Il racconto di un inviato

Raccontare la guerra grazie a Steve

Fausto Biloslavo

Una volta c'era l'Olivetti 32, poi è arrivato il computer, ma la vera rivoluzione, per il giornalismo di guerra, è stato il Mac. Non stiamo parlando solo di un modello di computer alla moda, un segno distintivo di appartenenza al clan universale della mela, un po' snob ed elitario.

    Una volta c'era l'Olivetti 32, poi è arrivato il computer, ma la vera rivoluzione, per il giornalismo di guerra, è stato il Mac. Non stiamo parlando solo di un modello di computer alla moda, un segno distintivo di appartenenza al clan universale della mela, un po' snob ed elitario. Il primo Mac che ho usato in redazione, in un quotidiano di provincia, era il mitico scatolotto SE con la fulminante novità del mouse. Non certo quelli a forma spaziale di oggi e senza fili, ma pur sempre un aggeggio del futuro. Dopo anni il mouse ti provoca l'artrosi alla spalla, ma ha rivoluzionato il modo di usare i computer.

    A New York ho comprato il primo portatile Apple per inaugurarlo nel mattatoio dei Balcani degli anni Novanta. La guerra in Bosnia l'avevo raccontata con l'antica macchina da scrivere e una candela per far luce nel buio. Il sistema perfetto quando le granate cancellavano l'elettricità. Con la scoperta delle fosse comuni di Srebrenica ho cominciato a usare il portatile. Una macchina spessa e grigia con una rotella sulla tastiera grossa come una pallina da ping pong, ma che funzionava a meraviglia. Dalla Bosnia al Kosovo giravo con Raffaele Ciriello il fotografo che verrà ucciso da una raffica a Ramallah. Cultore del Mac sosteneva che le sue foto non avrebbero mai potuto venir scaricate, visionate e lavorate allo stesso modo su un computer diverso.

    Poi l'evoluzione visionaria di Steve Jobs ha prodotto macchine sempre più potenti e affidabili, oltre che resistenti e per questo adatte ai reportage di guerra. In Afghanistan, subito dopo l'11 settembre 2001, non so come il vecchio portatile tosto e nero ha resistito per mesi lungo le piste che attraverso l'Hindu Kush portavano a Kabul in mezzo ai bombardamenti dei B 52. La prima notte di attacco americano dal cielo eravamo andati ad assistere allo “spettacolo” della guerra in prima fila nella pianura di Shomalì. Con il portatile della Mela sulle ginocchia mi ero messo a scrivere nel mezzo del nulla, ma i talebani si indispettirono lanciandoci una raffica di granate di mortaio. Nel fuggi-fuggi generale, in mezzo alle esplosioni che illuminavano il buio, pensai solo a mettere in salvo la pelle. Una volta giunto al sicuro mi resi orribilmente conto che avevo lasciato sul campo di battaglia il fidato amico elettronico. Nel panico totale scatenai l'allarme con tutti i comandanti dei mujaheddin che mi capitavano a tiro. Tornai al sorriso quando un giovane anti talebano con il kalashnikov a tracolla arrivò nel cuore della notte nel misero rifugio dei giornalisti per portarmi l'amato Mac, che aveva trovato per caso.

    In Iraq durante l'invasione del 2003, che fece crollare Saddam Hussein, il nuovo portatile della Mela non mi ha mai abbandonato quando ogni sera, in mezzo al deserto, appollaiato sul tetto della jeep trasmettevo il pezzo al Foglio via telefono satellitare. Steve Jobs, che era un pacifista di natura, si rivolterà nella tomba, ma al suo portatile con la mela sono affezionato, come al giubbotto anti proiettile. Non è un caso che tutti i grandi fotografi di guerra usano il Mac in prima linea. Per non parlare dell'ultima rivoluzione dell'iPhone, il melafonino, che dall'oramai storico hotel Rixos di Tripoli, l'unico posto dove reggeva internet, mi permetteva il collegamento via Skype per aggiornare il sito sulla guerra in Libia.