Il mio nemico / 7

Mister disincanto

Redazione

Identificare un “nemico” tra i viventi è esercizio sgradevole e perfino diseducativo. All'inizio ho diffidato del giochino estivo del Foglio e dei piccoli grandi sadismi che poteva alimentare, specie in un paese come il nostro, sempre un po' al di qua della normalità, dove l'avversario politico è per antonomasia il Nemico (da eliminare), all'interno di una guerra civile latente. Poi, dopo averci rimuginato, ho provato a mettere a fuoco un nemico che, certo, può coincidere con questa o quella persona (e anche, ovviamente, con chi scrive questo pezzo), ma che ha natura più sfuggente, liquida, mutevole.

di Filippo La Porta

    Identificare un “nemico” tra i viventi è esercizio sgradevole e perfino diseducativo. All'inizio ho diffidato del giochino estivo del Foglio e dei piccoli grandi sadismi che poteva alimentare, specie in un paese come il nostro, sempre un po' al di qua della normalità, dove l'avversario politico è per antonomasia il Nemico (da eliminare), all'interno di una guerra civile latente. Poi, dopo averci rimuginato, ho provato a mettere a fuoco un nemico che, certo, può coincidere con questa o quella persona (e anche, ovviamente, con chi scrive questo pezzo), ma che ha natura più sfuggente, liquida, mutevole. E che una volta si è certamente incarnato in una frase pronunciata da un influente uomo politico. Vediamo quale.

    Dal punto di vista civile e dell'etica (sia pubblica che privata) non avrei dubbi su chi sia il “nostro” nemico, intendo il nemico dell'Italia che qualche italiano ha pur sognato o vagheggiato, dell'umile Italia come avrebbe potuto essere, del paese utopico ma anche ben concreto che è stato prefigurato in tanti comportamenti e in tante scelte di vita di nostri connazionali (sia minoranze che, in alcuni momenti, maggioranze). Quel nemico si è incarnato, per un solo attimo, nell'Andreotti della celeberrima frase “A pensar male degli altri si fa peccato ma spesso ci si indovina” (e varianti “ci si coglie”, “ci si azzecca”), frase pronunciata con l'aria di dire una cosa arguta, magari politically incorrect ma sfrontatamente vera. Ora, può darsi che la frase non sia originaria del Nostro (cercando su Google ho appreso che era di Mazarino), come ad esempio quell'altra famosa sul potere che logora chi non ce l'ha (probabile citazione dai Talleyrand), e anzi ha tutta l'aria di essere una specie di proverbio popolare. Ma non importa: lui se ne è fatto veicolo e promotore attivo. L'ha per così dire legittimata con l'autorevolezza di parecchi lustri di carriera politica (nel 1947 a soli ventotto anni sottosegretario della presidenza del Consiglio). Per la cronaca:  apprendo da un (bel) romanzo d'esordio di questa stagione, “Malafede”, di Maurizio Cotrona (Lantana) che certamente Andreotti la proferì in una puntata di “Domenica in” del 1979, invitato da Raffaella Carrà, quando l'autore del romanzo aveva otto anni: “Papà, in piedi alla mia destra, fa sì con la testa. Mamma, seduta alla mia sinistra, fa sì con la testa. La donna bionda fa sì con la testa. Io, diosanto, faccio sì con la testa”. L'io narrante, in gran parte autobiografico, aggiunge: “Il suo motto ha contaminato il mio mondo”.

    Non mi interessa minimamente l'Andreotti politico. Non so se è il padre legittimo del lobbysmo opaco che tende a svuotare la nostra democrazia o se ha contribuito a creare quella rete parallela di relazioni e poteri sommersi di cui ci informa ogni giorno la cronaca, né se ha veramente baciato Totò Riina, etc. Non lo chiamerei per questo Belzebù. Troppi ce ne sono stati e ce ne sono di aspiranti Belzebù sulla nostra scena politica. Né mi appassiona capire se nei vari processi intentatigli sia stato assolto con formula piena o per insufficienza di prove o per la prescrizione del reato. So per certo che quella frase testimonia dell'esistenza del diavolo, il quale non è per niente simmetrico a Dio, ma, come ci insegna la teologia, ha un'esistenza cangiante e impersonale (già la “persona”, infatti, esprime un ordine e il diavolo è refrattario a qualsiasi ordine) e si insinua dove trova un varco. Inoltre: come mi diceva in una conversazione privata Dudù La Capria,  quella frase è il ritratto fedele della società italiana, fatta notoriamente di furbi e di fessi, nella quale ovviamente nessuno vuole passare per fesso (e dunque ci si vieta di “pensar bene degli altri”, si ritiene che ciò costituisca un handicap nella lotta per l'esistenza).

