Il Cristo dei computer / 2

Storie del frutto proibito

Claudio Cerasa

Una delle ragioni che meglio delle altre spiega l’affermazione di quell’innegabile senso di sacralità legato all’universo della Apple, e la progressiva “miracolosa” identificazione tra il corpo di Steve e il logo della sua azienda, va ricercata proprio in quella ancora oggi misteriosa scelta fatta da Jobs di utilizzare la silhouette di una mela per sintetizzare in modo unico l’identità più profonda della sua società.

(2. segue) Una delle ragioni che meglio delle altre spiega l’affermazione di quell’innegabile senso di sacralità legato all’universo della Apple, e la progressiva “miracolosa” identificazione tra il corpo di Steve e il logo della sua azienda, va ricercata proprio in quella ancora oggi misteriosa scelta fatta da Jobs di utilizzare la silhouette di una mela per sintetizzare in modo unico l’identità più profonda della sua società. Jobs, che non ha mai offerto una risposta precisa alla domanda “ehi, ma perché mai proprio una mela?”, si è sempre rifiutato di smentire le centinaia di leggende metropolitane maturate intorno alla decisione di rappresentare la sua creatura con l’immagine del frutto del peccato, e non ha mai fatto nulla per arginare il gran numero di interpretazioni, anche stravaganti, nate negli anni attorno all’origine del simbolo della Apple. E così non può certo stupire se da decenni ormai i fanatici della materia si chiedano con insistenza se quella mela sia un tributo più alla cultura pitagorica o più alle odissee di Biancaneve; se quella mela sia un omaggio più alla storia dei Beatles o alle avventure di Guglielmo Tell; se quella mela sia legata più alla Big Apple newyorchese o alla mitica mela d’oro offerta da Zeus alla dea Hera; o se invece, in qualche modo, quella mela c’entri più con il primo libro della Genesi o con la genialità di Isaac Newton. A dire il vero, l’unico frammento di verità su questa storia l’ha offerto vent’anni fa l’allora membro dell’esecutivo della Apple Jean-Louis Gassée, che in una intervista al Monde rivelò per la prima volta una mezza versione ufficiale del significato della Mela. “Credo – disse Gassée – che sia indiscutibile che quella mela abbia contribuito al processo di divinizzazione del nostro amato Steve e credo sia altrettanto indiscutibile che quel simbolo misterioso abbia contribuito a rendere sacra la nostra azienda. Ma se dovessi davvero dire quali sono per noi i principali riferimenti simbolici legati al simbolo della mela, ecco, non avrei difficoltà ad ammettere che la nostra mela ha senz’altro la capacità di rappresentare insieme, e con un unico tratto, la sfera semantica del peccato, della conoscenza, della speranza, della creatività, della trasgressione e ovviamente dell’anarchia. Ed è per questo che sono convinto che chiunque sia alla ricerca dei segreti della nostra società, e in qualche modo anche dei segreti di Steve, non possa che partire dalla storia, dallo studio e dall’interpretazione del nostro simbolo”.

