L'altalena dei giornali americani

Mister president e doctor sex, non sempre è scandalo

Redazione

"Gli uomini pubblici possono avere una vita privata?” si chiedeva lo storico di Princeton Eric F. Goldman in un articolo pubblicato sul New York Times che coglieva l'occasione del furore scatenatosi sul divorzio del governatore dello stato di New York, Nelson Rockefeller, e sul suo matrimonio con una donna più giovane (all'epoca un grande scandalo) per riflettere sull'interesse dei media per la vita personale dei politici.

di David Greenberg

    "Gli uomini pubblici possono avere una vita privata?” si chiedeva lo storico di Princeton Eric F. Goldman in un articolo pubblicato sul New York Times che coglieva l'occasione del furore scatenatosi sul divorzio del governatore dello stato di New York, Nelson Rockefeller, e sul suo matrimonio con una donna più giovane (all'epoca un grande scandalo) per riflettere sull'interesse dei media per la vita personale dei politici.

    Sebbene i dettagli di quello scandalo oggi sembrino roba da nulla (non è pensabile che una candidatura presidenziale possa sgonfiarsi a causa di un divorzio), gli argomenti del saggio di Goldman, coi suoi 50 anni, sono straordinariamente attuali. Nell'articolo, il giornalista si dimostrava inquieto per l'incapacità di distinguere tra i vizi di carattere rilevanti e quelli insignificanti. Si preoccupava della facilità con cui additiamo i politici per i loro difetti umani. E metteva in luce la tensione tra la necessità di mantenere una dose di riservatezza anche per i pezzi grossi della politica e il rispetto del diritto di tutti a poter valutare onestamente il loro comportamento.

    Quella tensione è riemersa con grande evidenza di recente, in una stagione di storie da prima pagina da solluchero: Anthony Weiner, rappresentante di New York al Congresso, è stato costretto a dimettersi dopo aver inviato alcuni messaggi salaci e foto indecenti a varie amiche di penna; l'ex governatore della California Arnold Schwarzenegger ha ammesso di aver concepito un figlio con la domestica; il senatore John Ensign, del Nevada, si è dimesso dopo aver comprato il silenzio di chi poteva rivelare una sua avventura con un membro dello staff; l'ex candidato alla presidenza John Edwards si è dichiarato innocente dopo essere stato accusato di aver violato le leggi per i finanziamenti elettorali nel tentativo di coprire una tresca e un figlio naturale; Dominique Strauss-Kahn, ex direttore del Fondo monetario internazionale e probabile candidato alla presidenza francese, è stato accusato di violenza da una cameriera nella sua stanza d'albergo, ed è stato quasi condannato dai media, salvo poi vedere sgonfiarsi il caso non appena sono emersi i dettagli; e David Wu, un altro membro del Congresso, ha lasciato il suo seggio dopo che una diciottenne l'ha accusato di averle fatto avance sessuali poco gradite. Quest'ondata di scandali segue da vicino un'altra decina abbondante di piccoli casi simili, alcuni dimostrati in modo schiacciante, altri del tutto privi di una qualsiasi prova, che hanno coinvolto i politici Larry Craig, Mark Foley, Vito Fossella, Al Gore, Nikki Haley, Christopher Lee, Eric Massa, John McCain, Jim McGreevey, David Paterson, Mark Sanford, Mark Souder, Eliot Spitzer e David Vitter.

    Pur essendo molto diversi quanto a dettagli e gravità, tutti questi scandali sono accomunati dal vortice di confusione sulle regole che dovrebbero valere per i mezzi di comunicazione quando scelgono di rendere pubbliche le scorrettezze sessuali dei politici, e per l'opinione pubblica prima di condannare chi le ha commesse. Forse la prova di sconcezza peggiore dell'anno viene non da qualche politico mascalzone ma dai commentatori, nelle innumerevoli ragioni addotte per rendere pubbliche queste vicende. La stampa, anche se insiste a ripetere che l'opinione pubblica ha il diritto di conoscere un comportamento che può essere importante per giudicare il carattere di un politico, spesso sembra spiattellare queste storie semplicemente perché sono troppo gustose perché passino inosservate.