    Senza addentrarmi in una disciplina così complicata come la demonologia (con i suoi addentellati pagani e cristiani) vorrei però sottolineare come nella “Divina Commedia” il diavolo sia, come sappiamo, “loico”, ragionatore sofistico. Mi soffermo un momento sul canto XXVII dell'Inferno, dove appunto veniamo ad apprendere di questa attitudine “filosofica” del demonio. Dante si trova nella bolgia dei consiglieri fraudolenti, coloro che hanno usato l'intelligenza (che dunque non è un valore in sé) per ordire inganni. Qui, dopo aver lasciato nel canto precedente il pagano Ulisse, Dante si imbatte in Guido da Montefeltro. Questi era stato un condottiero incline a usare astuzie e inganni, poi, pentito, era diventato frate francescano. Successivamente però lo richiama a sé il Papa Bonifacio VIII, che sapendo dei suoi “talenti”, gli chiederà un consiglio fraudolento per conquistare la roccaforte di Palestrina, poiché era in guerra con i Colonna.

    Di fronte a un senso di orrore e smarrimento di Guido, il Papa gli promette che lo avrebbe personalmente assolto poiché, in quanto rappresentante di Dio sulla terra, ha le chiavi del paradiso. Guido gli crede e così dà il suo consiglio ingannatore, che poi a ben vedere non è granché originale: ovvero mantenere molto e promettere poco. A quel punto il diavolo gli si mette alle calcagna e, appena morto, lo contende vittoriosamente a san Francesco, sceso dal cielo per tentare invano di afferrare un membro del suo ordine (curioso che i santi non sappiano in anticipo il nostro destino ultraterreno!). Questa la conclusione inesorabile del diavolo: “Ch'assolver non si può chi non si pente / né pentere e volere insieme puossi / per la contradizion che nol consente”.
    Ineccepibile. Mi fa venire in mente un test proposto negli Stati Uniti da un docente di Filosofia morale. Prima di un compito in classe fa sapere agli studenti che possono copiare. Quelli copiano ma lui dà a tutti voto insufficiente, per la ragione che se un'azione è in sé immorale o empia, tale rimane anche se qualcuno, dotato di autorità, ci dà il permesso di farla. Uno spunto di straordinaria attualità, se pensiamo che tutta la riflessione sulla banalità del male e sulla autogiustificazione degli aguzzini di Auschwitz (“Mi sono limitato a eseguire gli ordini, avevo l'autorizzazione superiore a farlo…”) si fonda proprio su queste premesse, e nega qualsiasi libertà o autonomia alla coscienza individuale. Torniamo al diavolo. Dunque nella “Commedia” appare intelligentissimo, eppure da un altro punto di vista gli sfugge sempre qualcosa. Perché? Perché gli sfugge la realtà stessa, sempre contraddittoria, variegata, mai riducibile a una sola dimensione. E infatti il “nero cherubino” si trova più a suo agio in una logica capziosa. La sua è un'intelligenza logica, apparentemente consequenziale, ma totalmente cieca verso il bene. Il bene non lo capisce e non gli crede. Nel Purgatorio (canto V), il figlio di Guido, Bonconte da Montefeltro, si pente all'ultimo istante e, al contrario del padre, si pente davvero. Così l'angelo lo porta trionfante in paradiso, mentre giù da basso un diavolo sconfitto ma ghignante irride l'angelo: “Tu te ne porti di costui l'etterno / per una lagrimetta che 'l mi toglie” (verso messo in epigrafe ad “Accattone” di Pasolini). No, le lagrimette non fanno breccia sul diavolo e anzi ne diffida, le schernisce.

    In un certo senso, l'intera modernità del disincanto si fonda sulla (un po' diabolica) cultura del sospetto: Marx, Nietzsche e Freud. D'accordo, grandi emancipatori del genere umano, però è indubbio che tutti e tre “pensano male” del prossimo. Il fatto che ogni giorno abbiamo prove di comportamenti disinteressati e impulsi non egoistici non smuove di un millimetro le certezze di quella triste triade, certo utilissima nello “smascherare”, ma secondo me inattendibile nelle sue involontarie pretese metafisiche di “reductio ad unum” del reale. L'apparente altruismo rivela per loro sempre secondi fini, più o meno consapevoli, o moventi torbidi, inconfessabili: interessi economici, mire di potere, pulsioni libidinose. Al contrario, il dostoevskijano principe Myskin (nell'“Idiota”) – antimoderno e lontano da ogni standard di normalità psichica – è costituzionalmente incapace di pensar male. Quando Parfen Rogozin, in un accesso di gelosia, sta per colpirlo dall'oscurità, gli dice: “Parfen, non ci credo”, prima di sprofondare in una crisi epilettica. E, almeno per un istante, sembra che l'“idiota” con quella frase sia riuscito quasi a disinnescarlo. Non credere alla realtà e consistenza ontologica del male in qualche caso – non sempre – può servire infatti a disarmarlo (le stesse strategie politiche nonviolente di resistenza passiva, disobbedienza civile, etc., sono ispirate da un assunto del genere).

