Il Cav. non raccoglie la chiacchiera referendaria e promette di durare

Salvatore Merlo

Vorrebbe strappare via le ragnatele e i veli, imporre la concordia ai nemici interni, spingere il partito all'unità di un solo potente appetito: durare. Lo ha fatto capire, ieri, in modo spiazzante ed efficace: “Non mi occupo della riforma elettorale ma della manovra economica e dello sviluppo”. Silvio Berlusconi cerca di imporre al Pdl – e forse persino a se stesso, scisso com'è tra la responsabilità di essere presidente del Consiglio e l'allegra stravaganza di essere l'anomalia Berlusconi – il ritmo del grande desiderio: nessun conto alla rovescia per le elezioni anticipate.

    Vorrebbe strappare via le ragnatele e i veli, imporre la concordia ai nemici interni, spingere il partito all'unità di un solo potente appetito: durare. Lo ha fatto capire, ieri, in modo spiazzante ed efficace: “Non mi occupo della riforma elettorale ma della manovra economica e dello sviluppo”. Silvio Berlusconi cerca di imporre al Pdl – e forse persino a se stesso, scisso com'è tra la responsabilità di essere presidente del Consiglio e l'allegra stravaganza di essere l'anomalia Berlusconi – il ritmo del grande desiderio: nessun conto alla rovescia per le elezioni anticipate che rimangono la soluzione estrema sullo sfondo, nessun nodo in gola per il processo Ruby che pure avanza pericolosamente a Milano, niente ansia per il referendum elettorale che a gennaio potrebbe essere dichiarato legittimo dalla Corte costituzionale. Via la paura, ostenta e affetta ottimismo il Cavaliere. Ha “affidato il futuro” ad Angelino Alfano, a lui il compito di occuparsi della riforma elettorale, di negoziare con Pier Ferdinando Casini, se necessario, e di parlare anche con la Lega. Il Cavaliere, si sa, è mutevole. Ma per adesso la pensa così.

    A Berlusconi non interessa la riforma elettorale, “io non me ne occupo” – dice – e quando si esprime in questo modo il presidente del Consiglio, che i sondaggi non ha mai smesso di leggerli anche quando il suo gradimento personale è sceso al di sotto dei consensi del Pdl, implicitamente vuole dire due cose: la legislatura arriverà a scadenza naturale, e non è detto che la prossima volta sia io il candidato. Anzi, “non ha granché voglia di ricandidarsi. A me non sembra probabile che lo faccia”, dice Gaetano Quagliariello a Radio2, e il vicecapogruppo del Pdl in Senato rivela in pubblico per la prima volta quello che da molti giorni confidava riservatamente agli amici. Perché Berlusconi è imprevedibile, e conserva sempre nella mansarda delle sue invenzioni bizzarre (ma di successo) l'idea di un nuovo predellino, modello Tea Party, dell'eterna riproposizione di sé; ma pure inclina per la soluzione che ormai in troppi gli suggeriscono: durare, durare e durare, fare le riforme ma per poi cedere il passo e dunque la candidatura a premier. “Dobbiamo governare, calma e gesso. Oggi comincia l'iter della riforma costituzionale in Senato, ci vuole responsabilità. Per parlare di legge elettorale abbiamo otto mesi, e c'è Alfano per fare queste cose”, dice Maurizio Gasparri.

    E dunque tocca al segreterio del Pdl (e a Denis Verdini) l'incarico di gestire, e trasformare in una opportunità, la grana politica del referendum elettorale che, messo in piedi da Arturo Parisi, forte di quasi due milioni di firme, ha già modificato il quadro della legislatura. “Osservando tutto con freddezza ci sono tre possibilità”, dice Fabrizio Cicchitto: “Elezioni anticipate al 2012, riforma della legge elettorale da fare prima del referendum, voto sul referendum”. E delle tre qual è la migliore? “La riforma in Parlamento”. Ed è a questa soluzione, la più complicata, cui sta lavorando il partito di Berlusconi (ma non Berlusconi). E' la soluzione che consente al premier di guadagnare tempo, di difendersi meglio dai nemici nelle procure, nei tribunali, nelle redazioni dei giornali, in Parlamento; è l'opzione considerata “auspicabile” anche per consolidare la possibile leadership di Alfano, di cui, comunque vada a finire, il Cavaliere sarà socio e azionista privilegiato. Ci vuole tempo, si deve guadagnare tempo. E dunque: “Dobbiamo durare”.

    Roberto Maroni ha detto sì al referendum (non alle elezioni anticipate), e nel Palazzo tutti si chiedono cosa voglia veramente il ministro dell'Interno. La vecchia regola del Transatlantico è che ogni frase nasconde dei labirinti, dei trabocchetti, e spesso vi sono miraggi in fondo alle parole. E dunque il sottosegretario Andrea Augello dice che “Maroni occupa uno spazio di marketing riformista, è impegnato nei congressi del suo partito, esprime sempre posizioni originali che non per forza corrispondono poi a un indirizzo e a una precisa prassi politica”. Mentre il ministro Raffaele Fitto ipotizza che quello di Maroni sia stato “un segnale” a Casini, un modo implicito per spingere l'Udc a dialogare sulla riforma elettorale. Anche Franco Frattini si scopre referendario, ma come Maroni lascia dietro di sé il sospetto che appoggiare il referendum significhi affossare il referendum, essere a favore ma per orientare una riforma in Parlamento: “La modifica deve andare incontro al quesito referendario”, dice. Chissà. Fabrizio Cicchitto scrolla semplicemente le spalle, ha sufficiente esperienza per distinguere la confusione dalla dialettica. E il capogruppo del Pdl rende la cifra dei troppi fili che si attorcigliano sulla politica del centrodestra e sul Palazzo berlusconiano, soprattutto quando il capo lascia fare.

    Escluso Maroni tutti sembrano temerlo, il referendum di Arturo Parisi: “E' l'anticamera delle elezioni anticipate”, dicono. “E' un referendum contro questo Parlamento eletto con le liste bloccate”, ripetono. Per evitarlo, o si vota subito o si cambia (prima) la legge. Ma il Cavaliere non le agita più le elezioni anticipate, lo hanno avvertito di un rischio fino a ieri sottovalutato: la tenuta di Palazzo Madama, dove Beppe Pisanu, con il mai pensionato Lamberto Dini, organizza pranzi e cene dal carattere malmostoso. Persino Renato Schifani è osservato con sospetto, perché parla con Pisanu (“anima nera e vendicativa”) e poi ha un rapporto solido con il Quirinale. Per quarantacinque senatori del Pdl le elezioni anticipate sono la sicurezza di una mancata rielezione: un gregge in rotta, se preso dal panico. Certo, Roberto Formigoni e Gianni Alemanno, Claudio Scajola, Giuseppe Pisanu e Lamberto Dini non hanno i muscoli per strangolare nessuno. Eppure non si deve sottovalutare nulla, e dunque di voto al 2012 è vietato parlare (per adesso).

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.