    In tempi in cui Internet, gli smartphone e gli altri prodigi della tecnologia riducono la sfera riservata di ciascuno di noi, e in cui una moralità a tolleranza zero stenta a coesistere con una cultura intrisa di sesso, vale la pena esaminare il mutevole atteggiamento dei giornalisti nei confronti degli scandali sessuali nel corso della storia americana. In alcune fasi, rivelare queste notizie è sembrato un servizio di estrema necessità; in altri, una grave violazione di tutto quanto è umano. In effetti, uno dei motivi per cui è così difficile stilare i criteri per decidere cosa sia scorretto dal punto di vista sessuale deriva dal fatto che i nostri standard mutano costantemente. La loro fluidità dovrebbe condurre a un po' d'umiltà le potenziali suocere mediatiche, anche se ciò raramente avviene.
    Le controversie legate alla sfera sessuale che oggi troviamo nei quotidiani e sui siti web di certo non hanno precedenti quanto a numero e a livello di dettagli intimi svelati di volta in volta. Ma il percorso che ha accresciuto i particolari e i casi rivelati non è stato privo di ripensamenti. Per molti decenni la Gilded Age (l'era del boom economico e dei grandi scandali seguita alla Guerra civile americana, ndr) ha segnato il punto più alto (o più basso) delle rivelazioni sessuali. Verso la fine del XIX secolo, prima dell'avvento del giornalismo obiettivo sul modello del New York Times, una stampa chiassosa e spregiudicata sguazzava nel pettegolezzo licenzioso. Come spiega Gail Collins nel suo libro “Scorpion Tongues”, nel 1881 le pagine dell'Albany Argus raccontarono dei convegni amorosi in hotel di un senatore dello stato di New York, Thomas Platt, e di come i suoi avversari politici avessero preso la stanza accanto per poter origliare le sue imprese amorose. Nel frattempo, l'altro senatore dello stato di New York, Roscoe Conkling, aveva visto finire sulla prima pagina del Times la sua avventura con la moglie dell'ex governatore del Rhode Island (anche se è vero che la storia finì sul giornale solo dopo che l'ex governatore aveva minacciato di sparare a Conkling in una bettola di mare a Narragansett). Molti sanno che nel 1884 gli editorialisti accusarono il candidato alle presidenziali Grover Cleveland di aver avuto un figlio da Maria Halpin, all'epoca nubile. Le intrusioni non cessarono nemmeno dopo la sua elezione, come Cleveland scoprì nel 1886, quando la stampa seguì freneticamente il suo matrimonio con Frances Folsom, la figlia ventunenne di un ex amico a cui in passato aveva comprato una carrozzella per bambini.

    Cleveland e gli altri politici si opposero a questi sconfinamenti giornalistici, ma non erano mossi solo dal proprio interesse. Come fa notare Rochelle Gurstein in “The Repeal of Reticence”, anche intellettuali come E. L. Godkin e Henry James aborrivano la rozzezza dei modi di fare giornalismo nella Gilded Age, e alcuni iniziarono a parlare di “diritto alla riservatezza”. L'invito più noto venne nel 1890 dal futuro giudice della Corte Suprema Louis Brandeis e dal socio del suo studio Samuel Warren: i due, se da una parte ammettevano la necessità di sondare “l'adeguatezza al pubblico ufficio” dei candidati, dall'altra chiedevano che si creassero degli strumenti giuridici di salvaguardia contro l'invasività dei giornali.

    Scrissero che “le fotografie istantanee e l'intraprendenza dei giornali hanno superato gli inviolabili limiti della vita privata e domestica. Si diffondono sulle colonne dei giornali quotidiani i dettagli delle relazioni sessuali al solo scopo di soddisfare un gusto pruriginoso”.

