Il Cav. e il suo caro presidente

Salvatore Merlo

Martedì Silvio Berlusconi si è rivolto a lui in televisione chiamandolo “il nostro presidente della Repubblica”, e la novità è tutta lì, nell'aggettivo possessivo. “Nostro”. Non era mai accaduto prima, al contrario è sempre stato con estrema difficoltà che Gianni Letta ha frenato la tentazione di fare della presidenza di Giorgio Napolitano un tema di propaganda e di iniziativa nel segno della rottura istituzionale.

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    Martedì Silvio Berlusconi si è rivolto a lui in televisione chiamandolo “il nostro presidente della Repubblica”, e la novità è tutta lì, nell'aggettivo possessivo. “Nostro”. Non era mai accaduto prima, al contrario è sempre stato con estrema difficoltà che Gianni Letta ha frenato la tentazione di fare della presidenza di Giorgio Napolitano un tema di propaganda e di iniziativa nel segno della rottura istituzionale. “Questa finta maggioranza con soli ventimila voti di scarto ha occupato in un mese la presidenza delle Camere, il governo e il Quirinale”, disse il Cavaliere nel 2006 dopo aver votato scheda bianca al quarto e definitivo scrutinio con il quale Napolitano da quel momento divenne – per lui – il presidente comunista eletto dall'Unione di Romano Prodi. Ma non è più così. “Non è un amico, ma non è certo un nemico.

    Napolitano è immune dai riflessi moralisti della sinistra berlingueriana e dell'azionismo di cui sono stati affetti Scalfaro e Ciampi. Ormai Berlusconi lo sa bene”, racconta Fabrizio Cicchitto.
    Il capogruppo del Pdl alla Camera entra persino nello specifico di cosa tranquillizza il premier: “Questo presidente della Repubblica, equilibrato e pignolo, togliattiano e migliorista, non avallerebbe mai la soluzione giudiziaria o ribaltonista del fenomeno Berlusconi e mai sarebbe d'accordo nello spingere la crisi economica su posizioni ‘risolutive' del berlusconismo”. Così, in queste ore di tramestio sulla manovra economica, di confusione politica nei rapporti con la Lega e con Giulio Tremonti, di apparente sbandamento e tensione con opposizioni e sindacati, il vigile attivismo del presidente, che telefona a Mario Draghi, colloquia riservatamente con Vittorio Grilli, si informa degli emendamenti e delle bozze, dei numeri e delle tabelle, rimbrotta e suggerisce governo e maggioranza, non provoca troppa gelosia e fastidio nel Cavaliere periclitante che – al contrario – nel momento della debolezza, ora sembra aggrapparsi al presidente della Repubblica, l'unico in grado di metterlo al riparo persino dai suoi stessi eccessi.

    Che qualcosa fosse cambiato si era già intuito nelle pieghe del rimbrotto patriottico che il premier ha rivolto non troppo tempo fa a Bossi anche per fare piacere al presidente della Repubblica: “L'Italia c'è e ci sarà sempre”. Non sono più i (pochi) vecchi saggi a contenere il capo, non è più necessario che Letta gli suggerisca cautela e rispetto del galateo istituzionale, una materia alla quale il funzionalismo spiccio, veloce e televisivo del Cavaliere rimane estraneo. La novità è che Berlusconi ha cambiato idea sull'anziano presidente; forse adesso ne ha individuato con maggiore sicurezza il carattere. Il Cavaliere, da grande intuitivo, ha maturato la convinzione che non c'è nessun populismo possibile in Giorgio Napolitano, uomo che non a caso non piace al Fatto (“Il Quirinale degli inciuci”) e la cui trasversale capacità di rappresentanza si ferma sulla soglia dell'Idv, di casa Antonio Di Pietro. D'altra parte Napolitano tiene un discorso al Meeting di Rimini perché cerca forze organizzate e non curve da stadio, parla dove ci sono i voti, il potere, anche il denaro.

    E' diventato il primo presidente “della politica” nel momento in cui la politica rischia di tornare alle monetine del Raphaël, o forse di approdare addirittura alle pietre dell'Intifada. E questo Berlusconi lo ha capito benissimo, e da un punto di vista molto concreto. Altrimenti a gennaio, nel pieno delle inchieste giudiziarie, del bunga bunga, nel momento in cui il presidente della Repubblica si trovava a gestire con sobrietà la fase più singolare della parabola berlusconiana, il premier non avrebbe mai raggiunto al telefono Napolitano per consegnargli uno sfogo dai toni accalorati e sinceri di questo genere: “Stanno cercando di eliminarmi con una violenza inaudita, che non ha precedenti, che non appartiene a uno stato di diritto. E' una indecenza, una roba fuori dal mondo, non ho fatto nulla di tutto ciò di cui mi accusano”.

    Il Cavaliere è paradossalmente rassicurato dalle caratteristiche che rendono il presidente così diverso da lui, malgrado la sobrietà dell'essere, lenta e silenziosa di Napolitano rimanga un po' sospetta, troppo lontana dall'oltranza rumorosa dell'apparire di cui Berlusconi è re. Napolitano rispetta la politica come strumento, come modo di stare al mondo, mentre il Cavaliere l'ha sempre disprezzata (“i professionisti della politica buoni a nulla e capaci di tutto…”). Eppure è l'integralismo politico di Napolitano che Berlusconi ha scoperto rassicurante. Il presidente della Repubblica sa che i soggetti della politica sono quel che sono e non quello che vorremmo fossero: finché Berlusconi deterrà nelle Camere la maggioranza conquistata con il voto, quali che siano i dissensi, sarà sempre e comunque lui il primo interlocutore del Quirinale. E questo basta a un Cavaliere al quale, tuttavia, alcuni accorti e sospettosi consiglieri suggeriscono prudenza: più ci si appiglia a Napolitano più lo si rafforza. “Non è un nemico, certo, ma non so come si comporterà se mai si dovesse arrivare al dunque…”, ha confessato ai propri interlocutori Gaetano Quagliariello. E il vicecapogruppo del Pdl al Senato, uno di quelli che ha accesso a Palazzo Grazioli, è sembrato così alludere a un rischio percepito nel Pdl, ovvero che Berlusconi possa contribuire al trionfo dell'unico avversario capace di abbatterlo, proprio come lascia intendere da tempo – e nel Pdl suona come un campanello di allarme – la Repubblica di Ezio Mauro. Chissà.

    La manovra economica è destinata a cambiare, ancora, il proprio volto e pare che oggi il premier, rabbuiato dal groviglio di numeri e veti, sia intenzionato a disertare il Consiglio dei ministri (ma davvero diserterà?) per volare a Parigi, a discutere di Libia alla Conferenza internazionale. Dicono ce l'abbia un po' con Bossi e molto con Tremonti. E chissà se è vero che ieri sera, alludendo al viaggio in Francia, il premier abbia pronunciato queste parole: “Ora ci vada Tremonti a spiegare a Napolitano il pasticcio nel quale mi ha infilato”.

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    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.