Il primo schizzo di mela disegnato per la Apple venne offerto a Steve Jobs a pochi mesi dalla nascita della sua società, nell’agosto del 1976, quando il mitico Ron Wayne, il creativo dell’azienda di Cupertino, consegnò all’allora capellone Jobs un piccolo banner di stoffa gialla su cui scelse di riprodurre, accanto all’immagine stilizzata di un giovane Isaac Newton coricato sotto un grazioso albero stracarico di mele, uno slogan di undici parole che nell’idea di Wayne avrebbe dovuto riassumere in modo definitivo il senso della mission della Apple: “Newton… A Mind Forever Voyaging Through Strange Seas of Thought… Alone” (Ovvero: “Newton… Una mente in continuo viaggio attraverso gli strani mari del pensiero… Da solo”). Come è facile immaginare, già all’epoca la scelta di affidare il destino di una grande azienda a una piccola mela aprì un vivacissimo dibattito all’interno della frizzante comunità degli smanettoni tecnologici, e oltre al chiaro riferimento alla mela che illuminò Newton sulla legge di gravitazione universale c’era chi sosteneva che la scelta della mela fosse stata influenzata, in realtà, anche da una miriade di altri elementi: qualcuno era convinto che Jobs si fosse voluto ispirare all’immagine della storica etichetta discografica dei Beatles “Apple Records” (prodotta, in effetti, nel 1976); qualcun altro credeva che fosse invece rimasto attratto dalla forma della mela dopo un lungo periodo trascorso nel 1975 all’interno di una grande fattoria dell’Oregon piena di alberi di mele; qualcun altro era convinto che l’idea della mela fosse maturata durante un lungo viaggio fatto in India in cui Steve, oltre che diventare buddista, scelse di adottare una rigidissima dieta vegetariana a base di mele; e qualcun altro ancora sosteneva invece che la parola “Apple” fosse stata scelta solo per far risultare la Apple in cima alle liste delle aziende presenti nell’elenco telefonico. Ma il numero di interpretazioni più o meno originali legate al significato simbolico dell’uso della mela iniziò a farsi davvero sostanzioso in seguito a una piccola rivoluzione che Jobs decise di realizzare tre mesi prima del lancio del più famoso computer della storia: l’Apple II. Era il 1977, Jobs si convinse che quello schizzetto troppo intellettualoide offertogli dall’amico Wayne fosse una delle cause determinanti del grande flop registrato dal primo computer della Apple, e nel gennaio di quell’anno decise di contattare l’art director di una delle agenzie pubblicitarie più famose del mondo (Rob Janoff della Regis McKenna) per provare a dare un sostanzioso tocco di originalità alla sua azienda. E Steve chiese di farlo anche con una certa fretta: l’Apple II doveva essere lanciato il 17 aprile 1977, le linee di credito che erano state garantite a Jobs cominciavano a non essere più sufficienti, i soldi che Steve era riuscito a raccogliere personalmente (vendendo tutto ciò che di prezioso aveva nella sua abitazione, compreso lo splendido furgoncino verde della Volkswagen modello Bill che Steve diede via per poche migliaia di dollari) iniziavano a scarseggiare e per questo, dopo due mesi di inutili ricerche, Steve decise di partecipare direttamente al processo di reinvenzione del logo Apple. E fu proprio un pomeriggio del marzo del 1977 che Rob Janoff, di ritorno dalla solita passeggiata fatta ogni mattina al supermercato, dopo aver tirato fuori dal sacchetto della spesa il solito mezzo chilo di mele verdi, ebbe l’illuminazione, e giusto qualche minuto prima che Steve piombasse nel suo appartamento iniziò a disegnare sul suo quadernino a quadretti una piccola mela nera stilizzata. Come ammetterà anni dopo Rob, fu mentre disegnava quella mela che improvvisamente si ricordò del gioco di parole che la Apple aveva scelto di utilizzare per la pubblicità del suo primo computer (“Byte into an Apple”: dove il “byte”, ovvero il numero di bit utilizzati per codificare in un computer un singolo carattere di testo, veniva pronunciato come se fosse “bite”, pronuncia “bait”, che in inglese significa, per l’appunto, mordere) e che decise d’un tratto, così, di cancellare la prima bozza di mela per farne una praticamente uguale ma con una piccola differenza sostanziale: con un “bait”, un bel morso, sul lato destro del frutto.
“Steve – ricorderà anni dopo Janoff – la guardò con attenzione, fece su e giù con la testa e dopo aver consigliato di aggiungere qualche colore in più alla mela per differenziarsi dal rigido bianco e nero dei suoi rivali della Ibm finalmente disse di sì, all right men!”.