    Brandeis e Warren nuotavano contro la corrente della storia. In realtà, Brandeis stesso divenne più tardi uno dei maggiori paladini dell'opinione secondo cui i giornali non avevano solo il diritto, ma anche il dovere di rivelare i segreti, giungendo a scrivere che “la luce del sole pare sia il migliore dei disinfettanti” per i comportamenti oscuri del Big Business. Diede poi anche un'interpretazione allargata e influente del primo emendamento. Questo conflitto nel pensiero di Brandeis sottolinea la natura dualistica del termine “rivelazione” che, allora come oggi, può descrivere o lo svelamento salutare di una malefatta, o l'invasione della sfera personale. Non fu un caso che nell'era progressista prosperassero le indagini sui potenti da parte di giornalisti investigativi come Lincoln Steffens e Ray Stannard Baker, insieme al sensazionalismo di William Randolph Hearst.

    Tuttavia, proprio nel periodo in cui si guardava a queste rivelazioni come a un principio progressista, le storie di sesso e politica caddero in declino. Dopo i resoconti su Cleveland, nessuno scandalo che coinvolgesse politici di quell'importanza riuscì ad approdare alla prima pagina. Non che ne mancasse l'occasione. Nel 1915 Woodrow Wilson, da poco vedovo, corteggiò appassionatamente Edith Galt della Casa Bianca. Ma mentre i conoscitori di Washington spettegolavano (secondo le malelingue, quando Woodrow le chiese la mano, Edith ne fu tanto sorpresa da cadere dal letto), il pubblico rimase all'oscuro del legame tra i due fino a quando non venne annunciato il fidanzamento. Le imprese extraconiugali di Warren Harding hanno provocato risatine solo dopo la sua morte, quando la biografia senza veli di una delle sue amanti, Nan Britton, vantò i loro incontri amorosi nelle toilette della Casa Bianca. La relazione di Franklin D. Roosevelt con Lucy Mercer (poi Rutherfurd), e quelle probabili con altre donne, non vennero mai raccontate, così come la probabile relazione tra Dwight Eisenhower e la sua autista e segretaria, Kay Summersby. Estes Kefauver, candidato democratico alla presidenza nel 1956, era noto ai giornalisti per essere un gran donnaiolo; una volta, mentre il pullman della campagna elettorale si trovava in una città dell'Upper Midwest, si fece sfuggire un “Ho bisogno di una scopata!” a tiro d'orecchie di Russell Baker del New York Times. Baker non diede notizia di quella esigenza, né dell'atto corrispondente.

