di meretrici né di pubblicani, e neanche – ed è tutto dire – di fascisti”. Da allora Pannella ha perso la faccia mille altre volte: presentandosi al congresso dell'Msi di Almirante o proponendo un gruppo parlamentare con il fascistissimo Le Pen, candidando Cicciolina e Toni Negri, travestendosi da guitto o da fantasma, bevendo urina o distribuendo hashish in tv, mettendosi alla testa, nel 1993, degli onorevoli che avevano perso la faccia e addirittura – per molti la colpa più terribile – sedendo a tavola con Berlusconi e i suoi freaks.

    Oggi si aggira per le strade di Roma con la sua lunga coda di cavallo come un indiano metropolitano o uno hippie invecchiato bene, senza barbe mosaiche e senza ceroni, e chi lo incrocia è tentato di domandarsi se non sia l'uomo più libero d'Italia. Perché ha capito che quel che conta, per prendere a prestito una formula – nientemeno – da Giovannona Coscialunga (e con questa citazione ci siamo giocati la faccia pure noi), è la capacità di “disonorarsi con onore”. Perché, evangelicamente, chi vuol salvare la propria faccia la perderà; ma chi è disposto a perderla l'avrà salva, e non avrà nulla da temere nel giorno dell'ira.