Come ci spiega oggi il professor Massimo Canevacci, storico docente di Antropologia culturale all’università la Sapienza di Roma, “quella mela evidentemente è un’entità molto più simile al frutto della conoscenza del primo libro della Genesi che a qualsiasi altra mela comparsa nella storia della mitologia occidentale, ma ciò che più sorprende del significato metaforico legato a quel frutto è il modo in cui l’inventore della Apple ha completamente capovolto il senso di quel simbolo: perché, con Jobs, la Mela, da frutto del peccato che ‘non devi mangiare poiché se tu ne mangerai di certo morrai’, è diventata il simbolo della conoscenza a cui è quasi doveroso non rinunciare, il simbolo di un nuovo, e rivoluzionario, ‘prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi’. E dunque, come è facile immaginare, non può certo sorprendere che da quel giorno in poi i discepoli della Apple siano stati sempre più incentivati a sgranocchiare quella mela, a fare proprio quello che non era più il frutto del peccato, a stabilire un rapporto quasi carnale con il loro profeta, a interiorizzare il simbolo della Apple, a sentirsi quasi parte del corpo di Jobs e a relazionarsi con il loro Steve proprio come se la loro guida fosse l’impersonificazione di una nuova grande Conoscenza. E in questo senso, la penetrazione niente affatto metaforica della mela di Jobs all’interno delle vite dei componenti della sua comunità ha avuto l’effetto inevitabile di rafforzare il legame tra il corpo del pastore e quello del suo gregge, accelerando così quel particolarissimo processo conosciuto come ‘interiorizzazione del marchio Apple’. Fenomeno che – conclude Canevacci – prese vita quando le così dette tecnologie di consumo, introdotte nelle nostre vite, generano negli utenti una sorta di ossessione feticistica che ci porta a credere che le nostre macchine siano fornite di poteri che vadano molto al di là dell’uso che potremmo farne: come se insomma fossero più che degli oggetti, o dei prodotti, quasi dei soggetti vivi: praticamente animati”.

Per chi vuole comprendere la natura del rapporto, appunto, quasi feticistico tra l’inventore della Apple e la comunità dei suoi seguaci, e per chi vuole comprendere le ragioni che hanno permesso a Steve Jobs di diventare davvero parte integrante delle nostre vite, è importante non sottovalutare il particolare processo di cui parla in queste righe il professor Canevacci. Un processo che, come vedremo, nella storia della Apple è stato volontariamente innescato da Jobs in un momento preciso della vita della Mela: quando Steve decise di sperimentare una particolarissima lettera che di lì a poco tempo sarebbe diventata uno dei nuovi simboli dell’Apple pensiero: la “i”; “i” come i-Pod, “i” come i-Phone, “i” come i-Pad (si dice “aipad”, per carità, non “ipad”) e “i”, soprattutto, come quel rivoluzionario i-Mac presentato, da Jobs, di fronte alla comunità della Apple il 7 maggio 1988. Quel Mac – che oltre a essere entrato nel Guinnes dei primati per il manuale d’istruzioni più corto del mondo (due minimali pagine di indicazioni con pochi minimali suggerimenti per far funzionare il Mac del tipo: connettere il computer alla rete elettrica e poi accendetelo tramite apposito tasto, punto) – è diventato famoso per essere stato il primo computer con cui la Mela ha cercato di stabilire un rapporto “friendly”, d’amicizia, tra la macchina e il suo interlocutore umano. E così, capitava che il Mac ti dava il benvenuto con un “Say Hello to Mac”; che ti guidava con un’interfaccia grafica che ti sorrideva al momento dell’accensione; che ti veniva venduto dentro una custodia che già all’epoca si chiamava “second skin”, seconda pelle; e che con quella “i” pronunciata “ai” come fosse un “Hi” (come un “hello” abbreviato, come insomma un “ciao amico mio sono un Mac”) stabiliva effettivamente un rapporto caldo, diretto e non spersonalizzato tra l’utente e il suo computer. Ebbene: tra gli amanti della Mela si dice che fu proprio quello il momento in cui per la prima volta gli oggetti dell’Apple cominciarono a essere costruiti, ideati e progettati come fossero non più delle “cose” ma come se in un certo senso fossero dei soggetti con una specifica identità, come se iniziassero, insomma, praticamente a prendere vita. 