    In generale però, i giornalisti non si erano ammansiti. A parte la politica, il sensazionalismo e il pettegolezzo erano vivi e vegeti. Silas Bent, un importante critico della carta stampata, scrisse negli anni Venti: “I lettori dei quotidiani avvertono nella libertà della stampa il privilegio di invadere la loro sfera privata, di stampare la loro foto senza chiederne l'autorizzazione, di riversare sulla soglia della loro casa la sporcizia raccolta dai tribunali e di santificare, per maggior gloria del proprio tesoro,  pugili disperati, nuotatori da grandi imprese, giocatori di football, ballerine di fila e aviatori”.
    Ma vari fattori hanno posto dei limiti alle rivelazioni sulla vita sessuale dei politici. Il giornalismo di qualità, come quello che si può leggere su Times, New York Tribune o  Associated Press, ha rifiutato le tradizioni dei giornali scandalistici della Gilded Age e dei tabloid loro successori, preferendovi correttezza, professionalità e pulizia. A partire da Theodore Roosevelt, i presidenti iniziarono a constatare che l'interesse crescente su di loro in quanto personalità, talvolta persino celebrità, ivi compresa la fame di dettagli su famiglia, passatempi e via dicendo, rappresentava non tanto una minaccia, quanto un'occasione per plasmare le notizie. Sfruttando i primi esperti nel campo delle pubbliche relazioni, come Edward Bernays e Bruce Barton, riconquistarono un controllo parziale sulla propria immagine pubblica. Fecero diventare loro confidenti i giornalisti più influenti, così da renderli parte dell'élite di governo. Giunti a metà del secolo, James Reston, giornalista del New York Times, parlava della “piacevole relazione tra giornalisti e funzionari statali” in cui lui stesso si crogiolava. Come ha scritto lo storico John Summers, la “psicologia dell'isolamento” proteggeva i funzionari statali da indagini indebite, cosicché era impensabile che una persona come Ben Bradlee, allora primo corrispondente da Washington di Newsweek, desse fiato alle trombe per divulgare le avventure del suo amico Jack Kennedy. Se l'aggressività della stampa nella Gilded Age nasceva dal desiderio di indebolire la classe al potere, negli anni Cinquanta e nei primi Sessanta la stampa, o quantomeno quella parte della stampa che stabiliva di cosa parlare, faceva ormai parte di quella stessa classe al potere.
    Oggi è normale guardare a quel periodo di moderazione come a un momento d'impaccio. Ci scandalizza l'idea di una classe di giornalisti troppo innamorata del potere, o troppo spaventata dall'ansia generata dalla Guerra mondiale e dalla Guerra fredda, per denunciare che chi ci rappresenta ha i piedi d'argilla. Regolarmente diciamo che la stampa ha “coperto” JFK. Ma i giornalisti all'epoca non si preoccupavano tanto di nascondere le vicende di Kennedy, quanto piuttosto di adeguarsi al codice professionale e sociale della loro epoca, secondo cui la vita privata dei politici costituiva un mondo privilegiato.

    Questo regime di moderazione che ha caratterizzato la metà del secolo scorso ha iniziato a sfaldarsi quando il conformismo degli anni Cinquanta ha lasciato spazio alla schiettezza ribelle degli anni Sessanta, con un'accelerata dopo le grandi delusioni presidenziali del Vietnam e del Watergate. Tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta, molti americani hanno partecipato a un nuovo progetto di rivelazioni successive: i comitati del Congresso hanno sollevato il sipario sulle malefatte della Cia, gli attivisti radicali hanno “liberato” i fascicoli dell'Fbi, i gruppi di interesse pubblico hanno richiesto norme che garantissero l'accesso ai dati conservati negli archivi di stato. I più importanti furono i cosiddetti New Muckrakers (dove to muckrake significa appunto fare indagini tra i pezzi grossi), una manciata di giornalisti il cui lavoro costituì l'età d'oro del giornalismo investigativo: Bob Woodward e Carl Bernstein svelarono il Watergate, Seymour Hersh documentò il massacro di My Lai e lo spionaggio interno della Cia. Questo tipo di giornalismo divenne prevalente: quotidiani e riviste crearono unità specializzate per svolgere le indagini più approfondite e la Cbs creò il programma di approfondimento “60 Minutes”. I corrispondenti dalla Casa Bianca assunsero una posizione più interlocutoria e il legame tra i piani alti dei media e della politica si sfilacciò.

    Così come il giornalismo investigativo dell'era progressista aveva portato una sua dose di sensazionalismo, anche il New Muckraking fece nascere imitatori dallo stile investigativo raffazzonato e indiscriminato. (Come chiarisce Mark Feldstein nel suo recente libro “Poisoning the Press”, il giornalista Jack Anderson attraversò più volte il confine tra le due forme di giornalismo: sebbene abbia ricevuto il Pulitzer per aver rivelato i segreti della politica estera dell'Amministrazione Nixon, violò le norme correnti quando rivolse accuse, o insinuazioni, di omosessualità a varie figure politiche, tra cui il figlio di Spiro Agnew). Per lungo tempo la cultura politica ha traboccato di una “smania di rivelazioni” che ha consumato le energie di orde di giornalisti, direttori di giornali e di reti televisive. Ancora nel 1974, piccoli scandali sessuali che in passato sarebbero rimasti tra le lenzuola, come la notizia delle scappatelle del membro del congresso Wilbur Mills con la spogliarellista Fanne Foxe, soprannominata “petardo argentino”, irrompevano nei notiziari. Chiedere discrezione nel mondo del giornalismo significava, come già in passato, nuotare controcorrente.

