I pm non ci fanno, ci sono

Guido Vitiello

Non chiamiamola faccia di bronzo, per quanto forte sia la tentazione, e quella falsa saggezza tutta inquisitoria secondo cui a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca lasciamola alle anime grigie e incattivite. Resta però il problema di spiegare in qualche altro modo fenomeni curiosi come l'indignazione civile di Ilda Boccassini per le intercettazioni pubblicate sui giornali.

    Non chiamiamola faccia di bronzo, per quanto forte sia la tentazione, e quella falsa saggezza tutta inquisitoria secondo cui a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca lasciamola alle anime grigie e incattivite. Resta però il problema di spiegare in qualche altro modo fenomeni curiosi come l'indignazione civile di Ilda Boccassini per le intercettazioni pubblicate sui giornali, il richiamo alla serietà rivolto ai media qualche mese fa da Antonio Ingroia per la “kermesse” scatenata intorno al caso Ciancimino, le doglianze dei pm del processo Meredith per l'intollerabile “pressione mediatica” e la “Caporetto dell'informazione”.

    Sembra di capire che per certi magistrati
    il vento dei media sia buono o cattivo a seconda che soffi in poppa o schiaffeggi la prua. Qualcosa non torna, ed è lo stesso qualcosa che non tornava già nel caso Tortora, grande prova generale dei tempi nuovi. Dopo l'assoluzione in appello, quand'era in corso la campagna referendaria per la responsabilità civile dei magistrati e l'immagine della Procura di Napoli certo non rifulgeva, un giudice si lagnò con i giornali perché “quel maledetto processo” aveva turbato il “buon modo silenzioso di amministrare la giustizia”. Tortora, dal canto suo, raccomandava di meditare a fondo la “gesuitica perfidia” di quelle parole. Vediamo se riusciamo ad afferrarne la logica: ben venga il clamore quando si tratta di annunciare l'arresto all'Ansa prima che all'arrestando, o di far compiere a Tortora un improvvisato perp walk dalla caserma dei carabinieri alla gazzella che lo condurrà a Regina Coeli, fatta posteggiare lontano a beneficio di cameramen e fotografi; ben venga il clamore quando si gioca con i giornalisti alla “squadretta” – uno ti regge, l'altro ti mena – sulla pelle dell'indagato; ben venga il clamore quando (non c'era ancora Annozero) si vuole presenziare in gran pompa mondana alla presentazione di “Gianni il Bello”, autobiografia del pentito Melluso. Quando però quello stesso clamore rischia di ritorcersi contro la corporazione, ecco che il magistrato abbandona la prima linea e si rintana nelle retrovie, dismette la giacca a frange dello sceriffo o le paillette dell'uomo di spettacolo per rivestire la tonaca del sacerdote della legge che non vuole flash e baccano alle sue messe.

    Per raccapezzarsi un poco in questo bizzarro modo di pensare che sembra assai diffuso tra le toghe viene utile un libro appena uscito, “In giustizia” di Giancarlo De Cataldo (Rizzoli), dove il magistrato-scrittore racconta i suoi trent'anni nelle aule di tribunale. Fino a che punto De Cataldo condivide i riflessi pavloviani della corporazione cui appartiene? C'è un metodo peritale infallibile per scoprirlo, che consiste nel rilevare la presenza o meno di due tormentoni: la carta delle fotocopie che scarseggia e l'ispirazione piduista della riforma della giustizia, una castroneria che dovrebbe far concludere che gran parte del mondo civile è retto da secoli da Licio Gelli o dai suoi antenati. Il primo tormentone arriva a pag. 164 (“stiamo esaurendo la carta per le fotocopiatrici”), il secondo a pag. 219 (“parte del disegno ipotizzato dal Venerabile Maestro è stato realizzato”), dunque procediamo.

    Il libro è tutto soffuso di una velata
    nostalgia per il vecchio caro rito inquisitorio, e non c'è progresso garantista, pur timido, che non evochi in De Cataldo immagini di mafiosi che brindano con i loro avvocati. Il referendum Tortora? Una clava brandita da “tutti i politici” (sic) contro i giudici (“Molti mi chiedono perché ce l'abbiano tanto con noi”). Tutto ciò che sa di America, anche alla lontana, gli dà il voltastomaco, e la sua miscela di indulgenza per i pm e degnazione per gli avvocati (che però stanno simpatici alla gente, mannaggia a Perry Mason!) fa di “In giustizia” un formidabile pamphlet involontario per la separazione delle carriere.