“Ma al di là dell’incredibile sfera simbolica maturata attorno all’universo della Apple – come sostiene l’ex vicepresidente di Apple Jay Elliot nel libro da poco uscito “Jobs l’uomo che ha inventato il futuro” – una delle ragioni che forse più delle altre ha permesso in questi anni al mago Steve di trasformarsi in una potenza simbolica inaudita è legata al modo in cui l’inventore della mela morsicchiata è riuscito a diventare l’ultimo vero portatore sano del vecchio spirito dell’american dream, di quella speranza di migliorare la propria vita, e di raggiungere in qualche modo la felicità superando gli ostacoli materializzatisi sul proprio cammino, attraverso la realizzazione e l’affermazione di un progetto, di un pensiero, di un’idea e appunto di un sogno. Perché la storia dell’affermazione della Apple è, in un certo senso, la storia dell’affermazione del capitalismo americano, è la storia esemplare di come ancora oggi sia possibile far risorgere delle aziende che più volte sono andate vicino alla morte ed è soprattutto la storia della ascesa di un piccolo gruppo di amici che con la forza delle idee ha imposto la sua visione del mondo nei mercati internazionali, e che come un vascello che riesce a trovare sempre le rotte giuste per resistere alle grandi tempeste sa che anche nei momenti di difficoltà è possibile trovare le strategie giuste per andare avanti.

Ma per capire bene il discorso di Elliot è forse sufficiente riportare alcuni risultati importanti registrati in questi anni dalla Apple: numeri che nel giro di quattordici anni, da quel maledetto 6 agosto 1997 in cui la casa di Cupertino segnò la perdita trimestrale più pesante della sua storia (530 milioni dollari), tra iPod, iPhone, iPad e naturalmente iTunes, le hanno permesso di raggiungere traguardi da urlo. Fino ad arrivare alle 14 e 30 del 27 maggio del 2010 a capitalizzare, per la prima volta nella sua storia, più dei grandi nemici della Microsoft (passando dai 7,63 miliardi di capitalizzazione del 2001 ai 244 miliardi del 2010, anno in cui Microsoft arrivò a quota 221,35), diventando nel gennaio del 2011 la seconda azienda più grande del mondo alle spalle del gigante petrolifero della Exxon e riuscendo infine a superare proprio la Exxon giusto pochi giorni fa, lo scorso dieci agosto, arrivando a capitalizzare 338 miliardi contro i 337,7 del colosso petrolifero: davvero niente male per un’azienda che dieci anni prima era assai vicina a un clamoroso fallimento.

“Il rapporto con la Microsoft – dice il professor Marinelli – e più in generale con tutti i rivali avuti nel tempo da Steve Jobs, dall’Ibm di ieri alla Google di oggi, è uno degli elementi chiave per comprendere il modo in cui si è andato a consolidare il culto della Mela. La Apple, si sa, è nata come una rivoluzionaria controcultura che cercava di affermare le sue ragioni contro il noioso strapotere dominante dei grandi colossi tecnologici americani, e se ci si pensa bene non c’è gesto, non c’è atto, non c’è momento della vita della Apple in cui i suoi capi non hanno cercato di far sedimentare nell’immaginario collettivo della propria comunità non solo la percezione universale della strafigaggine del proprio marchio ma anche l’idea che gli ‘appleist’, i devoti del verbo della Apple, fossero in fondo una sacrificata minoranza che doveva combattere ogni giorno per affermare i suoi principi contro i grandi monopolisti, contro i grandi tromboni complici del sistema dominante e contro, insomma, i conduttori unici delle coscienze tecnologiche. E non è certo un caso che l’essere riusciti a superare gli acerrimi nemici della Microsoft è stato percepito dalla comunità della Apple, e a dire il vero non soltanto da loro, come se fosse, più in generale, una formidabile allegoria della grande vittoria di una piccola e gagliarda minoranza contro le forze maligne del famoso sistema dominante”. (2. continua)

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.