    In aggiunta, le nevrosi dei presidenti Johnson e Nixon avevano contribuito ad associare la sfera personale a quella politica. Per evitare che un altro paranoico si insediasse alla Casa Bianca, i giornalisti iniziarono a scandagliare la psiche stessa dei leader della nazione. Un momento cruciale di questa transizione fu la pubblicazione nel 1976 del secondo libro di Woodward e Bernstein, intitolato “The final days”, che costituiva il seguito di “Tutti gli uomini del Presidente”. Mentre il primo volume incarnava il “nuovo scandalismo”, raccontando la storia del Watergate dal punto di vista dei giornalisti, il secondo, incentrato sulla battaglia di Nixon per conservare il proprio incarico, assunse un tono onnisciente e le sue numerose rivelazioni erano inframmezzate da notizie intriganti sul matrimonio senza amore dei Nixon. Questa sorta di scrutinio venne condotto anche sui presidenti di epoche ormai lontane. La metà degli anni Settanta fu testimone delle rivelatrici “Conversations with Kennedy” di Ben Bradlee; dell'inchiesta del Senato che mise a nudo la relazione di JFK con Judith Campbell Exner, sospettata di fungere da tramite con la mafia; delle memorie di Kay Summersby, nelle quali confessava la relazione avuta con Ike, e dell'autorevole psico-biografia di Thomas Jefferson scritta da Fawn Brodie, che rinfocolò l'interesse riguardo al rapporto del presidente con Sally Hemings.

    I giornalisti iniziarono anche a passare al vaglio i potenziali presidenti sulla base dei loro costumi sessuali. Nella campagna del 1976, Jimmy Carter pose la questione del carattere in modo centrale e prioritario, facendo voto di assoluta sincerità. Parlando candidamente su Playboy del desiderio che provava nei confronti di donne che non erano sua moglie, avallò un nuovo standard di apertura sessuale, allo stesso tempo difendendo un modello di rettitudine morale in ambito sessuale. Paradossalmente, la dichiarazione di Carter incoraggiò sia i liberali, che miravano a cancellare i tabù sessuali, sia i conservatori, che volevano invece farli rispettare. Da questo periodo in avanti, la vita sessuale dei personaggi che ricoprivano incarichi pubblici divenne sempre più un facile bersaglio tanto per la stampa quanto per i membri attivi della scena politica di entrambe le parti, che assorbirono la cultura dell'esposizione mediatica all'interno delle proprie ideologie in modo funzionale alle proprie esigenze.

    Il modificarsi degli standard si rese visibile anche dagli argomenti che i giornalisti reputavano abbastanza scandalistici da meritare di essere resi pubblici. Sembrava ormai assurdo sollevare un polverone attorno a un divorzio, e in occasione delle elezioni del 1980 furono in pochi a lasciarsi condizionare dal fallimento del primo matrimonio di Ronald Reagan. D'altro canto, l'adulterio occupava ormai una posizione ambigua: non era più così sconveniente da dover essere tenuto nascosto a tutti i costi, ma neppure abbastanza accettato da essere considerato di normale amministrazione. E così nel 1987 Gary Hart, candidato di punta dei democratici per la nomina del 1988, quando il Miami Herald rese pubbliche le sue effusioni con la modella Donna Rice a bordo dello yacht Monkey Business divenne il primo candidato alla presidenza costretto a interrompere la propria campagna per adulterio. Lo scandalo Rice rappresentò un'invasione eccessiva dello spazio personale di Hart? (Secondo un sondaggio Gallup condotto poco dopo il suo ritiro, il 64 per cento degli intervistati riteneva che la stampa lo avesse trattato in modo scorretto). Oppure fu legittimo divulgare informazioni preziose riguardanti i tratti di un potenziale presidente?

