Camera oscura

Quel che resta di Fini? Troppa libertà, futuro incerto e molti rimpianti

Salvatore Merlo

“Se soltanto si fosse dimesso prima del 14 dicembre…”, sospira Fabio Granata, che forse è il più generoso e rodomontesco dei deputati di Futuro e libertà, uno di quelli che non finge, perché a lui è chiara la natura di quei fischi consanguinei, pochi ma taglienti, che domenica hanno spinto Gianfranco Fini a chiudere frettolosamente il comizio di Mirabello: “Si era creata attesa.

    “Se soltanto si fosse dimesso prima del 14 dicembre…”, sospira Fabio Granata, che forse è il più generoso e rodomontesco dei deputati di Futuro e libertà, uno di quelli che non finge, perché a lui è chiara la natura di quei fischi consanguinei, pochi ma taglienti, che domenica hanno spinto Gianfranco Fini a chiudere frettolosamente il comizio di Mirabello: “Si era creata attesa. E si è sollevato uno spontaneo moto di delusione. I militanti lo vogliono più presente, chiedono che il capo faccia il capo”. Quei fischi fanno male, perché sono fischi d'amore. “Ma Fini ha fatto bene a non dimettersi adesso, sarebbe stato uno sbaglio, ormai deve restare dov'è”, dice Granata prima di riconsegnarsi al dubbio: “Se però si fosse dimesso otto mesi fa…”.

    E dunque i tormenti della classe
    dirigente di questo piccolo partito e dei suoi militanti appassionati, soprattutto dal giorno in cui il voto delle amministrative li ha inchiodati alla semi irrilevanza, sono tutti un periodo ipotetico. “Se Fini non fosse uscito dal Pdl, con i guai che sta passando oggi Berlusconi, con il declino di Umberto Bossi, con le intercettazioni e la crisi economica, chissà come sarebbe andata”, dicono molti. Fini che sfiducia Berlusconi avrebbe trasformato il leader di Fli in una grandiosa figura retorica, come Bruto per Cesare, “sei il Fini del ventiduesimo secolo”. E' un esercizio fantapolitico cui si abbandonano, talvolta, persino nel Pdl, i più preoccupati, come il senatore Andrea Augello, quegli ex di An che forse avrebbero preferito tenerselo, nonostante tutto, Gianfranco Fini. E ci si immagina oggi Fini al posto, o schierato a fianco, di Roberto Formigoni, di Renata Polverini, di Gianni Alemanno o persino di Angelino Alfano. Come sarebbe andata? Nessuno può dirlo, e nessuno può negare che quell'eccesso di “se” è anche il marchio più doloroso di una sconfitta che i più ottimisti nel gruppo di Fini considerano solo momentanea – “lo vedete o no come sta messo Berlusconi?”, dice Carmelo Briguglio – ma il cui superamento è tragicamente legato anch'esso a una ipotesi verosimile, eppure drammaticamente incerta: “Se Berlusconi cade”. Dunque non solo il passato, ma anche le sorti progressive di Fli sono appese a un periodo ipotetico.

    “Se Fini si fosse dimesso dalla presidenza della Camera prima di tentare la sfiducia a Berlusconi, prima del 14 dicembre”, come dice Granata e come aveva inutilmente consigliato anche Alessandro Campi quando ancora vestiva i panni del grande suggeritore, “sarebbe riuscito a guidare l'opposizione. Non avrebbe consegnato il suo partito a Pier Ferdinando Casini. Forse sarebbe caduto il governo”. Ma, come è noto, non è andata così, e domenica scorsa, tra gli applausi, quando è stato chiaro che Fini continua a respingere l'idea di abbandonare lo scranno più alto di Montecitorio, più di qualcuno, tra le bandiere di Fli, ha urlato “nooo, devi dimetterti!”. Così si potrebbe cedere alla tentazione della prima immagine che Futuro e libertà comunica: un partito che chiude la luna di miele con il suo leader, che si sente deluso e trascurato. Si potrebbe leggere questo fotoromanzo agro come il finale di una bella storia d'amore: la solitudine del capo, il senso di abbandono dei militanti, le frustrazioni dei piccoli colonnelli, il tormentone delle dimissioni usato ancora dai giornali vicini al Cavaliere come arma di battaglia politica, il rimpianto per i troppi errori che si riflette nell'effluvio di “se”.

    Ma la successione serrata dei fotogrammi sarebbe incompleta senza le ragioni del leader, freddo, che sfida la delusione della sua gente. E in queste ultime ore Gianfranco Fini – lo aveva già fatto prima di Mirabello – è tornato più volte sull'argomento con i suoi uomini. Il problema, dal punto di vista di Fini, non è il gessato istituzionale che secondo molti tra quelli che gli vogliono bene finisce per ingessarlo davvero a Montecitorio, impedendogli di fare politica. Perché il presidente della Camera – lui lo sa benissimo – la politica continua a farla, terza carica delo stato o no. E infatti la prossima settimana presiederà l'ufficio politico di Fli e inizierà anche a girare le città d'Italia. Il presidente della Camera adesso farà anche un po' di campagna elettorale: sarà a Palermo e poi a Genova, dove si vota per le comunali. Insomma, il timore di Fini, il suo ragionamento ultra razionale, in realtà, si risolve tutto nella profonda consapevolezza che senza la Camera sarebbe consegnato – e senza appello – a quell'1,5 per cento di voti delle ultime amministrative. Come un Francesco Rutelli qualsiasi. E questo nessuno glielo augura.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.