    Ora, è indubitabile che se seguiamo l'imperativo andreottiano, se ci abituiamo a “pensar male”, beh qualche risultato si può ottenerlo. Un politico ad esempio potrebbe incorporare quel principio nel suo bagaglio professionale. Immagino, che so, una cattedra in qualche facoltà di Scienze politiche chiamata proprio così: “Pensar male degli altri” (direi un esame propedeutico, da primo anno). Mi proponi un'alleanza? Sì, ma che vantaggi nascosti ne ricavi? Hai intenzione di farmi qualche concessione? Va bene, ma per ottenerne cosa? Volpi e leoni che per Machiavelli simboleggiano le qualità di un politico (forza e astuzia), inclinano alla malizia. Tuttavia anche per un politico a pensar male full time si ottengono sì risultati immediati ma si mancano spesso finalità più alte. Se penso sempre male di qualcuno lo induco ad agire male e mi metto perennemente sulla difensiva. In un mondo ove regni la sospettosità reciproca nessuno si fida più di nessun altro e diventa difficile la possibilità di progetti lealmente condivisi. Il piccolo cabotaggio –  tipico della politica italiana – si regge sulle piccole astuzie. La grande politica ha bisogno dell'opposto: della disposizione a pensare bene del proprio interlocutore.

    L'essere umano è impastato di bene e di male, di istinti cooperativi e istinti competitivi (necessari entrambi), di una natura angelica e di una natura demoniaca. Mi scuso per la estrema sintesi da bignamino ma direi che l'essere umano non è, verosimilmente, né soltanto buono (Rousseau) né soltanto cattivo (Hobbes) ma caratterizzato da una benevolenza limitata, da un sentimento di simpatia che comunque trascende il mero interesse personale (vedi Hume, insuperato antropologo). Bisognerebbe tentare di metterlo in situazioni dove comportarsi bene e onestamente sia per lui abbastanza conveniente. Tutto qui. Andreotti implicitamente postula poi una incompatibilità tra etica e intelligenza. Se pensi bene degli altri, secondo lui non ci indovini. Credo invece che solo pensando bene degli altri riusciamo a scorgerne lo strato meno superficiale, forse anche meno visibile, e soprattutto a trovare più in profondità ciò che ci unisce. L'elemento più odioso (il suo retropensiero) della massima andreottiana è l'idea che se uno pecca capisce di più, e insomma il postulare un nesso tra intelligenza e malizia (o cattiveria), contro qualsiasi identificazione del bene con il vero. Se le cose stessero così, non vedo perché non dovremmo tutti peccare alacremente! Credo invece che proprio il pensar bene del prossimo sia il primo sintomo dell'intelligenza. Il “peccato” va evitato non perché contraddice qualche precetto catechistico ma perché ci allontana dalla verità, dalla nostra natura umana, predisposta a virtù e conoscenza, e dunque ci rende più ottusi. Aver dimenticato questo principio elementare (non tanto nelle encicliche papali, dove pure risuona, quanto nei fatti, nel senso comune dei cattolici, praticanti o meno) è una delle cause dell'impoverimento spirituale della tradizione cristiana.

    Forte è la tentazione di ritorcere su Andreotti, per contrappasso, il suo avvelenato aforisma. O a leggerlo come una specie di autoprofezia: le sue vicende giudiziarie nascono da analoga, sistematica attitudine nei suoi confronti (come sempre la vera “pena” del peccatore consiste non in una sanzione finale ma nel fatto di vivere in quel modo, di creare un ambiente a propria somiglianza…).

    A “pensar male” di lui si potrebbe dire che l'ex leader democristiano non crede mai davvero a quello che dice. Superbo comunicatore, intende soprattutto alimentare la propria mitobiografia e dare un'immagine di sé attraverso un florilegio di sentenze o battute più o meno argute (e bonariamente ciniche) che gli vengono attribuite: ed è l'immagine di un cattolico praticante, rispettoso, tradizionalista, vicino al Vaticano, però così sottile conoscitore dell'animo umano e delle sue debolezze da diventare inesauribilmente pragmatico. Un perfetto italiano: mix di realismo brutale (esibito con impudenza) e teatrale, rassicurante devozione. Magari il tutto condito da quella “finezza romanesca” che Carlo Levi voleva generosamente attribuirgli, associandolo a Rossellini (a me invece il solo confronto tra i due mi pare quasi blasfemo!). Il cattolicissimo Andreotti non può ignorare che per quanto la malvagità sia originaria e connaturata all'uomo, il bene è più originario. E infatti la confessione (Andreotti pare si confessi spesso) implica o dovrebbe implicare un ritorno alla bontà originaria, inviolata. Tuttavia il suo scopo, quando pronunciò quella frase, era un altro: presentarsi come persona sorniona, comprensiva, affidabile e al contempo temibile, un po' minacciosa, artefice della sua stessa leggenda nera. Ma le mie sono solo ipotesi, congetture abusive… Come ho prima accennato a pensar male degli altri si crea un mondo nebbioso e inospitale.

    di Filippo La Porta