    La storia non ha mai fornito valide ragioni per credere che un comportamento sessuale scorretto, oppure l'inganno o l'ipocrisia che comporta, renda un politico inadatto alla leadership (Richard Nixon, pur essendo monogamo, è stato di gran lunga il presidente americano più corrotto, mentre Ted Kennedy, sebbene dissoluto a livello personale, è stato uno dei senatori più grandi). Ma nel caso di Hart, la stampa si pronunciò decisamente a favore della divulgazione appigliandosi alla discutibile motivazione del “carattere”. Poiché Hart aveva mentito per nascondere la sua relazione con la Rice, addirittura sfidando stupidamente la stampa a “pedinarlo”, numerosi giornalisti affermarono di ritenere che l'incidente fosse indicativo di un difetto caratteriale, come la disonestà, la mancanza di scrupoli o peggio. In breve si diffuse il costume di supporre che le relazioni sentimentali o le scappatelle a sfondo sessuale di un politico ne rivelassero la fibra morale, soprattutto quando comportavano (come accade per la maggior parte delle relazioni extraconiugali) menzogne e sotterfugi.
    Proprio mentre la rivoluzione sessuale contribuiva a far spostare l'adulterio dall'ambito privato a uno più pubblico, il femminismo stava riformulando il concetto culturale di molestia sessuale. Gli scandali che travolsero il membro della Corte Suprema Clarence Thomas e il senatore Bob Packwood negli anni 90 furono esemplari della rapidità con la quale comportamenti un tempo tollerati potevano divenire inaccettabili, e consolidarono una sorta di sostegno bipartisan al commercio di storie di sesso in ambito politico. I liberali potevano invocare la necessità di divulgare le informazioni a difesa della parità e della dignità delle donne, mentre i conservatori – che vantavano una lunga tradizione nel tenere il comportamento privato al riparo dalla censura della comunità – ora la vedevano come un utile mezzo per santificare i “valori della famiglia”.

    Pertanto, quando l'infedeltà di Bill Clinton iniziò a divenire nota, per i conservatori fu un'occasione irresistibile per dipingerlo come la prova vivente dello sfacelo morale del liberalismo. Nei primi periodi della presidenza di Clinton, alcuni leader del Grand Old Party erano preoccupati di apparire incoerenti. “I repubblicani che si erano fatti sentire a gran voce per la vicenda di Anita Hill difficilmente ora sono nella posizione di voltare pagina e andare in giro difendendo Paula Jones”, fu quanto Newt Gingrich affermò con i propri colleghi nel 1994. Ma quando rispuntò fuori lo scandalo di Monica Lewinsky, Gingrich non esitò a unirsi agli accusatori. Alla fin fine, Gingrich ne soffrì più di Clinton, per lo meno dal punto di vista politico: nel 1998, con la propria relazione extraconiugale che faceva capolino da dietro le quinte, fu costretto ad abbandonare la carica di presidente della Camera proprio mentre stava mettendo il presidente sul banco degli imputati. Anche altri dirigenti del Gop passarono dei guai a causa delle loro infedeltà, in quanto la logica spietata della divulgazione dei comportamenti sessuali non risparmiò i suoi sostenitori più dei suoi stessi bersagli. Nel frattempo Clinton riuscì per contro a lasciare la Casa Bianca con il più alto consenso da parte dell'opinione pubblica rispetto a qualsiasi altro presidente uscente da quando l'agenzia Gallup aveva iniziato a condurre i relativi sondaggi.