    Che le intercettazioni ottenute in modo irregolare non siano utilizzabili, poi, fa “imbestialire” De Cataldo: ma come, bisogna far finta di non vedere l'elefante solo perché il pm ha “usato il registratore sbagliato”? Soprattutto – e arriviamo al punto – lo inquieta la giustizia da talk show, quel “lombrosianesimo mediatico” che ci fa tifare per i belli e i simpatici.
    C'è da dire che come giudice De Cataldo ha sempre tenuto un profilo sobrio, riservando le sue piccole vanità al secondo mestiere di scrittore di noir (memorabile la foto che lo ritrae in cappotto nero e bavero rialzato, con uno sguardo minacciosamente vitreo, perfetto incrocio tra Bogart e Nosferatu). Almeno in un caso, tuttavia, si è trovato suo malgrado sotto i riflettori: il processo di primo grado per l'omicidio di Marta Russo, di cui era giudice a latere. Un osservatorio ideale per vedere all'opera in tutta la sua gloria fracassona il circo mediatico-giudiziario, dalla reboante conferenza stampa in cui gli investigatori diedero l'annuncio “il caso è chiuso” – improvvido almeno quanto il mission accomplished di Bush in Iraq – al sordido rituale di degradazione a cui furono sottoposti i due principali imputati da parte di giornali, talk show e opinionisti antropofagi. Niente: De Cataldo non si è accorto di niente. Per lui il caso mediatico-giudiziario di quel processo è semmai che “i nostri imputati, dopo la sentenza, sono ospiti di uno special di Bruno Vespa”. Non lo sfiora il pensiero che due persone la cui immagine è stata fatta a polpette per mesi mentre erano in carcere in attesa di giudizio possano voler cogliere un'occasione per rimediare un poco alla mattanza.

    Ma questo è nulla a confronto della paginetta bonariamente gesuitica che De Cataldo dedica al famigerato video-choc della torchiatura della testimone Alletto, che suscitò le condanne quasi unanimi del ceto politico e dell'allora premier Romano Prodi. Anni dopo, De Cataldo incontra in tribunale uno degli avvocati che “si dannarono l'anima (sic) nel processo Marta Russo”. Lo trova “invecchiato, come tutti, e meno aggressivo di un tempo”. L'avvocato gli confessa che era stato lui a passare il video ai Tg. “Non è stata una bella azione, gli dico” – e immaginiamo con che tono santimonioso e curiale. Eppure, ha un moto di simpatia per il peccatore: “L'Italia è un Paese duro verso i giovani, devono sgomitare per procurarsi delle chance, lui ha intravisto la possibilità e l'ha colta al volo”. E capisce, una volta di più, che “un solco profondo separerà chi lavora per lo Stato e chi per una parte”. Niente, le cose gli passano sotto gli occhi e De Cataldo proprio non le vede: il vero scandalo del caso Alletto, che era uno scandalo grande quanto una casa, diventa il rampantismo dei giovani avvocati, uomini di parte, un male da cui sono immuni i pm, che grazie alle carriere unite sprizzano cultura della giurisdizione. E già, lo immaginate un giovane magistrato che cerca il suo quarto d'ora di celebrità facendo filtrare qualche carta alla stampa?

    Tutto questo De Cataldo lo scrive,
    ne siamo persuasi, nella più cristallina buona fede, e proprio per questo il suo esame di coscienza di un magistrato offre uno spaccato magnifico e onesto dell'ideologia della corporazione togata. Con quale candore lamenta che il controllo dello strumento dei pentiti non sia stato affidato integralmente ai magistrati perché “nessuno si fida sino in fondo di noi”, come se la sempre invocata divisione tra i poteri non si reggesse appunto sulla loro diffidenza reciproca! E con quale contrito stupore assiste ai pur goffi tentativi di regolare il grande potere dei magistrati, che “si arrogano il diritto di giudicare solo perché hanno vinto un concorso. Mica sono stati eletti dal popolo, loro!”. La faccia di bronzo non c'entra nulla. Il problema non è che ci fanno, il problema è che ci sono, ed è un problema assai più grave.