    Il giornalismo di oggi che sforna uno scandalo al mese è ormai chiaramente fuori controllo. Le tesi, molte delle quali piuttosto traballanti, intese a fare pendere l'ago della bilancia tra privacy e divulgazione pubblica verso quest'ultima, si sprecano. In alcuni casi, come quello di John Edwards, i giornalisti giustificano l'importanza di una storia con ragionamenti squisitamente circolari: qualsiasi politico che si lasci coinvolgere in attività sessuali poco ortodosse o rischiose merita di essere estromesso e punito in quanto carente di capacità di giudizio, dal momento che ognuno di noi è consapevole del fatto che nel nostro panorama mediatico attuale prima o poi il proprio comportamento farà esplodere uno scandalo che gli arrecherà danno. Altre volte, la copertura dedicata agli scandali viene difesa in quanto “servizio giornalistico”, dove i vari esperti si servono del quesito se la storia debba essere trattata, come pretesto per trattarla. E ormai da decenni, la progenitrice di tutte le tesi è la questione del “carattere”, nata nel contesto del Vietnam e del Watergate e divenuta onnipresente dopo Gary Hart.

    Ancora più problematici sono stati i casi in cui la divulgazione delle notizie ha preceduto le prove. Sebbene Dominique Strauss-Kahn, il cui nome figura in relazione ad altri presunti episodi di violenza e abuso sessuale, possa non meritare alcuna simpatia, è comunque stato dichiarato colpevole dalla stampa prima ancora che emergessero complicati dettagli relativi alla sua famigerata liaison che ha avuto per teatro una camera d'albergo. Durante le ultime due elezioni presidenziali, per due dei candidati di punta sono apparse affermazioni o insinuazioni di adulterio (John Kerry su numerosi quotidiani nel 2004 e John McCain sul New York Times nel 2008) senza prove a sostegno.

    Ma lamentarsi della copertura mediatica è improduttivo; la smania per gli scandali a sfondo sessuale non si placherà fino a quando non scemerà l'appetito del pubblico. Nonostante le apparenze, questo può accadere, almeno per quanto riguarda alcune tipologie di comportamento sessuale. Così come il divorzio non suscita più interesse, il dibattito in corso sulla divulgazione di informazioni private relative a funzionari pubblici gay suggerisce che anche l'omosessualità sta per abbandonare l'ambito dello scandalo. Durante gli anni 90, gli attivisti gay radicali si premurarono di svelare l'omosessualità di alcuni membri conservatori del Congresso, giustificando tali iniziative con la denuncia dell'ipocrisia dei componenti del Congresso che votavano contro i diritti dei gay. Gran parte dei media tradizionali ignorò tali sforzi. Quando nel 1989 una campagna diffamatoria promossa dai repubblicani che tacciava il presidente democratico della Camera Tom Foley di essere gay divenne troppo pressante per essere ignorata, la stampa la denunciò definendola una “calunnia”. In tempi più recenti, tuttavia, dove essere gay ha perso buona parte della sua connotazione di infamia, i mezzi di comunicazione hanno iniziato a rivelare l'omosessualità dei politici in alcune limitate condizioni, veicolando il messaggio implicito che la loro sessualità non è più di per sé oggetto di discussione. Per un certo periodo erano circolate voci che Mark Foley, Larry Craig e Jim McGreevey fossero gay, senza che ne comparisse cenno sulla stampa. Ma ogni qualvolta le agenzie e le testate giornalistiche hanno avuto un pretesto legittimo per sollevare il velo – accuse a Mark Foley di avere molestato un paggetto minorenne del Congresso, a McGreevey di avere messo un amante sul libro paga dello stato, a Craig di avere richiesto prestazioni sessuali nella toilette di un aeroporto –  non si sono tirate indietro. Lo scorso anno, quando il membro della Corte Suprema Elena Kagan venne falsamente sospettata di essere gay, alcuni giornalisti la sollecitarono a svelare maggiori particolari sulla sua vita sessuale, sostenendo che la sua presunta omosessualità non costituiva uno scandalo, ma piuttosto un particolare del tutto irrilevante. Su questo tema, almeno, il rapporto tra il diritto alla privacy di un personaggio pubblico e il diritto del pubblico di sapere sta trovando un nuovo equilibrio.

    Nel frattempo, a mano a mano che vengono divulgati sempre maggiori particolari sulla vita sessuale dei politici, diviene sempre più difficile sostenere che un donnaiolo o chi si comporta in modo sconveniente debba essere bandito dalle cariche pubbliche. L'impeachment di Clinton ha svelato l'esistenza di uno scollamento tra l'esercito censore della stampa e una collettività molto più tollerante e con il passare del tempo le questioni sessuali sono apparse via via più irrilevanti nelle valutazioni del suo operato come presidente. Allo stesso modo, le visite di David Vitter a una prostituta non hanno impedito ai cittadini della Louisiana di rieleggerlo. In mezzo alla recente ondata di scandali, la storia si ripete. Nonostante i presunti abusi compiuti, sotto molti punti di vista Strauss-Kahn ha svolto il proprio incarico presso il Fmi con competenza. L'irrefrenabile appetito sessuale di Arnold Schwarzenegger, descritto con profusione di dettagli prima della sua elezione e confermato dalla scoperta della sua relazione, non ha mai influito negativamente sul suo ruolo di governatore. E in realtà nessuno ha cercato di sostenere che la pratica del “sexting” da parte di Anthony Weiner nel passato abbia interferito con il suo operato; la causa delle sue dimissioni fu che il can-can mediatico costruito su questo suo hobby sconveniente avrebbe costituito una “distrazione” rendendolo meno efficiente, una profezia autoavverante se mai ve ne fu una. Non per nulla Weiner ricevette il sostegno dalla maggior parte dei suoi elettori anche quando rassegnò le dimissioni a causa della pressione esercitata dai media e dai suoi compagni di partito.

    Si ha la tentazione di auspicare la creazione di un codice che insegni ai giornalisti come giudicare se la vita privata di un politico debba essere resa pubblica. Ma la redazione di un prontuario sarebbe un esercizio futile. I nuovi sviluppi seguiteranno a presentarci casi, come quello di Weiner, per i quali non esistono precedenti applicabili. Cosa ancora più importante, anche la nostra cultura si trasforma, e con essa i nostri standard. La natura fluida della morale sociale riguardo al sesso dovrebbe consigliare una politica all'insegna dell'umiltà e della moderazione: via via che le regole sociali evolvono, la stampa deve fermarsi un attimo prima di presumere che un comportamento che nel momento contingente appare come scandaloso debba squalificare qualcuno dal concorrere a un incarico pubblico o impedirgli di mantenerlo. Possiamo convenire che è rilevante il fatto che un politico trascuri gravemente importanti doveri, adotti comportamenti prettamente criminali o faccia un uso improprio di fondi pubblici. Se un governatore sparisce per giorni interi per far visita alla propria amante, la stampa dovrebbe intervenire, come è accaduto per Mark Sanford. Ma se il candidato che si presenta per succedergli è semplicemente sospettato di avere una (o più di una) relazione extraconiugale, come nel caso di Nikki Haley nel Sud Carolina, è difficile sostenere che questo sia rilevante.

    Eppure, se metteremo mai un freno alla cultura dell'esposizione mediatica, non sarà perché i network e i quotidiani opteranno per un nuovo regime di reticenza obbligata. Più presumibilmente accadrà quando la nostra società avrà raggiunto un livello di tolleranza civica così alto da tacitare la reazione del pubblico alla divulgazione di maldicenze scandalistiche. Forse questo è il risvolto positivo imprevisto della spietata esposizione dei politici, sia dei dissoluti che dei “troppo umani”, frutto dell'era di Internet: creando un'assuefazione del pubblico alla dose quotidiana di volgarità, queste rivelazioni possono aiutarci ad approdare a un luogo in cui solo le reali violazioni della fiducia pubblica sono punite con pene aspre e durature. Forse il pubblico, nonostante il suo appetito del tutto naturale e chiaramente persistente di conoscere particolari piccanti sulla vita degli illustri e potenti, sta iniziando a crearsi una propria opinione su quali trasgressioni siano realmente importanti.

    di David Greenberg

    (Traduzione di Elia Rigolio e Studio Brindani). © 2011 The Atlantic Media Co.